Salgo verso Montevarchi in un
uggioso sabato pomeriggio di febbraio, oltrepasso i boschi corruschi e brumosi del Chianti
e mi appare il Valdarno con tutta la sua toscanità d’appendice, luogo
nevralgico di incroci fra vecchie repubbliche e cavillosi feudatari, diventato
nel tempo prospero “Mercatale” di eccellenze artigianali e artistiche. Qui la
manifattura ha messo in vetrina non solo cappelli, seta, scarpe in pelle e
borse di qualità ma ultimamente persino il miglior dolce a lievitazione naturale
detto “Panbriacone” grazie a un lievito madre ultracentenario unito alle mani
sapienti di quelli della Pasticceria Bonci, autentico “laboratorio” da peccati di gola locato in Via Amerigo Vespucci. Ma la “Montevarchinità” raccolta intorno
al Palazzo Pretorio di Piazza Varchi osteggia non solo la sua miscela di luogo di
frontiera fra Chianti e Pratomagno ma ambisce anche ad altre tradizioni e
curiosità, stretta intorno alla collegiata di San Lorenzo, come gli odori di
antiche spezierie tipo quella di Corrado Salvini, in cui si realizzano creme
senza alcuna goccia di silicone ma solo prodotti naturali. Occorre incamminarsi
verso Via Roma dove batte forte il cuore della “memoria rossoblù”, un piccolo
scrigno di cimeli, maglie, quadretti, coppe, libri, giornali, medaglie, qualsiasi
cosa insomma abbia attraversato la storia del Montevarchi calcio e non solo,
perché state bene attenti qui, sotto questi cieli plumbei e spaziosi “L’Aquila”
ha cominciato a battere le sue ali già dal 1902, ergo, dati alla mano, la possiamo
attestare all’ottavo posto in Italia fra le società nate e dedite a una
polisportiva di discipline, fra cui il primo empirico tentativo di prendere a
calci un pallone, un record mica da poco se andiamo a leggere certi nomi importanti
che la precedono o che la seguono nella lista. E non a caso dentro un’amena vetrinetta
sbuca un manuale edito da Hoepli (il primo stampato nel nostro paese) in cui
sono riportate le prime regole, (rules avrebbero detto a Sheffield) del gioco
del calcio. Niente nel museo è lasciato al caso, tutto, nonostante la non eccessiva ampiezza del locale è sistemato con cura certosina e massima attenzione, poiché niente possa
sfuggire al visitatore interessato. Poi incominciano a sbocciare i nomi di 125
anni di vicende sportive; e se il ciclismo sembra farla da padrone agli esordi basta poco
che un pallone in cuoio marrone incominci a rimbalzare sugli empirici impianti
che fecero da passerella per giungere all’ultimo “Gastone Brilli Peri” racchiuso fra
Via Gramsci e Piazzale Salvator Allende, stadio circolare, direi quasi oracolare dove
il busto in granito del celebre sportivo campione del mondo di Automobilismo
nel 1925 (deceduto cinque anni più tardi in un incidente a Tripoli) pare
osservare con disincanto le sorti dei rossoblù. Se ai tifosi del Montevarchi
chiedi quali siano stati gli episodi o i momenti più rilevanti e entusiasmanti
della parabola rossoblù, esce un trittico di date e un pugno di nomi. D’altra
parte, a Montevarchi come in altre piazze simili, dove il futuro sportivo è purtroppo incerto ci si
aggrappa volentieri alla storia impauriti dalla condanna del domani e dalle leggi balzane del calcio moderno. A Montevarchi leggendo le pagine dei loro volumi editi con
sincera passione si comprende che c’è un vento quasi magico, una finissima
tramontana del Valdarno alzatasi dai luoghi dei pionieri locali della pedata,
dal cosiddetto campo di “Nicco” delimitato si dice da uno steccato in legno, al “Tondo”
di Piazza Battisti, oppure il pittoresco “Orto di Giorgio” fino agli ultimi “Brilli Peri”,
