lunedì 23 giugno 2025

IL QUADRILATERO DEL PALLONE

 




Odore di Bàgna Cauda e di Agnolotti al sugo di carne, aroma di Barolo e nitore di langhe, quadri risorgimentali e stemmi sabaudi, insomma il vej Piemónt perché, se il pallone è sbocciato a Genova, l’affermazione del gioco è avvenuta nella provincia piemontese attraverso le sue quattro sorelle del cosiddetto “Quadrilatero”. Quattro cittadine tranquille va detto ma che la fantasia immaginava come cinte da mura merlate e le colubrine puntate dall’alto delle torri. Fra Vercelli e Casale, Novara e Alessandria i tifosi sciamavano su biciclette e calessi, respirando bruma in mezzo a risaie e osterie dai tavoli tarlati con sopra quartini di rosso. Il pittoresco dialetto provinciale condiva le loro invettive già alle porte della città rivale, gli avversari li attendevano. "Che pugni, Madonna mia", scrisse Ettore Berra, giornalista vercellese con un passato nelle Bianche Casacche, l’aria dei derby piemontesi la conosceva bene. Partite maschie, di pallone più che di calcio. Anni di treni a vapore, lumi a olio e scarpe di cuoio ingrassato. Era l’epoca pionieristica del nostro "football", con lo sguardo perso nelle speranze del nuovo secolo subito infrante dai miasmi delle trincee. Alessandria, Novara, Casale e Pro Vercelli rappresentavano “l’università del calcio”. Un calcio ancora abbastanza empirico disputato su campi non perfetti, con palloni cuciti durissimi e le maglie di lanina a maniche lunghe lunghe buone per ogni stagione. Parafrasando Francesco De Gregori e il suo "Girardengo" (toh, guarda caso piemontese di Novi Ligure) si potrebbe anche cambiare una parola a un verso chiave della canzone ma il senso rimarrà intatto:“quando si giocava per rabbia o per amore”. Nello stesso periodo il “Quadrilatero” andava di moda, e allora via a vedere le partite, in bici oppure col tram regionale che assomigliava a una sgangherata diligenza, e in genere ci si portava dietro "la schisceta", il pranzo al sacco. A guardare le foto d’epoca, appaiono squadre composte per lo più da ragazzi dalla faccia sbarazzina, sorridenti e scanzonati, alcuni sdentati, sembrano piuttosto degli studentelli che hanno marinato la scuola e hanno deciso di spendere la mattinata a prendere a calci un pallone quasi di sasso su un rettangolo di terra polverosa o spelacchiata. Invece, a una visione attenta si capisce che cercavano  di vestirsi con cura e scendevano in campo serissimi come se ogni partita fosse un esame per parecchi di loro. La regione piemontese conobbe un periodo felicissimo quando ancora la Juventus vantava un solo titolo e il Torino, a secco di successi, non andava certo per la maggiore. Parlare della Pro Vercelli vuol dire entrare nella leggenda, respirare aria antica da negozio di rigattiere: è la squadra dei sette scudetti cuciti sulla bianca bandiera; è la squadra che più di ogni altra è stata il simbolo di un calcio eroico e pionieristico. La Società Ginnastica Pro Vercelli ebbe un’origine fumosa, sembra abbia visto i suoi natali per volontà del professor Domenico Luppi, addirittura un anno prima del Genoa, nel 1892. Ma fu solo nel 1903 che i “bianchi” fecero il loro esordio ufficiale. Quest'ultimo sodalizio venne pensato e creato da due uomini di cappa e di spada: l’avvocato penalista Luigi Bozino, prototipo del moderno presidente federale, nonchè dispensatore di sigari a ogni giocatore che realizzava delle reti, e il poliedrico Generale Marcello Bertinetti, ottimo atleta in gioventù in diverse discipline, dalla ginnastica, al tamburello, al ciclismo, fino all’irrinunciabile e stoico podismo.  Alla fine degli anni Venti, quando i bianchi avevano già fatto storia, il grande giornalista e disegnatore del “Guerin Sportivo”, Carlin Bergoglio (parente alla lontana di Papa Francesco) li ribattezzò i “Leoni”, indomiti oppositori della superbia metropolitana incarnata dall’Internazionale, con la quale la Pro Vercelli chiuse a pari punti il campionato 1909-1910. La coda dello spareggio segnerà il primo epico scontro del pallone nazionale: fissato per il 24 aprile, non andava bene ai vercellesi (Fresia, Milano II e Innocenti avevano dato la loro disponibilità per un torneo militare) che proposero il 1° maggio. A quel punto la Federazione impose tassativamente il 24 aprile e il presidente Bozino fu costretto ad accettare, ma per ripicca mandò in campo dei ragazzini. L’Inter ovviamente passeggiò e il punteggio finale, mai del tutto stabilito dalla documentazione coeva, oscillerà dal 9-3 all’11-3 ovviamente in favore dei nerazzurri contro gli acerbi seppur talentuosi vercellesi su cui spiccarono le doti di Mario Ardissone e Carlo Rampini (Ardissone era quello che per darsi forza e intimorire gli avversari si tirava su le maniche della maglia ad ogni partita, e in ogni caso da lì a poco entrambi avrebbero vestito la maglia azzurra). Ancora oggi a Vercelli viene citata, ad esempio, la famosa prima trasferta a Casteggio nel 1907, in pieno inverno. I centoquaranta chilometri (fra andata e ritorno) furono percorsi dai baffuti giocatori in bicicletta, con lo zaino del pranzo sulle spalle. La comitiva ritornò a Vercelli con una coppa in bronzo, legata al manubrio di un