martedì 25 marzo 2025

L'ANNO DEI BIANCOSCUDATI

 



Incamminatevi per Via Armistizio, superate il Ponte sul Bassanello e procedete per un breve tratto su Corso Vittorio Emanuele, un tragitto di una decina di minuti per raggiungere le gradinate dello stadio dedicato a “Silvio Appiani” valoroso fante cittadino, nonché attaccante e allenatore del Padova negli anni pionieristici del calcio del primo Novecento. L’Appiani è stato probabilmente l’impianto italiano con il cipiglio più inglese, un fortino, un complesso di muratura e tubi innocenti privo di simmetria con le tribune praticamente a ridosso del terreno del gioco, dove il boato faceva alzare in volo i piccioni annidati sulle cupole della Basilica di Santa Giustina. L’anno di grazia, resta il 1957/58 quello del terzo posto in Serie A con la squadra dei “panzer” di Nereo Rocco: Pin, Pison, Azzin, Biasin, Scagnellato, Moro, Mari, Hamrin, Rosa, Brighenti, Boscolo. Se date un’occhiata ai filmati di repertorio noterete come la maggior parte dei cartelli pubblicitari del tempo promuovessero marche di liquori e di alcolici vari. Aspetto se vogliamo da riportare, curioso, sicuramente squarcio di un’epoca dove la televisione e la modernità avevano appena mosso i loro primi passi. Insomma, Cinzano, Campari, Kranebet, Pedavena, Cynar, Itala Pilsen, Kina Kina della distilleria Pizzolotto, Rabarabaro Zucca. D’altra parte, cosa volete, erano gli anni in cui l’Aperol dei F.lli Barbieri era promosso come rinvigorente, alla stregua del Vov ideato da Gian Battista Pezziol. Insomma, prima della Milano da bere degli anni Ottanta esisteva la piccola Padova da bere degli anni Cinquanta, quella degli operai delle Officine Meccaniche Stanga, Viscosa oltre a quella consueta di docenti e studenti universitari. Quel Padova quando la domenica giocava in casa andava a messa alla Basilica di Sant’Antonio, dopo il gruppo proseguiva a piedi verso Piazza delle Erbe e pranzava alla Trattoria da Cavalca, oggi ristorante Da Dante alle piazze, un pranzo leggero per la squadra, ovvio, magari al Paròn Rocco un bicchiere di vino, ma solo a lui. Catenaccio? Macché, dicerie, come dicerie furono le supposizioni riguardanti giocatori ritenuti sul viale del tramonto o venuti in Veneto a racimolare gli ultimi spiccioli di fine carriera. I biancoscudati, nati nel 1910 nella sede della Rari Nantes Patavium, imporranno il loro gioco a tutti gli avversari compresi quelli di prestigio. Non fu un caso se a fine campionato risulteranno il quarto attacco della Serie A. il Padova di Rocco seppe tenere conto in ugual misura delle esigenze della difesa e dell’attacco, con una distribuzione degli uomini ordinata in ogni settore e con una mobilità stupefacente. In difesa c’era sempre “l’uomo in più” affinché l’isolata prodezza di un attaccante avversario non mettesse in crisi l’intero settore; a centrocampo lo schieramento fu denso e al tempo stesso elastico, mentre l’inserimento in zona rete degli attaccanti appariva puntuale affidato a due o tre elementi di sicura stima. Nota di colore: alla vigilia della trasferta del Padova (i cui giocatori erano appellati come “i poareti”) al Comunale di Torino contro la Juventus, Rocco fu intervistato (si dice) per la prima volta nella sua vita. Al termine il giornalista lanciò il consueto augurio “Vinca il migliore” e il “Paròn” rispose prontissimo e stringato, nascosto dal suo inseparabile borsalino scuro: “Speremo de no”. Qualcuno a fine stagione parlò di rivincita dei giubilati, da Ivano Biason libero spazzatutto, al jolly Giacomo Mari, al fantasista argentino Humberto Rosa, allo stantuffo Silvano Moro che il Milan vendette per quattro soldi, al poderoso attaccante Sergio Brighenti, al portiere Antonio Pin, al generoso e imprendibile Kurt Hamrin. E poi la disciplina, ferrea, un clima da caserma ma senza clausure e solitudini, diciamo una collettiva letizia di aderire alla causa tramite gesti meditati come fessure di nuvole, e sarà un campionato con le ginocchia sul fango e sulla polvere, forse giocato con la prudenza di un cieco atta a limare l’invocazione del successo nella chioma di luce di quelle maglie bianche da serafini, altrochè panzer.