il vecchio e il nuovo o più recente, mettiamola così. Dicevamo dei momenti da copertina, quelli conservati in
pagine ingiallite o in foto seppiate, solo vale la pena fra la piena dei risultati di aprire un varco nello scorrere delle acque, una sorta di
romanzo d’appendice che poi è un grande mistero, un mistero strano, una roba che sembra uscita da un libro cupo di James Ellroy o Stephen King soltanto non
è un romanzo, bensì una vicenda vera, probabilmente tragica con nome e cognome:
Renato Pieraccioni. Un pistoiese, un uomo appassionato di sport nonché
praticante, di quelli tipici del suo tempo, dalla scorza dura, temprata, lo
sguardo pugnace e la brillantina nei capelli tirati all’indietro. A Montevarchi
si trasferirà nel 1929 proprio per giocare a calcio. Non solo, sempre a
Montevarchi troverà moglie, nonostante resti presto vedovo, e gli nasceranno
due figli. Eppure, non mollerà alla vita, non si darà per vinto, continuando a
seguire i giovani della squadra fino a sedersi sulla panchina dell’Aquila. Un
giorno del 1944 al termine di una partita amichevole, seppure contro i rivali di sempre del San Giovanni V.no, di lui si perderà ogni traccia in seguito a una fuga a causa di scontri fra le opposte fazioni. Un sacco di ipotesi, nessun riscontro. Dopo dieci
anni l’anagrafe italiana lo dichiarerà morto. Assurdo. Ucciso? Fuggito?
Arruolatesi dove, e con chi? Legione Straniera? Resistenza? Salò? Niente, niente di niente, nessuna ipostesi suffragata da prove concrete, un
mistero clamoroso che aleggia da oltre ottant’anni sopra queste case adagiate
sulla riva sinistra dell'Arno. Nel trittico annunciato precedentemente ci sono
degli anni aurei. Diciamo una cosa in assunto: il Montevarchi non è mai andato
oltre le colonne d’Ercole della serie C ma è da dentro questo campionato che
possiamo estrarre gli appunti più belli.
Nel 1970 il Genoa incontrerà il Montevarchi in serie C. I rossoblù liguri
erano reduci da un buon inizio di campionato: cinque vittorie e tre pareggi
nelle prime otto partite e i tifosi speravano in un altro successo. Ma il
piccolo Montevarchi non fu affatto d’accordo e si difese con genorosa animosità, galvanizzato dall’opportunità più unica che rara di giocare dentro uno stadio leggendario come
il Luigi Ferraris. Partita, scrivono i giornali coevi, monotona, disputata sotto il cielo grigio di novembre e corredata dalla temperatura pungente di stagione. Il gioco non decollava, il classico batti e ribatti a centrocampo in cui il
pallone girovagava da una metà all’altra del terreno ma raramente entrava nelle rispettive aree di rigore. Per tutto il primo tempo si assistette a fraseggi senza costrutto e
si andò al riposo a reti bianche. Il secondo tempo, manco a dirlo, riproporrà il tema blando dei primi 45 minuti finché, proprio quando il risultato
sembrava già scritto sul referto, accade il fatto inatteso: un pallone lungo
apparentemente innocuo stava per entrare nell’area del Genoa, Maselli lo
protesse e Lonardi accennerà l’uscita per raccoglierlo in tranquillità; tra i
due però ci fu un malinteso, forse Lonardi si aspettava che Maselli gli
allungasse la sfera invece quest’ultimo probabilmente pensò che il portiere
fosse ben più rapido nell’uscire. A quel punto Piero Bencini s’inserisce tra i
due, toccando la palla e infilandola nella porta incustodita giusto a cinque
minuti dalla fine. Sul brumoso Ferraris calerà il silenzio, qualche fischio di
riprovazione e i giocatori di casa uscirono dal campo in un clima quasi
