Cercate una canzone da ascoltare
in sottofondo leggendo questo racconto? diciamo "The Foggy Dew" di
Sinead O'Connor e andiamo.
Il Natale aveva portato solo
menzogne, nella notte di Santo Stefano il diavolo si era appollaiato sulla Main
Stand di Windsor Park ghignando sordo mentre pioggia e vento bagnavano e
sbattevano una Belfast nauseata dall’approssimarsi del Boxing Day. A pranzo
Jimmy mangiò pochissimo, niente. Le portate, in genere avanzi del giorno
precedente, sembravano avessero tutte una sorta di sapore nemico, non c’era
boccone che in gola non diventasse cenere. Eppure, Falls Road era scoglio,
frangiflutti faticosamente piazzato in mezzo alla malizia e alla prepotenza
protestante perché Belfast pare un’isola nell'isola, diruta, reietta, con il suo porto zuppato nel Canale d’Irlanda, sudicio
d’alghe e di evasi annegati martoriati dai pesci.
"Che cosa rende lo scontro
tra Belfast Celtic e Linfield un'attrazione così magnetica non solo per i
tifosi di entrambi i club, ma anche per molti altri non accaniti?" Così la
mattina del 26 dicembre 1948 si apriva l'editoriale di “The
Windsor Magazine”, prima dell'ultimo “Big Two” tra i rivali di West Belfast.
Elisha Scott, il manager del Belfast Celtic cercò di tranquillizzare dai
cattivi presagi il suo attaccante più forte: “Jimmy, se vuoi puoi farti anche
il segno della croce”. No, Jimmy non può, lui non è cattolico, gli hanno
insegnato che i gesti, i santini, le scaramanzie sono stupidaggini della Chiesa di Roma, e
con Jones in quella squadra ci sono altri 6 protestanti, poiché il Belfast
Celtic è club inclusivo, privo di veti confessionali, insomma ci possono
giocare tutti. È così dal 1891, anno in, cui nascerà il sodalizio con nome e
maglia a strisce biancoverdi ispirate dal Celtic di Glasgow fondato giusto tre
anni prima.
Il cuore pulsante è Falls Road
quartiere cattolico di West Belfast, futura roccaforte dell’IRA, e luogo
di nascita di Bobby Sands. La squadra giocava al Celtic Park, ovaleggiante sicumera, denominato “The
Paradise”, e nella Irish League inizierà subito a vincere, in 58 anni
conquisterà ben 56 trofei ma in Irlanda non sono anni semplici quelli, nel 1920
in piena guerra d’indipendenza scoppiarono violenti incidenti sugli spalti in
occasione del match di Irish Cup tra Glentoran e Belfast Celtic, giocata il
giorno di San Patrizio. Un tifoso dei "Celts" estrasse una pistola dalla giacca sparando sulla folla. Qualche mese dopo, domenica 21 novembre, l’esercito
britannico aprirà il fuoco sui presenti nelle tribune di Croke Park a Dublino
durante un incontro di calcio gaelico per rappresaglia dopo che gli uomini di
Micheal Collins avevano fatto fuori 19 membri dei servizi segreti di sua
Maestà.
Sarà il primo "Bloody
Sunday", perché nel 1972 a Derry la storia si ripeterà. Jimmy Jones è un
attaccante, la fronte alta le spalle larghe, la solita gelatina a tirare
indietro i capelli biondicci, una protervia di chi la rete l'annusa, se la cerca
e sa come trovarla, forse uno dei più forti e completi attaccanti della sua
epoca. Veniva da Keady, nella contea di Armagh, tuttavia cresce a Lurgan dove
non trapela rumore o barlume ma ribrezzi usciti dalle miniere di carbone,
viluppi di malerba e schegge di bottiglie rotte, in una depressa mobilità di
calore umano. Jimmy studierà presso la scuola elementare locale di Carrick e
successivamente al Lurgan Technical College, dopodichè diventerà apprendista
meccanico, piuttosto bravo, solo il pallone divenne sortilegio irresistibile.
