giovedì 1 ottobre 2020

VIEL GLÜCK LIPSIA


 

In quel disperato 1987 l’intonazione era febbricitante, tenera, pomposa, un assolo di bel canto su spartito di Bach che pareva attrarre applausi e misericordia, crepacuore e teatro, oculatezza e superficialità, nell'induzione a lasciar credere che ogni cosa sarebbe caduta, ipotecata e malconcia, rea di un unico dono sportivo sia pure foderato di ammissioni e omissioni, casi alteri e pedanteria poliziesca.
 
Lipsia, dove in ogni esistenza si nasconde un germe di finzione e allegoria. Lo diceva "l'assessore al classico" per eccellenza J.W. Goethe, probabilmente in seguito a una delle sue visite alla Auerbachs Keller, birreria legnosa in cui prese contatto o contratto con il suo Faust. La Lokomotive Lipsia stava diventando mozzicone di cera, incongruenza di casi e stagioni, martirio profano, strazio vero o soltanto truffa del destino. Troppe domande. Perniciose, meticolose, sintassi di sospetto e rispetto, per quelle 15 casse arrivate da Manchester e contenenti il "Komet", futuro e tramite di comunicazione in quel confino di Sassonia che pareva negarsi al mondo. 
 
La Rotwell&Company mandò un macchinista esperto e rubizzo, John Robson, oltraggio e memento di ogni palata di carbone che i ferrovieri tedeschi spalavano sulla caldaia in quel tratto della Lipsia- Althen, primi binari di ferro, anno domini 1837. 
 
Le insidie nello sbuffo, premure di movenze e frivolo di gelosia bavarese in un platonico invaghimento della bolla del quotidiano, attraverso chimica focosa, degradando sul crepuscolo del secolo sui campi da calcio con un conato di gene tra mellifluo e sazio come quando si annusa troppo una rosa; giorni belli ne ebbe e si suppone anche notti. Eccola la Lokomotive Lipsia 1893, ormai ostaggio fra i vivi, calligrafia veloce e speriamo vendicativa di ciò che fu, nel livore pazzo di Hans-Ulrich Thomale, l’allenatore del quasi, agrume dello Zentral Stadion, esuberante tabernacolo di un arrocco nel soffocante cimento dei pezzi. Centoventimila persone in un catino meditabondo, dove l’equivoco orgasmo arrivò al settimo rigore calciato dal portiere René Müller e Lipsia esplose di piacere beffando i girondini ma infilandosi cappucci neri da lutto. 
 
Ad Atene nella finale contro l’Ajax fu ammicco e lampeggio, puntello di circostanze, un’opportunità assottigliata e presto svanita nel suo guscio dopo la rete di Marco Van Basten da Utrecht. Fuggirono i giorni, quasi che un nero fumo di corvi oscurasse la sfera del cielo della Germania Est, fra scontento e colpa, tregua e condono, un inquietudine che diventò paura dell’inesorabile come nell’anno precedente, quando all’84esimo dell’ultima partita interna venne espulso il mediano Matthias Liebers dopo il vantaggio realizzato da Olaf Marshall che avrebbe significato Oberliga. Nessuno osò dirlo, ma tutti intimamente sapevano che quello era il preludio al pareggio ed infatti quel rigore assurdo, a pochi minuti dall’epilogo di un trionfo, assegnò alla Dynamo Berlino l’ennesimo titolo. 
 
Le insolenze della vita a un passo dalla foce sognata e il domani che torna irto di punte. René Müller, Frank Baum, Ronald Kreer, Matthias Lindner, Uwe Zötzsche, Uwe Bredow, Matthias Liebers, Heiko Scholz, Hans-Jörg Leitzke, Olaf Marschall, Hans Richter, restano seduti sui gradoni, una brezza leggera lì sorprese in una tautologia della noia, compagni nella consulta aspettando il gelo dell’unificazione, risolta ben presto in crisi finanziaria. E il club (che aveva ripreso il vecchio nome di VFB) dichiarò fallimento mentre si trovava in quarta divisione e 108 anni di tradizione calcistica sembravano definitivamente giunti al termine. I tifosi guardavano la Locomotiva con gli occhi imbalsamati dentro aromi di agonia. Ci fu vuoto e silenzio, ma al tempo stesso povertà di coraggio e forza per quest' imputazione iniqua. Il nuovo orizzonte manderà guizzi di luce enigmatica, ora che qualcuno vuole darci a intendere che RB sta per “Rasen Ball” (“palla a prato”, manierismo arcaico per indicare il calcio), astuto aggiramento della norma che impedisce la sponsorizzazione diretta del nome delle squadre. 
 
La Red Bull è eresia e bacio di puttana alla memoria, offesa, nascosta dietro una schiera di milioni. 
 
Ma la Lokomotive soffia ancora nel piccolo Bruno-Plache-Stadion, spurgo di doratura fra gocce di pioggia e tenerezza, perché la Lokomotive resta voce profonda, radicata nella terra di Sassonia, volti di una dimensione corale che non vuole far correre le giornate ma viverle. In fondo, direbbe Bach, più la messa è un Te Deum più la gente avverte la presenza del sacro, in una cecità che tutto fa vedere.
 
 
"Helden sterben, Legenden nie" ("Gli eroi muoiono, le leggende vivono per sempre")

 

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