irreale, il Montevarchi invece fra gli abbracci perché si era davvero scritto una pagina di storia da
conservare gelosamente. Serie C, Serie C, benedetta Serie C perché per tornarci
due anni dopo la vittoria di Marassi, al Montevarchi servirà uno spareggio sul
neutro di Firenze contro la Pistoiese e anche questo sarà un fiore
all’occhiello del club del Valdarno. Correva la stagione 1971/1972, ed il
Montevarchi, come detto, si ritrovò nel girone E della Serie D a causa della
retrocessione patita l’anno precedente. La voglia di risalire subito di
categoria apparve concreta, serviva farlo anche per ridestare la tifoseria come
dichiarò all’avvio del campionato il mai dimenticato Lezio Losi: la squadra
apparirà subito di ottima caratura, e sicuramente a conti fatti poteva aspirare
al successo. L’allenatore Angelillo dirigeva giocatori importanti come
Picciafuoco, Scarpa e Trevisan. Si giunse quindi nelle fasi finali del torneo
con un tris composto da Montevarchi, Pistoiese e Pontedera a giocarsi la
vittoria. In realtà la stagione fu comunque piuttosto complessa: il tecnico
Angelillo venne clamorosamente esonerato con la squadra in testa alla
classifica; al suo posto si sedette il vice Babacci ma in pratica il mister
“ombra” risulterà l’amatissimo Costanzo “Lupo” Balleri, fresco di sgravio
livornese. Alla trentunesima giornata al Brilli Peri arrivò il Foligno, squadra
ostica tuttavia già fuori dalla lotta per la promozione. Scarpa porterà in
vantaggio i Rossoblù, che si fanno maldestramente riacciuffare. In avvio di
secondo tempo, Trevisan rimise apparentemente le cose apposto con un gol
splendido, nondimeno, l’arbitro Foschi di Forlì decide di annullare la rete; si
passerà così dai gridi di giubilo, agli accidenti e alle minacce, il clima,
eufemisticamente, si surriscalderà un pochino. Una manciata di minuti dopo, lo
stesso Foschi convaliderà una rete agli ospiti che a tutti (forse troppo
esasperati dalle imprecazioni) apparve in netto fuorigioco: proteste ovunque,
tanto che l’arbitro ormai in difficoltà decise di espellere Berrettini. A
questo punto la rabbia sale alle stelle: i tifosi si riversano violentemente
verso la recinzione che separa gli spalti dal campo da gioco, iniziano a
spingere e forzare, fino al cedimento definitivo della stessa rete. Invasione
di campo e caccia alla terna arbitrale, che seppur in fuga, non guadagnerà la
protezione degli spogliatoi se non dopo aver ricevuto un po’ di quella rabbia
generata. Campionato finito? No, tutt’altro, eccola, la Montevarchinità. Il
campo ovviamente sarà squalificato (per un anno), ma la città e la squadra non
si arresero. E allora il Montevarchi darà vita ad una incredibile rincorsa alla
vetta, sorretta sempre da un gran numero di spettatori al seguito. L’Aquila
agganciò la Pistoiese al primo posto in classifica con 47 punti, e si
spalancarono le porte del Comunale di Firenze (20.000 circa sugli spalti). A
Montevarchi l’organizzazione per la trasferta sarà capillare, un autentico
esodo alla volta del capoluogo toscano con mezzi vari, e in una bella giornata
di primavera il Montevarchi, va detto, giocherà 88 minuti di catenaccio puro,
respingendo gli attacchi degli arancioni di Pistoia, per poi passare in
vantaggio a 2 minuti dal termine con un di sinistro di Scarpa, nel delirio
assoluto dei presenti arrivati da Montevarchi. Facciamo un salto temporale, vi
ricordate il libro “il mio anno preferito”? vi parteciparono numerosi scrittori
inglesi, “tifosi”, fra cui naturalmente c’era anche Nick Hornby l’autore del celebre “Fever Pitch” ossia Febbre a 90°, diventato anche pellicola di culto laico. Ognuno descrisse la sua stagione