                     




lunedì 10 marzo 2025

LA TORRES DEL PORTO

 


L'ombra di Cagliari, dello scudetto, di Gigi Riva ha per certi versi oscurato l'altra Sardegna del calcio, quella della Torres, più ridotta, meno esigente, mai stata neanche in B ma pur sempre quella di Bruno Rubattu, di Gianfranco Zola e dell'attaccante greco Theofilos Karasavvidis. E chissà che bellezza aver visto giocare la Torres nei campionati sardi di “foot-ball” del 1911 nel campo del quartiere Porcellana, fra gabbiani in volo e odore di acciughe al pomodoro, riadattando un capannone adibito a falegnameria ad uso spogliatoio e palestra, esattamente otto anni dopo rispetto al 20 settembre 1903 quando l’Educazione Fisica Torres farà il suo esordio pubblico con un saggio ginnico che si tenne nel teatro Verdi. E chissà che bella era pure la Torres allenata negli anni trenta dall’ungherese Ferenc Plemich, quella che sfiorerà la serie B giocando nell’impianto di Via Molino acquistato per 80 mila lire, dove la prima pietra venne posata alla presenza del Re d'Italia Vittorio Emanuele III di Savoia, che scoprì una lapide, (oggi unico elemento superstite dell'impianto originario) con inciso i nomi degli atleti della polisportiva torresina caduti sul fronte durante la Grande guerra. Lo chiameranno inizialmente stadio “Torres” senza troppa fantasia, successivamente modificato negli anni Settanta in stadio "Acquedotto", proprio per via della presenza della palazzina dell'acquedotto cittadino in prossimità dell'ingresso. Poi nel 2001, a due mesi dalla sua morte, lo stadio fu intitolato a Giovanni Sanna detto Vanni, calciatore originario di Alghero che nella sua carriera militò nella Torres sia come giocatore, sia come allenatore, oltre a ricoprire il ruolo di direttore sportivo. E altrettanto struggente  e piena di sorrisi fu sicuramente la partita del settembre 1944, giocata per gentile concessione della Commissione Alleata, fra una rappresentativa rossoblù locale e gli avieri inglesi della R.A.F. La Torres vincerà l'incontro 4-3, il referto riporta secco le reti segnate da Chiappe, Moi, Arca e Mastino. Altre Torres negli anni a venire avranno piccole glorie scritte sul basalto, le pietre dei fenici, quella del 1959 per esempio, con la promozione in C quando ancora era in vita il poeta Salvator Ruju che bene descrisse la città nelle sue opere, dal quartiere San Donato a San Sisto a tutte le strade nella zona bassa di via Turritana fino alle vecchie Conce. “Allora sì che Sassari sembrerebbe un mazzo di fiori, bello e profumato”. E quasi trent’anni dopo, sabato 20 settembre 1986, la Piazza d’Italia, il salotto cittadino, assunse tutte le caratteristiche di un’inconfondibile “osmosi generazionale”: i più giovani facevano la spola tra il monumento di Vittorio Emanuele e il Kenny, il nuovo fast food all’americana che alimentava la cultura paninara del periodo, imbelletatta nelle camerette dai poster di Madonna e dei Duran Duran. Tempi andati, signorsì, tempi del secondo Governo Bettino Craxi, delle prime crepe dell’Unione Sovietica di Gorbaciov, delle migliorie urbanistiche del sindaco Raimondo Rizzu, perché ecco, gli anni ’80 furono una ventata di modernizzazione complessiva una volta  messe a tacere le tensioni e le frizioni politiche derivanti dal decennio degli anni di piombo. La Sassari degli anni ’80 – sulla falsa riga di quasi ogni altra provincia italiana – si lasciò coinvolgere e travolgere dai piaceri della vita e dall’edonismo di matrice berlusconiana. Lo spaccato della Sassari dell’epoca sarà fedelmente inquadrato da una pagina del quotidiano "La Repubblica" in un articolo del 1991 che la definì come “la più ricca delle città povere del sud o la più povera delle città ricche del centro nord “. Nel centro e fuori si registrò infatti il più alto reddito medio pro-capite dell’intera Sardegna, superiore anche a quello di Cagliari: il settentrione sardo si mostrerà come il crogiolo delle maggiori attività produttive regionali. In un contesto economico e sociale di tale portata, la Serie C2 in cui vivacchiava la Torres appariva ormai stretta a una piazza divenuta maggiormente di palato fine e che si autoalimentava di passioni e ardori variegati