Lo cercherà il Linfield, il presidente Joe Mackey arriverà a offrigli circa 13000 sterline ma Jimmy Jones voleva il Belfast Celtic, riconoscendo di sottecchi in questo club l’aspirazione a coniugare causa e memoria conscio di insinuare incertezze sotto le più preziose maschere dell’unionismo più aspro, tremito di strazio di una remota, dimenticata pietà. Tutt'intorno una latitanza, o comunque indecisione, inerzia della storia, un film di feroci feste temporali e incastri sportivi mai sopiti soprattutto dopo che che quelle due gigantesche Gru dei cantieri navali Harland’&Wolf avevano gettato attrito nell’eterogenesi dei fini di una città e delle sue visioni differenti. Mackey cercò di convincerlo che Windsor Park era la sua casa naturale e che non avrebbe dovuto essere laggiù a giocare con quei cattolici. Jones però era felice di andare al Belfast Celtic, dove sosteneva che la religione o la politica erano irrilevanti: “Al Paradise a nessuno importava cosa fossi. Io non ero interessato a sentire quel tipo di sciocchezze settarie e gli ho detto di infilarsi quei soldi nel .... Mackey non mi ha mai perdonato per questo”. Un ribollire di zolfo, quei mattoni e quei quartieri, le voci del fuoco intrecciate in minimi mulinelli e riflussi destinavano l'illusione d'una tregua. Suono di Cornamuse che si sentono brusire al fianco ogni sera e tutti sanno che quella musica e la musica dei morti periti nell’odio reciproco che ora stavano parlando ai vivi. Il dolore a Belfast è strumento per coabitare un monologo tenero, un improvviso sogno, dove passano e ripassano fantasmi e speranze, insieme ai gabbiani rauchi che assopite le ali scendono a brulicare cibo sulle banchine usurate dalla salsedine. Quelli del Linfiled sono unionisti fino al midollo, negli spogliatoi di Windsor Park prima di entrare in campo con la loro maglia di un profondissimo blu salutano l’effige monarchica e credono nella ragione di un Dio spietato e noioso racchiuso nelle pagine della Bibbia, malati di una febbre puritana che non ammette interpretazioni e non chiede permesso a nessuno: coriacei, cominciavano a salire le scalette di Windsor Park, avanzando, ansimando, entro la ronzante caligine provocata dagli intermittenti scrosci di pioggia gelida. Sugli spalti per quel Linfield v Belfast Celtic ci saranno oltre 30000 intabarrati spettatori, hanno sprecato più fusti di whisky che preghiere perché contro ogni creanza e verità la folla unita si ostina sempre a presumere d'avere tacitamente stretto un patto contro gli avversari, e di possederne la caparra della ragione nella radiografia trafugata che tenevano dentro il cassetto della rivalità. Quella bastava toccarla con un dito la sera, e se ne ricavava un raggricciarsi agro di nervi. Il Belfast Celtic scese sul terreno accolto da epiteti ingiuriosi, come animali destinati al macello, prestigio e idea antica dell'olocausto, quella per cui il Figlio di Dio è sceso sulla terra a pagare per tutti, ma loro si muovono passandosi la palla ignari della flebile redenzione dell'umanità che verrà, a patto che la loro generazione, la loro storia, si danni e perisca per tutte. La miccia alla polveriera scoppierà quando Jones in uno scontro fortuito infortuna seriamente Bob Bryson, gli spezza la caviglia, il Linfield rimane in inferiorità numerica in tempi in cui non erano ammesse ancora sostituzioni, la rabbia sale, magmatica, inevitabile. Prima dell’intervallo il centravanti dei blu Jackie Russell verrà colpito violentemente dal pallone reso pesante dal maltempo e dovrà uscire pure Bob Bryson, lasciando i padroni di casa addirittura in nove. Poi in apertura di ripesa l’arbitro Norman Boal espellerà Albert Currie del Linfield e Paddy Bonnar del Celtic rei di aver inscenato un ring improvvisato accanto a una delle bandierine dei corner e la temperatura salì ulteriormente. Il pubblico assetato di protesta rumoreggiò, gli animi erano esasperati, si capì che sarebbe andata a finire male, c'era solo da scegliere la modalità.
A dieci minuti dal termine lo 0-0
poteva forse trattenere il delirio, invece un rigore assegnato agli ospiti e
realizzato dal capitano Harry Taylor porterà in vantaggio il Belfast Celtic.
Se, in un complesso di fatti, crediamo di vedere un effetto di circostanze
avverse, scatta l’orrore emarginando qualsivoglia compassione. Nelle tribune
fra i sostenitori del Linfield prevale uno scoraggiamento, una specie di
disperazione, la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni
indipendenti dal suo arbitrio, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi, un
raccapriccio tale condotto dal delirio: negare la Provvidenza o accusarla. E se
quest’ultima diperatamente proverà a frenare l’agitarsi inconsulto del pubblico
con il colpo di testa di Billy Simpson che pareggerà la partita, ecco, invece
di scacciare il diavolo sopra il tetto fradicio di Windsor Park, scatenò il
finimondo. Nessun trifoglio nel quadro dei Windsor, nessuna corona davanti ai seggi dello Sinn Fein. Dirà George Hazlett, ala del Celtic: “Quando vidi i poliziotti in
uniforme, che avrebbero dovuto essere neutrali, lanciare i loro berretti in
aria con gioia, ho capito che non avremmo avuto protezione”. E in effetti i manganelli dei poliziotti avranno l'unico effetto di riccacciare solo per qualche istante la massa nera dei tifosi come fosse un serpente colpito ma ancora carico di veleno e pronto a colpire appena possibile. Putiferio, il boxing day apre le sue scatole di cortesia mettendo in scena una vera e propria caccia all’uomo nei confronti
di Jimmy Jones, la cosiddetta “Spion Kop” si riverserà in campo, il giocatore
biancoverde verrà letteratamente accerchiato dalla folla e picchiato
selvaggiamente, colpito da stivali chiodati, una cosa vogliono fare soprattutto
in quel momento di collettiva follia e di cieca rabbia: vogliono spezzargli una
gamba, e così faranno.
A salvargli la vita fu Sean McCann, vecchio amico e spettatore per caso, che indossando un lungo cappotto elegante forse venne scambiato per un funzionario di polizia e così lo porterà in salvo. Quel giorno, è ricordato come “the day of shame” il giorno della vergogna, e non è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu solo per non volerlo sapere, fu per l'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa che di tali fatti si possa essere forzatamente vittime. A Belfast può succedere, dentro l’aria rancida di fritto e tè lasciato troppo in infusione. Il Belfast Celtic decise di ritirarsi dal calcio. La memoria sui muri scuri di West Befast è scritta, disegnata, suonata delicatamente da note d'arpe, perché nessuno a Falls Road si toglierà mai dalla mente che quella aggressione non fu rivolta solo a Jimmy Jones ma a un’intera comunità. Ci sono Murales dedicati a quella squadra leggendaria detta familiarmente "Grand Old Team" e delle scritte nei pub che recitano: "Quando non avevamo niente avevamo il Belfast Celtic, e allora, avevamo tutto".
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