lunedì 31 luglio 2023

LET'S GO TOGETHER


 

Il mazzo di fiori in tributo è lì, appoggiato sul murales più famoso del mondo. Sindead O'Connor amava Derry. Un giorno pretese un incontro con la regista Margot Harkin chiedendole un ruolo come attrice nella produzione di "Hush a Bye Baby" un dramma cinematografico che seguiva le vite di quattro compagni di scuola che abitavano fra il Bogside e Creggan nel 1984. Le due ebbero modo di incontrarsi in un piccolo pub londinese e la Harkin molto francamente gli disse che non sapeva se poteva realizzare una parte per una ragazza calva di Derry, ma cosa vuoi, quel mix di voce melodiosa, gli occhi da cerbiatta, il viso d’angelo, accanto alla donna scostante, intrattabile e lunatica, (che si scagliava più o meno addosso a tutti, strizzava l’occhio all’IRA, sognando un’Irlanda unita, fumando vagonate di marijuana e guardando con interesse alla musica reggae..) ebbe buon gioco e sarà presa nel cast senza neppure bisogno di cambiare nome. Ah, quel Nothing Compares 2U scritto in quel modo si vocifera fosse maniera per polemizzare contro qualche atteggiamento, diciamo ambiguo, degli U2. A Derry pare abbiano apprezzato, su quelle strade strette, sui vicoli che gridano rabbia, sui caseggiati bianchi addossati ad altri più scuri, d’arenaria rossa con gli angoli duri, taglienti. E poi pietre sul selciato che sembrano rotolare giù, verso le porte della città, abbracciate da mura inespugnabili, i cui archi d’ingresso incorniciano le notti, e, nella torre più alta, lo scheletro di un cavaliere allenta l’ossea mandibola cercando vendetta. Derry (non Londonderry, mai Londonderry) è un luogo in marcia da oltre cinquant'anni anni. Un cammino scritto attraverso pagine amare, intriso di lacrime, partito dalle alture di Creggan per giungere al quartiere operaio del Bogside, partito per ottenere giustizia, una lenta processione lungo Lecky Road, Rossville Street, Fahan. Entrate a Free Derry, eccolo il murales di cui parlavamo, una parete bianca specchiata nel verde del prato dirimpetto su cui è scritto in nero: “Ora stai entrando nella libera Derry”. Fu realizzato alla fine di Columbus Street da John Casey subito dopo gli scontri del gennaio 1969 tra i residenti della zona che eressero barricate per impedire ai membri lealisti della Royal Ulster Constabulary, la spietata Ruc, di invadere le loro case. A fianco del dipinto di Casey ce ne è un altro: un ragazzo con la maschera antigas sul viso e in mano una bottiglia molotov pronta per essere lanciata, sullo sfondo agenti britannici avvolti dal fumo. Soltanto qualche passo e s’innalza una statua a forma di H, lettera infame, rigurgito scolpito nella memoria dei blocchi del carcere The Maze di Belfast dove erano tenuti prigionieri i membri dell’IRA durante gli anni terribili dei Troubles. C'è una colonna di pietra in cui scorrono, come fosse sangue ancora fresco, i nomi dei giovani che nel 1981 si lasciarono morire di fame per urlare al mondo il loro diritto di vivere in una nazione libera. Il primo, in alto a sinistra, è quello di Bobby Sands. E quando lo leggete, da qualche parte in Irlanda canta un allodola e qualcuno parla in gaelico. Nel mezzo della scultura una mano imprigionata dal filo spinato regge una colomba: le ali aperte per volare via dal cemento. Via da qui, anzi no. Occorrerebbe seguirla con l’immaginazione e farla posare sul Boody Sunday Memorial. La maledetta Domenica del 30 gennaio 1972. Quattordici civili inermi falciati dal fuoco e dall’odio cieco dei paracadutisti inglesi. Una strage destinata a passare alla storia e ad attirare definitivamente l'attenzione sulla gravità del problema irlandese. Prima di allora, neanche in un contesto di guerra come quello dell'Irlanda del Nord si credeva possibile che nell'Europa occidentale un esercito potesse compiere un massacro di civili inermi alla luce del sole. C'erano migliaia di persone nel corteo di protesta indetto dal "Northern Ireland Civil Rights Movement. Uomini, donne e bambini manifestavano pacificamente reclamando uguaglianza e pari dignità sul lavoro, il diritto alla casa e la fine del voto per censo in vigore nella "colonia" britannica. Accadde intorno alle quattro del pomeriggio, quando i manifestanti raggiunsero il ghetto cattolico di Bogside, un reggimento speciale armato con mitragliatrici pesanti cominciò a sparare senza preavviso sulla folla in un inferno di fuoco che durò circa un quarto d'ora. Otto di loro avevano un'età compresa tra i 17 e i 20 anni. Tappatevi le orecchie e forse non li sentirete. Non sentirete quel rumore. Quello degli spari certo, ma anche quello cattivo, e ferroso delle autoblindo foriere di paura. Non sentirete più i soldati che fanno irruzione nelle grame abitazioni. Chiudete gli occhi e forse non vedrete ragazzi presi prigionieri, vestiti unicamente di una coperta lisa, buona solo per morire di freddo. Caduti, solo caduti. Basta. La libertà dicono sia uno stato mentale. C’è una scritta: “Nessuno qui, né da una parte né dall’altra vuole più la guerra”. Ma per superare ciò che è stato, quanto tempo dovrà passare? servirà lo scorrere dei giorni? degli anni? delle generazioni?