e variabili. Da qualche anno "l’Acquedotto" non calamitava troppo le attenzioni di gente, di sponsor e scarso interesse persino delle stesse istituzioni. Serviva un cambio di passo rapido, serviva una "DeLorean" che lanciasse nel futuro i rossoblù. Tra i Benelli a tre marce e le 127 sistemate nella classica spina di pesce nei parcheggi di Piazza Castello, non sfuggiva agli occhi dei passanti la figura di un uomo che camminava ininterrottamente tra la sede della Brigata Sassari e Palazzo Ducale. Portava con sé un’immancabile ventiquattrore in pelle che traboccava di fascicoli e carte bollate, voglia di rivalsa e accesa passione. Il suo nome è Bruno Rubattu, impareggiabile deus ex machina della Torres targata anni ’80. Icona del piacere sportivo di matrice sassarese, Bruno Rubattu si classificherà certamente vincitore in astratto del premio miglior presidente/tifoso che la città turritana ricordi nella sua storia. “Zi vidimmu alla tòrrese” era il suo personalissimo modo di congedarsi dai camerieri del Bar Grandi (punto di ritrovo della tifoseria) non prima di aver consumato un buon ristretto insieme all’immancabile brioche. Un tipo estroso, pronto a prendere fuoco improvvisamente ma dietro il quale si celava la bonomia e il genuino trasporto sentimentale di un uomo innamorato dei colori della sua città e della sua squadra. Presidente rossoblù a partire dal 1980, Rubattu investirà svariati milioni di lire nel club fino all’autunno del 1986, quando consegnerà al pubblico la Torres probabilmente più forte e più competitiva di sempre. La Torres del portiere Sergio Pinna,  della dogmatica autorità difensiva di Angelo Del Favero, del pendolino Walter Tolu sulla fascia destra, del cinismo sotto porta di Roberto Ennas e dell’immenso talento di un giovanissimo Gianfranco Zola arrivato dalla Nuorese. Direttore d’orchestra? Lamberto Leonardi, per Sassari semplicemente Bebo. Entusiasmo, buoni risultati. Rubattu riportò a Sassari – dopo 15 anni – il figliol prodigo Mario Piga che lo ripagherà a dovere: goal promozione in C1, al “Moccagatta” di Alessandria, il 7 giugno 1987 con esodo allegato. Un vero capolavoro per Bruno Rubattu che esternò tutta la sua soddisfazione rilasciando un’intervista divenuta famosa: “Avevo promesso la C1 a Sassari e alla provincia di Sassari. Ci sono riuscito e sono l’uomo più felice del mondo”. La Torres di Rubattu è anche un corollario di mitologia applicata al calcio dinanzi alla quale non può non scappare un sorriso malinconico: l’esodo di Sassari ad Alessandria per la partita promozione (agenzie di viaggio e traghetti Tirrenia presi letteralmente d’assalto nella settimana che precede l’appuntamento decisivo), le imprese alcoliche di Pinuccio “La Cina” e il senegalese Nene «Gerard» Ndiaye Niang, meglio conosciuto a Sassari come “Gurgugnao” (qui in un’intervista del 1987) senegalese giunto in Sardegna per cercare fortuna e futuro negati nel suo paese. La “torresinità” nel sangue legata al simbolo folkloristico della Torres dell’epoca ossia il suo immancabile bonghetto e sassarese d’adozione, Gurgugnao (dal senegalese “gorgow gnaw“, traducibile in uomo brutto) catalizzò l’attenzione – e le simpatie –: “La Torres è una squadra di leoni e se permettete io di leoni me ne intendo”. Al tramonto degli anni ’80 tornerà anche il derby regionale con il Cagliari: indelebile quello del 23 ottobre 1988 giocato a Sassari. La città si trasformò in un deserto silenzioso. L’unica forma di vita era rappresentata proprio da Gurgugnao che si diresse all’Acquedotto percorrendo l’area adiacente la stazione ferroviaria di via XXV Aprile. Riconosciuto e apostrofato da un nutrito gruppo di tifosi del Cagliari, Gerard rispose con un’ironia da consumato sassarese: “Muddi, africani!”, letteralmente “Zitti, africani!“. Roba che oggi si cadrebbe nel politicamnete scorretto. La Torres di Rubattu sarà un pezzo di storia. Dopo arriverà dalla Grecia Karasavvidis, la C1, persino una serie B sognata con Claudio Gentile in panchina ma vicende extra calcio all'inizio del nuovo millennio condanneranno la Torres a un brusco risveglio. Fozza Torres, dicono loro, con due z, non è un errore grammaticale, per quelli basto io.






