giovedì 1 ottobre 2020

LA BALLATA DEI BLAUW EN ZWART

 


 

 

Lo chiamavano Achille, Ernst Happel, viennese torvo, prestante, che da giocatore batteva i rigori senza prendere la rincorsa e che girò l’Europa con il suo tempo di valzer, immortalato da artisti fiamminghi nella sua ballata di Bruges, quando per un soffio, per una contingenza di avversità, non riuscì a poggiare in mezzo ai quadri di Van Eyck e Petrus Christus, la Coppa dei Campioni. Il trofeo preferì i docks di Liverpool ai pinnacoli romantici di Grote Markt. Il Bruges di Happel resta fiaba dai volti acerbi e bellissimi, stesi a olio sulla tela verde del campo. Perché nel blasone dei condottieri carichi di onori, vittorie e riconoscimenti, Happel e il suo Bruges occupano l’altra colonna, quella degli sconfitti, uomini da dimenticare, che non sarebbero dovuti nascere per non essere battuti. La storia è così, anche nel calcio: la dettano i vincenti, dimenticando i vinti.

 

Eppure le vicende sono scritte anche da coloro accompagnati all'uscita da sconfitte, spesso ingiuste, che tuttavia hanno insegnato più di quanto non lo abbiano fatto tanti vincitori. Nel 1973 lo stadio Jan Breydel (allora Olympia Park), situato a ovest del centro cittadino, dove il gotico si evolve in sintesi di periferia popolare, vide terminare l’era di Leo Canjels, soprannominato Het Kanon, incominciando a scorgere trame di assoluta novità stilistica.

 

Happel è un maniaco della preparazione fisica, un autentico tiranno in tal senso. Più volte sveglierà i suoi ragazzi a orari da stretto pendolarismo operaio per sedute improvvise di allenamento come quella volta prima di prendere un aereo per Roma per un incontro di Coppa. Ernst è un innovatore, un precursore, un gestore degli afrori di spogliatoio. Qualcuno dei suoi più o meno affettuosamente lo chiamerà il “profeta” dei quattro comandamenti "correre, correre, correre, e disciplina". In sostanza da buon viennese, aveva capito che per vincere occorre essere vere e proprie orchestre, capaci di muoversi in perfetta sintonia senza errare i tempi di battuta. E le sue filarmoniche, esprimevano un gioco velocissimo per il periodo, terribilmente aggressivo, magari non bellissimo come l’Ajax, tuttavia cinico e pratico. Nel 1976 conquistò il titolo nazionale e contemporaneamente la finale Uefa, persa contro il Liverpool. Ed eccola la bestia nera, anzi rossa, il prodromo della paura, che negherà ogni gioia continentale ai fiamminghi.

 

La stagione successiva vedrà ancora un successo in campionato, nondimeno il Bruges si prese anche la coppa del Belgio. Nei Blauw en Zwart emergono figure decisive tipo il portiere danese Birger Jensen, il terzino Fons Bastijns, il centrale austriaco Eduard Krieger, il mediano Julien Cools, il terribile regista mancino Renè  Vandereycken, il rifinitore Paul Courant, e un centravanti dalle splendide doti atletiche che si trovava a perfetto agio nella gabbia dell’area di rigore: Raul Lambert. Accanto a lui per regalarsi il terzo titolo consecutivo ecco il danese Jan Sorensen, noto rompiscatole di difensori avversari, voluto fortemente dal tecnico austriaco che lo prelevò dal Frem di Copenaghen. Un tipino da far venire i brividi per il modo con cui dribblava, calciava e si muoveva. In quella stagione il Bruges, sponsorizzato “49 R jeans”, galoppò, in questo caso senza pubblicità sulle maglie per le normative europee (come cambiano le cose perbacco...), verso Wembley a giocarsi la finale della Coppa dei Campioni. E lo farà con grande carattere. Solo l’anno prima aveva sfiorato l’impresa sui vicecampioni del ‘Glandbach. E' un calcio freddo, ragionato, quello del Club Brugge, fra recuperi, polmoni a stantuffo e estrose prodezze.