                         

"Ok Derry, basta così, giochiamo a calcio?" Possiamo incominciare da quello da tavolo se volete, e perché no ancora dalla musica, ci mancherebbe. Stavolta "My Favourite Cousine" degli Understones, ovvio. Il cugino, quello bravo, quello che frequenta l’Università a Londra, studia economia, matematica, fisica e bionica, che dice di essere sicuro di andare in paradiso attraverso la predestinazione protestante. Quello che ti batte sempre giocando a Subbuteo indossando la maglia odiosa del Chelsea. Fanculo a lui e quelli come lui. Io mi metto la maglia del Derry e ti sparo un goal dentro la tua porta regale: 1-0. Il Derry City qui è una fede dal 1928, e per diamine ha pure vinto un titolo nazionale nel 1965 ottenendo il diritto di disputare la Coppa dei Campioni (solo che al secondo turno la Federazione calcistica nazionale dichiarò lo stadio di Brandywell privo dei requisiti minimi di sicurezza). Il dolce Brandywell, dove corrono i levrieri e in alto una collina in stile Spoon River si riverbera assorta sul panorama con le sue lapidi consunte. Una decisione che indignò la città: per quale motivo nel primo turno nessuno si era posto il problema? Era chiaro che si trattava di una decisione politica, ipocrita, menzognera. Nel 1969 l’Associazione per i diritti civili nell’Irlanda del Nord iniziò una campagna contro il governo che produsse uno scontro trentennale tra filo-irlandesi e unionisti. Dato che lo stadio del Derry si trova nel Bogside molte squadre con tifosi a maggioranza lealista si rifiutarono di andarci a giocare. Chi lo faceva rischiava e non poco: il 12 settembre 1971, al termine dell’incontro casalingo contro il Ballymena United, ebbero luogo tafferugli tra gli abitanti del posto e i tifosi ospiti intenti a provocare e cercare lo scontro. Lo ottennero. Anziché il proprio pullman si ritrovarono ai piedi un mucchio di lamiera contorta e plastica bruciata. Non passò molto tempo dall’incidente che la squadra del Linfield si rifiutò di lasciare Belfast per recarsi a incontrare il Derry nella sua tana. Parallelamente la polizia nordirlandese dichiarò insicura la città obbligando il club a giocare la maggior parte della sue partite casalinghe a Coleraine (di maggioranza unionista) a 30 miglia da Derry. E così, per ben 13 anni il Derry fu costretto all' esilio fino a quando, grazie all’intermediazione della FIFA, riuscì ad affiliarsi alla Lega irlandese. Era il 1985 e i biancorossi rientrarono in possesso del loro stadio. Due anni di seconda divisione e il Derry farà il vuoto dietro di se. In gergo tennistico il grande slam, conquistando titolo, coppa nazionale e coppa di Lega. Eravamo nel 1989, l’allenatore si chiamava Jim McLaughlin e il presidente Martin McDaid. Una squadra saldata intorno a Felix Healy, longilineo attaccante dai baffetti curati che abitava in una di quelle casette scarne che si arrampicano come un gigantesco bruco sui pendii gialli di colza, e lì scrisse una canzone sui Troubles bevendo Caffrey’s, mangiando Boxty e leggendo le poesie di William Yeats. In quel 1989, Patrick, il figlio piccolo di Felix Healy, indossò l’abito della mascotte durante la finale della Coppa d’Irlanda ed ebbe la gioia di esultare alla rete decisiva del padre segnata al Cork. Nel 1997 si concretizzò un momento di successo per il Derry City. In quel periodo lungo gli argini morbidi del fiume Foyle (dove non è raro trovare cartelli stradali oggetto di storpiamento toponomastico della scritta Londonderry voluta dagli inglesi dopo la plantation del 1613, scritta cancellata e riportata alla sua originaria denominazione di “Doire” visto che a ben studiare Derry resta termine frutto di anglicizzazione dal gaelico) si celebrò la festa per un nuovo titolo nazionale ed altri trofei di Lega. Ciò nonostante agli albori del 2000 ecco arrivare seri guai economici che porteranno il club vicino al fallimento. Una sentenza evitata da una commovente risposta popolare che riuscirà a salvare il salvabile, rimettendo in linea di galleggiamento la società. Qualcuno di voi ha visto giocare Patrick McCourt, per tutti Pat? Lo chiamavano Pelè per quanto era bravo. Un tipo biondiccio, messianico, barba incolta, capello anarchico e dribbling illegale. Quella maglia biancorossa a strisce di spessore variabile l’ha indossata fra il 2005 e il 2008 prima di finire al Celtic. Si, perché in realtà in origine il Derry City indossava il celebre kit violetto dell’Aston Villa, ma a “Doire” o “bosco di querce”, era nato un certo Billy Gillespie che dal 1913 al 1932 aveva fatto le fortune dello Sheffield United. Quando quest’ultimo appese le scarpette al chiodo il Derry City in onore alla sua carriera e della sua disponibilità, mutuerà la divisa delle blades e la maglia diventò quella con le candystripes. Dovremmo accendere per lo meno una candela per Ryan McBride, il capitano 27enne del Derry City trovato morto in casa nel marzo 2017, altro dramma, altra sciagura caduta sopra questa cittadina, dove nel derby con il Finn Harps, probabilmente sentirete cantare causticamente un motivetto sulle note di “You‘re my sunshine”.

                                     


LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...