 

 

venerdì 7 marzo 2025

LE AQUILE DEL VALDARNO

 


Salgo verso Montevarchi in un uggioso sabato pomeriggio di febbraio, oltrepasso i boschi corruschi e brumosi del Chianti e mi appare il Valdarno con tutta la sua toscanità d’appendice, luogo nevralgico di incroci fra vecchie repubbliche e cavillosi feudatari, diventato nel tempo prospero “Mercatale” di eccellenze artigianali e artistiche. Qui la manifattura ha messo in vetrina non solo cappelli, seta, scarpe in pelle e borse di qualità ma ultimamente persino il miglior dolce a lievitazione naturale detto “Panbriacone” grazie a un lievito madre ultracentenario unito alle mani sapienti di quelli della Pasticceria Bonci, autentico “laboratorio” da peccati di gola locato in Via Amerigo Vespucci. Ma la “Montevarchinità” raccolta intorno al Palazzo Pretorio di Piazza Varchi osteggia non solo la sua miscela di luogo di frontiera fra Chianti e Pratomagno ma ambisce anche ad altre tradizioni e curiosità, stretta intorno alla collegiata di San Lorenzo, come gli odori di antiche spezierie tipo quella di Corrado Salvini, in cui si realizzano creme senza alcuna goccia di silicone ma solo prodotti naturali. Occorre incamminarsi verso Via Roma dove batte forte il cuore della “memoria rossoblù”, un piccolo scrigno di cimeli, maglie, quadretti, coppe, libri, giornali, medaglie, qualsiasi cosa insomma abbia attraversato la storia del Montevarchi calcio e non solo, perché state bene attenti qui, sotto questi cieli plumbei e spaziosi “L’Aquila” ha cominciato a battere le sue ali già dal 1902, ergo, dati alla mano, la possiamo attestare all’ottavo posto in Italia fra le società nate e dedite a una polisportiva di discipline, fra cui il primo empirico tentativo di prendere a calci un pallone, un record mica da poco se andiamo a leggere certi nomi importanti che la precedono o che la seguono nella lista. E non a caso dentro un’amena vetrinetta sbuca un manuale edito da Hoepli (il primo stampato nel nostro paese) in cui sono riportate le prime regole, (rules avrebbero detto a Sheffield) del gioco del calcio. Niente nel museo è lasciato al caso, tutto, nonostante la non eccessiva ampiezza del locale è sistemato con cura certosina e massima attenzione, poiché niente possa sfuggire al visitatore interessato. Poi incominciano a sbocciare i nomi di 125 anni di vicende sportive; e se il ciclismo sembra farla da padrone agli esordi basta poco che un pallone in cuoio marrone incominci a rimbalzare sugli empirici impianti che fecero da passerella per giungere all’ultimo “Gastone Brilli Peri” racchiuso fra Via Gramsci e Piazzale Salvator Allende, stadio circolare, direi quasi oracolare dove il busto in granito del celebre sportivo campione del mondo di Automobilismo nel 1925 (deceduto cinque anni più tardi in un incidente a Tripoli) pare osservare con disincanto le sorti dei rossoblù. Se ai tifosi del Montevarchi chiedi quali siano stati gli episodi o i momenti più rilevanti e entusiasmanti della parabola rossoblù, esce un trittico di date e un pugno di nomi. D’altra parte, a Montevarchi come in altre piazze simili, dove il futuro sportivo è purtroppo incerto ci si aggrappa volentieri alla storia impauriti dalla condanna del domani e dalle leggi balzane del calcio moderno. A Montevarchi leggendo le pagine dei loro volumi editi con sincera passione si comprende che c’è un vento quasi magico, una finissima tramontana del Valdarno alzatasi dai luoghi dei pionieri locali della pedata, dal cosiddetto campo di “Nicco” delimitato si dice da uno steccato in legno, al “Tondo” di Piazza Battisti, oppure il pittoresco “Orto di Giorgio” fino agli ultimi “Brilli Peri”, il vecchio e il nuovo o più recente, mettiamola così. Dicevamo dei momenti da copertina, quelli conservati in pagine ingiallite o in foto seppiate, solo vale la pena fra la piena dei risultati di aprire un varco nello scorrere delle acque, una sorta di romanzo d’appendice che poi è un grande mistero, un mistero strano, una roba che sembra uscita da un libro cupo di James Ellroy o Stephen King soltanto non è un romanzo, bensì una vicenda vera, probabilmente tragica con nome e cognome: Renato Pieraccioni. Un pistoiese, un uomo appassionato di sport nonché praticante, di quelli tipici del suo tempo, dalla scorza dura, temprata, lo sguardo pugnace e la brillantina nei capelli tirati all’indietro. A Montevarchi si trasferirà nel 1929 proprio per giocare a calcio. Non solo, sempre a Montevarchi troverà moglie, nonostante resti presto vedovo, e gli nasceranno due figli. Eppure, non mollerà alla vita, non si darà per vinto, continuando a seguire i giovani della squadra fino a sedersi sulla panchina dell’Aquila. Un giorno del 1944 al termine di una partita amichevole, seppure contro i rivali di sempre del San Giovanni V.no, di lui si perderà ogni traccia in seguito a una fuga a causa di scontri fra le opposte fazioni. Un sacco di ipotesi, nessun riscontro. Dopo dieci anni l’anagrafe italiana lo dichiarerà morto. Assurdo. Ucciso? Fuggito? Arruolatesi dove, e con chi? Legione Straniera? Resistenza? Salò? Niente, niente di niente, nessuna ipostesi suffragata da prove concrete, un mistero clamoroso che aleggia da oltre ottant’anni sopra queste case adagiate sulla riva sinistra dell'Arno. Nel trittico annunciato precedentemente ci sono degli anni aurei. Diciamo una cosa in assunto: il Montevarchi non è mai andato oltre le colonne d’Ercole della serie C ma è da dentro questo campionato che possiamo estrarre gli appunti più belli.  Nel 1970 il Genoa incontrerà il Montevarchi in serie C. I rossoblù liguri erano reduci da un buon inizio di campionato: cinque vittorie e tre pareggi nelle prime otto partite e i tifosi speravano in un altro successo. Ma il piccolo Montevarchi non fu affatto d’accordo e si difese con genorosa animosità, galvanizzato dall’opportunità più unica che rara di giocare dentro uno stadio leggendario come il Luigi Ferraris. Partita, scrivono i giornali  coevi, monotona, disputata sotto il cielo grigio di novembre e corredata dalla temperatura pungente di stagione. Il gioco non decollava, il classico batti e ribatti a centrocampo in cui il pallone girovagava da una metà all’altra del terreno ma raramente entrava nelle rispettive aree di rigore. Per tutto il primo tempo si assistette a fraseggi senza costrutto e si andò al riposo a reti bianche. Il secondo tempo,  manco a dirlo, riproporrà il tema blando dei primi 45 minuti finché, proprio quando il risultato sembrava già scritto sul referto, accade il fatto inatteso: un pallone lungo apparentemente innocuo stava per entrare nell’area del Genoa, Maselli lo protesse e Lonardi accennerà l’uscita per raccoglierlo in tranquillità; tra i due però ci fu un malinteso, forse Lonardi si aspettava che Maselli gli allungasse la sfera invece quest’ultimo probabilmente pensò che il portiere fosse ben più rapido nell’uscire. A quel punto Piero Bencini s’inserisce tra i due, toccando la palla e infilandola nella porta incustodita giusto a cinque minuti