 

Eliminati facilmente KuPS e Panathinaikos, i belgi faranno fuori l’Atletico Madrid. Una faticaccia impensabile dopo il 2-0 raccolto fra le mura amiche. In Spagna alla scadere della prima mezz’ora sono sotto 2-0 ed il conto a distanza era nuovamente in parità. Poi, al 60′esimo Cools segnerà un 2-1 pesantissimo, che costrinse i “Colchoneros” a dover segnare ben due reti per agguantare la qualificazione. Una la troveranno subito, e allora, alla stregua di un giallo di Georges Simenon la “verità” restò in bilico per altre cinque pagine, cinque minuti: il tempo che Lambert depositi in rete la palla del 3-2 che non salvò il Bruges dalla sconfitta ma valse la semifinale contro la Juventus. La squadra italiana si presentò da netta favorita sognando di approdare alla sua seconda finale. Al Comunale di Torino segnò Bettega quasi allo scadere e finirà 1-0 per i bianconeri. A Bruges, Bastijns ci mise invece solo tre giri d’orologio per pareggiare il conto delle marcature. Si andrà ai supplementari e qui, quando cominciò a profilarsi lo spettro dei rigori, arrivò il centro decisivo del rapace Vandereycken: 2-0. Due contropiedi da manuale, 25 i fuorigioco cercati e trovati dall'altissima linea difensiva dei belgi, e, va detto, un rigore dubbio non concesso alla Juventus. Giovanni Trapattoni, in ogni caso, da gran signore, si recò in conferenza stampa pallido come uno strofinaccio a eleogiare il gioco degli avversari:

 

“Sono senza parole, non ho mai visto niente del genere...”.

 

Ernst Happel visibilmente soddisfatto, seduto in spogliatoio, circuito dal fumo della sigaretta più buona, sorseggiò un bicchiere di cognac, mentre fuori, trentamila persone scandivano il suo nome.

 

A Wembley.

 

E così il fiorente centro medievale delle Fiandre occidentali, famoso per la produzione di merletti e tessuti intersecato da numerosi canali che sfociano nel Mare del Nord, se andò con sua squadra a Londra alla difficile ricerca di quel "Graal" che avrebbe potuto cambiare la storia del Club. In migliaia arrivarono nella capitale inglese dal Belgio, e ogni tanto tremava nell'aria uno stendardo fiammingo, ma pochi, troppo pochi, in confronto al mare rosso degli 80000 calati da Liverpool e da ogni parte d’Inghilterra per sostenere le leggende di Bob Paisley.

 

Il 12 maggio del 1978 era una serata perfetta, cielo sereno e temperatura mite. Nelle orecchie, sputati dagli altoparlanti, i Bee Gees, i Genesis e Kate Bush. Il Liverpool in rosso, il Bruges in bianco, in un contrasto cromatico che rese grazia al Dio al calcio. Il primo tempo terminò a reti inviolate con un Liverpool senza la solita incisività ed un Bruges impegnato, anche a causa di assenze pesanti, (Lambert e il perno difensivo Jos Volders) in un lavoro di contenimento. Nella ripresa il Liverpool sostituirà Jimmy Case con Steve Heighway. L'intenzione era chiara: cercare di forzare il risultato infittendo la linea d'attacco. Fu una decisione coronata dal successo. Al termine di un azione iniziata da Souness e sviluppata da McDermott, il folletto Dalglish sorprese Jensen con un pallonetto basso nell'angolo opposto della porta e impazzito di gioia saltò correndo verso i suoi tifosi. Il Bruges deluso e arrabbiato non mollò. Al 35'esimo mancò per un soffio il pareggio. Con un disperato intervento sulla linea di porta, Thompson riuscì a deviare un tiro rasoterra di Sorensen quando Clemence pareva ormai battuto. Il Bruges perse ma nonostante le illustri defezioni e il fatto di giocare praticamente fuori casa, giocò meglio dei reds.

 

Insomma l’abbiamo detto, il calcio è un mondo abbastanza strano, forse troppo. E' riconoscente con alcuni, meno con altri, e tra quelli c'è sempre chi avrebbe meritato più celebrità. Un po’ come il Bruges del signor Ernst Happel.

 

 

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