Nella Taranto specchiata fra il Mar Piccolo e il Mar Grande come una donna antica e fiera ci sono tute da lavoro e maglie rossoblù appese ad asciugare ai fili dei balconi, e ci sono nomi scritti sull’acqua: Petrovic, Giovannone, Cimenti, Panizzi, Dradi, Nardello, Gori, Fanti, Jacovone, Selvaggi, Caputi. È la formazione del Taranto più forte di sempre, quello che lottò per la Serie A. Le acciaierie cominciavano a fumare appena il sole si alzava e l’odore del ferro si mescolava con quello della salsedine, come se la città non volesse mai decidere da che parte stare: mare o fabbrica, sogno o sacrificio. Ma erano anni preziosi, in cui Taranto aveva scelto e in fondo mica potevi contestargli niente: stava tutta dalla parte del sogno. Erano gli anni di Erasmo Iacovone. Chi non ha visto giocare Iacovone, lo può solo immaginare o frugare qualche immagine in estratti di repertorio. Chi c’era, invece, se lo porta ancora addosso similmente a un colpo di vento improvviso, uno di quelli che alzano la polvere nei vicoli della città vecchia. Lo stadio comunale, che poi avrebbe preso il suo nome, vibrava ogni volta che la squadra giocava in casa, toccato nelle sue corde più intime. Iacovone era un centravanti vero, un nove con la faccia da ragazzo serio e il piede destro comandato da un dio minore del calcio. Non era solo un bomber: Iacovone era l’eroe gentile di una città ferita, ma mai rassegnata. Il Taranto a metà anni Settanta non era solo una squadra di provincia in Serie B: era una comunità di marinai, operai, studenti e disoccupati che la domenica saliva I gradoni dello stadio come se entrasse in una Basilica. D’altra parte, Taranto è un pò la canzone di Rino Gaetano, incisa giusto in quegli anni, "Mio fratello è figlio unico", o figlia unica coniugatela, declinatela, come volete anche se non avete mai viaggiato in seconda classe sul rapido Taranto-Ancona, perchè il dato oggettivo è che, tra le città italiane più grandi, questa è quella a non aver mai avuto una squadra nella massima serie. Eppure, a veder bene, il pallone a Taranto, con il suo delfino avvinto al tridente di Nettuno, ha sempre rappresentato un angolo di felicità, il riscatto sociale oltre l’industria, il ludo scenico di gente innamorata del calcio che dal calcio non ha mai avuto niente, come un amore non corrisposto. E in campo c’era lui, Erasmo, a fare miracoli laici. Arrivò dal Mantova nel 1976 e non arriverà in treno (ma con Rino Gaetano condividerà un tragico destino), acquistato dal Presidente Massimo Fico per 400 milioni e diverse lire in più, tanto da essere ribattezzato mister mezzo miliardo. Iacovone, alto solo 1,74, che però saltava più di tutti se c’era da colpirla di testa. Nessuno s’aspettava granché, tuttavia bastarono poche domeniche per capire: era uno di quei calciatori che non segnavano soltanto delle reti ma lasciano un segno indelebile. Volava in area, colpiva di testa come un pugile, rincorreva palloni morti alla stregua di promesse da mantenere. E segnava, sempre, o quasi sempre. Quel Taranto era allenato da Gianni Seghedoni, giocava un calcio si direbbe operaio (aggettivo abusato, lo capisco), muscolare, ma Iacovone metteva la luce anche a quelli del turno di notte. In città si diceva che se ne sarebbe andato presto, forse al Torino, forse alla Lazio. La Serie A lo cercava. Ma lui sembrava non avere fretta: “Qui sto bene. Qui mi vogliono bene”, diceva con quel sorriso timido da figlioccio del Sud, lui, nato a Capracotta, tra le montagne molisane. Poi arrivò il 6 febbraio del 1978 quando il Taranto si stava impegnando egregiamente in un campionato magico e maledetto come tutte le cose in questo pezzo di terra, in cui avrebbe iniziato potuto coltivare sogni di gloria provando a respirare l’aria rarefatta della Serie A. Nel pomeriggio allo stadio Salinella, un casotto di cemento appena fuori centro imballato di oltre ventimila persone, c’era stata Taranto Cremonese, 0-0 per la cronaca, perché il portiere ospite pareva in stato di grazia. Ma non era un perfetto sconosciuto. L’ultimo uomo che, domenica 5 febbraio 1978, spense i sogni calcistici (e non solo) del Taranto, era un signor portiere: Alberto Ginulfi, per anni il secondo della Roma, prima di diventare colui che riuscì a parare un rigore a Pelé, durante una amichevole dei giallorossi contro il Santos. Ma nella domenica della quale ci stiamo occupando difendeva la porta della Cremonese. Sì, va detto, Ginulfi in quell’occasione aveva avuto anche una discreta dose di fortuna: due volte la palla era andata a sbattere sul palo. E addio goal. Addio tutto. La sera, dopo una cena con alcuni suoi compagni di squadra, la sua Citroën Dyane rossa fu violentemente speronata da un’Alfa 2000 GT con a bordo Marcello Friuli, un delinquente di quartiere, di quelli della malavita di manovalanza, furti su commissione, taccheggio, bische clandestine, che procedeva velocemente a fari spenti inseguito dalla polizia perché aveva appena violato un posto di blocco dopo aver rubato quella vettura. Nel violento impatto Iacovone fu sbalzato fuori dal parabrezza e morì, non aveva ancora 26 anni, era sposato da meno di un anno e la moglie Paola era incinta di sette mesi. Taranto si fermò. Letteralmente. Le fabbriche rallentarono, le scuole chiusero prima, i pescatori non uscirono in mare. Si riempì la cattedrale, si svuotò il cuore della città. E da allora, il suo nome non è mai sparito. Lo stadio è diventato lo “Iacovone”, ma il vero monumento è quello che ogni domenica si ricompone nelle chiacchiere dei vecchi al bar, nei cori degli ultras, negli occhi di chi racconta per la centesima volta “io c’ero, l’ho visto segnare”. Taranto oggi ha conosciuto la polvere della Serie D, le vertigini del ritorno e le amarezze dei nuovi fallimenti. Ma quando sogna, sogna ancora con il suo numero 9. Lo vedono tutti, in fondo al campo, mentre saltella per scaldarsi prima delle partite con quei suoi baffoni, oppure mentre si gira su sé stesso e lascia partire un destro che taglia l’aria. È solo un ricordo. Ma in questa città fra due mari, i ricordi sanno essere più veri della realtà. Figuriamoci per Taranto, che in A non c’era mai stata, né ci andò mai.
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