dalla fine. Sul brumoso Ferraris calerà il silenzio, qualche fischio di riprovazione e i giocatori di casa uscirono dal campo in un clima quasi irreale, il Montevarchi invece fra gli abbracci perché si era davvero scritto una pagina di storia da conservare gelosamente. Serie C, Serie C, benedetta Serie C perché per tornarci due anni dopo la vittoria di Marassi, al Montevarchi servirà uno spareggio sul neutro di Firenze contro la Pistoiese e anche questo sarà un fiore all’occhiello del club del Valdarno. Correva la stagione 1971/1972, ed il Montevarchi, come detto, si ritrovò nel girone E della Serie D a causa della retrocessione patita l’anno precedente. La voglia di risalire subito di categoria apparve concreta, serviva farlo anche per ridestare la tifoseria come dichiarò all’avvio del campionato il mai dimenticato Lezio Losi: la squadra apparirà subito di ottima caratura, e sicuramente a conti fatti poteva aspirare al successo. L’allenatore Angelillo dirigeva giocatori importanti come Picciafuoco, Scarpa e Trevisan. Si giunse quindi nelle fasi finali del torneo con un tris composto da Montevarchi, Pistoiese e Pontedera a giocarsi la vittoria. In realtà la stagione fu comunque piuttosto complessa: il tecnico Angelillo venne clamorosamente esonerato con la squadra in testa alla classifica; al suo posto si sedette il vice Babacci ma in pratica il mister “ombra” risulterà l’amatissimo Costanzo “Lupo” Balleri, fresco di sgravio livornese. Alla trentunesima giornata al Brilli Peri arrivò il Foligno, squadra ostica tuttavia già fuori dalla lotta per la promozione. Scarpa porterà in vantaggio i Rossoblù, che si fanno maldestramente riacciuffare. In avvio di secondo tempo, Trevisan rimise apparentemente le cose apposto con un gol splendido, nondimeno, l’arbitro Foschi di Forlì decide di annullare la rete; si passerà così dai gridi di giubilo, agli accidenti e alle minacce, il clima, eufemisticamente, si surriscalderà un pochino. Una manciata di minuti dopo, lo stesso Foschi convaliderà una rete agli ospiti che a tutti (forse troppo esasperati dalle imprecazioni) apparve in netto fuorigioco: proteste ovunque, tanto che l’arbitro ormai in difficoltà decise di espellere Berrettini. A questo punto la rabbia sale alle stelle: i tifosi si riversano violentemente verso la recinzione che separa gli spalti dal campo da gioco, iniziano a spingere e forzare, fino al cedimento definitivo della stessa rete. Invasione di campo e caccia alla terna arbitrale, che seppur in fuga, non guadagnerà la protezione degli spogliatoi se non dopo aver ricevuto un po’ di quella rabbia generata. Campionato finito? No, tutt’altro, eccola, la Montevarchinità. Il campo ovviamente sarà squalificato (per un anno), ma la città e la squadra non si arresero. E allora il Montevarchi darà vita ad una incredibile rincorsa alla vetta, sorretta sempre da un gran numero di spettatori al seguito. L’Aquila agganciò la Pistoiese al primo posto in classifica con 47 punti, e si spalancarono le porte del Comunale di Firenze (20.000 circa sugli spalti). A Montevarchi l’organizzazione per la trasferta sarà capillare, un autentico esodo alla volta del capoluogo toscano con mezzi vari, e in una bella giornata di primavera il Montevarchi, va detto, giocherà 88 minuti di catenaccio puro, respingendo gli attacchi degli arancioni di Pistoia, per poi passare in vantaggio a 2 minuti dal termine con un di sinistro di Scarpa, nel delirio assoluto dei presenti arrivati da Montevarchi. Facciamo un salto