preferita in riferimento alla propria squadra del cuore. Ecco, se trasliamo
l’idea a Montevarchi la stagione calcistica 1983/84 è una di quelle votate a
maggioranza, non capita infatti spesso di veder vincere nella stessa annata
campionato e coppa di categoria. La pubblicazione che loro hanno dedicato a
questo evento si intitola “Una stagione da incorniciare” una bella cronaca di Gianni Sereni e
Sauro Bargagli. Ci sono due date di riferimento: 13 maggio e 2 giugno 1984. Il
campionato Interregionale (allora si chiamava così) era un coacervo di nobili
decadute, paesi bellicosi, calci negli stinchi e improvvisi squarci di classe,
un bel fritto misto insomma. E pensare che il Montevarchi vincerà quel
campionato dopo essere precipitato da due categorie nel giro di tre anni, dopo aver calcato stadi illustri e compiuto trasferte memorabili, da Catania a
Reggio Calabria, da Salerno fino alla vicina Empoli che si stava preparando a
salire in serie A. I dirigenti non si persero d’animo allestendo una squadra rinnovata nel fulcro e affidandola ad un vecchio marpione della
categoria: Carlo Caroni. Una mossa, come si dice nel libro, azzeccata. In porta andò un beniamino del posto Giacinti, a corredo dei montevarchini DOC come Vinicio Brilli e Tiziano Casucci,
poi Napolitano e Marco Panella, l’indimenticato e sfortunato Bruno Beatrice ex
Fiorentina, oltre a Taddei, Mauro Capoduri, Giorgio Garozzo, Giuliano Niccolai, Luciano Macrì (celebre la sua
foto nel Bar delle Badesse (località alle porte di Siena) scattata al "Rastrello" quando l'attaccante giocava nei bianconeri della Robur, di fianco a Diego Armando
Maradona durante un amichevole estiva con il Napoli. Si continua con Roberto Malotti, Tonino Stilo e Luigi Masini. Entusiasmo, voglia di rinascere, qualche
nota stonata in avvio, infine, in una grande cornice di pubblico la partita
decisiva al BrilliPeri dove la Cuoiopelli di Santa Croce sull’Arno venne
battuta 2-1 e il Montevarchi ritroverà l’agognata Serie C. Non finirà lì come
detto, il Montevarchi farà un bel giretto itinerante nella penisola fino a
giungere alla finalissima fissata per il 2 giugno allo stadio di Chioggia
contro il Suzzara squadra della provincia di Mantova. Manco a dirlo una decina
di pullman e auto private alla volta del Veneto. Sul campo bianconeri avversari
in vantaggio poi gran pareggio di Niccolai su punizione (alla Zico, o alla Platini n.d.r.). E
nell’epilogo dal dischetto si erse a protagonista il quasi quarantenne portiere
Romeo Gastone Giacinti, abile a intercettare due rigori e a far scendere la Coppa
Italia dei “semi prof” in Valdarno. Al museo rossoblù di Via Roma Riccardo
Rossi è entusiasta del progetto “memoria”, associazione apartitica e apolitica,
dove c’è una canzone edita dagli U2 che sintetizzerebbe benissimo la loro
tensione emotiva per la storia di questi colori: Pride (In The Name Of Love) oppure se vogliamo restare in Italia, estrapoliamo una frase da "A muso duro" del compianto Pierangelo Bertoli: "Con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro".
Bellissimo pezzo, che riesce a descrivere tutta la passione che Montevarchi e i Montevarchini hanno verso la loro squadra, e di come riescono a tramandarne la storia attraverso un piccolo ma grande (per qualità del materiale esposto) Museo.
RispondiEliminaComplimenti davvero! Ci riconosciamo in queste parole e ringraziamo di cuore per aver compreso e raccontato la nostra montevarchinità!
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