temporale, vi ricordate il libro “il mio anno preferito”? vi parteciparono numerosi scrittori inglesi, “tifosi”, fra cui naturalmente c’era anche Nick Hornby l’autore del celebre “Fever Pitch” ossia Febbre a 90°, diventato anche pellicola di culto laico. Ognuno descrisse la sua stagione preferita in riferimento alla propria squadra del cuore. Ecco, se trasliamo l’idea a Montevarchi la stagione calcistica 1983/84 è una di quelle votate a maggioranza, non capita infatti spesso di veder vincere nella stessa annata campionato e coppa di categoria. La pubblicazione che loro hanno dedicato a questo evento si intitola “Una stagione da incorniciare” una bella cronaca di Gianni Sereni e Sauro Bargagli. Ci sono due date di riferimento: 13 maggio e 2 giugno 1984. Il campionato Interregionale (allora si chiamava così) era un coacervo di nobili decadute, paesi bellicosi, calci negli stinchi e improvvisi squarci di classe, un bel fritto misto insomma. E pensare che il Montevarchi vincerà quel campionato dopo essere precipitato da due categorie nel giro di tre anni, dopo aver calcato stadi illustri e compiuto trasferte memorabili, da Catania a Reggio Calabria, da Salerno fino alla vicina Empoli che si stava preparando a salire in serie A. I dirigenti non si persero d’animo allestendo una squadra rinnovata nel fulcro e affidandola ad un vecchio marpione della categoria: Carlo Caroni. Una mossa, come si dice nel libro, azzeccata. In porta andò un beniamino del posto Giacinti, a corredo dei montevarchini DOC come Vinicio Brilli e Tiziano Casucci, poi Napolitano e Marco Panella, l’indimenticato e sfortunato Bruno Beatrice ex Fiorentina, oltre a Taddei, Mauro Capoduri, Giorgio Garozzo, Giuliano Niccolai, Luciano Macrì (celebre la sua foto nel Bar delle Badesse (località alle porte di Siena) scattata al "Rastrello" quando l'attaccante giocava nei bianconeri della Robur, di fianco a Diego Armando Maradona durante un amichevole estiva con il Napoli. Si continua con Roberto Malotti, Tonino Stilo e Luigi Masini. Entusiasmo, voglia di rinascere, qualche nota stonata in avvio, infine, in una grande cornice di pubblico la partita decisiva al BrilliPeri dove la Cuoiopelli di Santa Croce sull’Arno venne battuta 2-1 e il Montevarchi ritroverà l’agognata Serie C. Non finirà lì come detto, il Montevarchi farà un bel giretto itinerante nella penisola fino a giungere alla finalissima fissata per il 2 giugno allo stadio di Chioggia contro il Suzzara squadra della provincia di Mantova. Manco a dirlo una decina di pullman e auto private alla volta del Veneto. Sul campo bianconeri avversari in vantaggio poi gran pareggio di Niccolai su punizione (alla Zico, o alla Platini n.d.r.). E nell’epilogo dal dischetto si erse a protagonista il quasi quarantenne portiere Romeo Gastone Giacinti, abile a intercettare due rigori e a far scendere la Coppa Italia dei “semi prof” in Valdarno. Al museo rossoblù di Via Roma Riccardo Rossi è entusiasta del progetto “memoria”, associazione apartitica e apolitica, dove c’è una canzone edita dagli U2 che sintetizzerebbe benissimo la loro tensione emotiva per la storia di questi colori: Pride (In The Name Of Love) oppure se vogliamo restare in Italia, estrapoliamo una frase da "A muso duro" del compianto Pierangelo Bertoli: "Con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro"

 

IL CASO MO JOHNSTON

  Quartiere di Govan, esterno giorno. Luce tenue della mattina, asfalto bagnato, un chiosco di chips e hot dog infradiciato dalla pioggia ap...