velocipede, ricevuta per le vittorie ottenute in due gare consecutive, sul Casteggio e sul Milan (pensa te). L'anno successivo la Pro Vercelli vinse il suo primo campionato italiano e fece il clamoroso nel 1909, quindi ottenne altri tre titoli consecutivi, dal 1911 al 1913. Nel primo dopoguerra le bianche casacche conquistarono nel 1921 e nel 1922 gli ultimi due scudetti. La Pro Vercelli a tutt’oggi detiene un record assoluto: nove calciatori su undici schierati nella stessa partita in nazionale (Innocenti, Valle, Ara, Milano I, Leone, Milano II, Berardo, Rampini I e Corna) e tutti nati a Vercelli. Così come vercellese doc e mito dei bianchi è stato il difensore campione del mondo del 1936, Virginio Rosetta, primo “scandaloso” professionista del nostro calcio quando nel 1923 passò alla Juventus che gli offrì un premio ingaggio irrinunciabile: 45mila lire. Vercelli scese in guerra per il suo terzino d’oro, ma la tregua fu ristabilita dietro lauto esborso (40mila lire), così che Rosetta divenne uno dei tanti prodotti del Quadrilatero che hanno poi fatto la fortuna di Juve e Toro. Poi, con l'avvento del calcio professionistico, ebbe inizio la discesa vivacchiando nelle serie semiprofessionistiche. Il nome ad ogni modo conserva un alone di misticismo, mantenuto vivo dalla sua scuola, dalla quale sono usciti, fra i moltissimi altri, campioni quali Rosetta, Castigliano, Giuliano, Ferraris II e Depetrini. E non si può nominare Silvio Piola all’anagrafe Silvio Gioacchino Piola. Critici e giornalisti parlavano di lui come un giovane prodigio, sicuro futuro della Pro Vercelli. Nonostante i disperati tentativi di trattenerlo a vita in Piemonte, però, Piola lasciò dopo cinque stagioni con l’obiettivo di approdare alla Lazio, restano 51 goal in 127 partite. E nel computo totale il miglior marcatore del nostro campionato a tutt’oggi. Casale invece rappresenta il vertice sud del quadrilatero. La data di fondazione del Casale risale al 1909 e pertanto siamo già ai 116 della società. I nerostellati, come vengono chiamati dai tifosi casalesi raggiunsero l'apice del successo negli anni a cavallo tra il 1910 e il 1920. Casale ai fasti di Vercelli rispose con Luigi Barbesino (coraggioso nel campo e nel cielo nelle vesti di aviatore) Mattea, Gallina I, Gallina II e Varese: tutti allievi dell’Istituto Leardi, passati dai banchi di scuola a laurearsi campioni d’Italia. La stagione 1912-‘13 regalò la consapevolezza di essere una grande squadra e il 14 maggio 1913, i “Fioi nerustelà” (i giovani nerostellati) superarono, primo club italiano in assoluto, una squadra professionistica del calcio inglese dell’epoca, il Reading. Il professor Jaffe, laureato in scienze naturali e chimica, orgoglioso di quella gioia se la portò con sé anche quando da un campo di calcio si ritrovò in quello di concentramento, deportato in quanto ebreo ad Auschwitz, dove morì il 3 agosto del 1944. Accade nel 1915 e fu l'unico scudetto vinto dal club, che in seguito, sino al termine della Seconda guerra mondiale, recitò un ruolo di primaria importanza nel calcio italiano. Dopo la guerra, come avvenne per tutte le società di estrazione provinciale, iniziò un inesorabile declino. I soldi avevano incominciato a prendere il sopravvento sulla passione sportiva e per i piccoli centri diventava sempre più difficile tenere il passo delle grandi città. Da Casale sono comunque usciti giocatori di importanti, di rango si usava dire, primi fra tutti Caligaris e Monzeglio. L'Alessandria, pur senza giungere alla conquista di nessun titolo di campione d'Italia e pur essendo la più... giovane squadra del quadrilatero, ha tuttavia il pieno diritto di venire considerata tra le società più blasonate del calcio italiano. Non per nulla essa ha dato alla nazionale italiana qualcosa come 14 giocatori. La fondazione dell'Alessandria risale ad un imprecisato giorno del febbraio del 1912. La prima squadra scese in campo con una maglia totalmente diversa da quella attuale ossia una divisa coi colori bianchi e azzurri gli alessandrini esordirono nella prima partita di campionato subendo una sonora sconfitta ad opera del Casale per 7 a 0. I “mandrogni”, si sa, sono tenaci e non si scoraggiarono tanto facilmente. La lezione di Casale non fiaccò gli entusiasmi, anzi incoraggiò i giocatori alessandrini a prendersi una pronta rivincita e nella partita di ritorno I nerostellati le beccarono per 3 a 1; in quell'occasione, forse per scaramanzia, i baffuti atleti alessandrini indossarono una divisa grigia. Ai colori attuali si arrivò per un fatto economico: Maino, titolare della industria alessandrina di biciclette per cui correva il già citato Girardengo, donò alla società un intero equipaggiamento di maglie grigie, le stesse che usava il ciclista. L’Alessandria dei maestri: Enrico Badò, Almilcare Savojardo, Alfredo Ratti dell’ “inglese” George Smith. Si narra del bellissimo calcio dei grigi, che non hanno vinto niente ma in compenso nel loro ventennio aureo hanno lanciato, ben prima dell’abatino di platino Gianni Rivera, stelle del calibro di Banchero, Carcano, Ferrari, Gandini, Cattaneo e “sua regia” Adolfo Baloncieri, che sosteneva convinto: "Con i giocatori usciti da Alessandria e oggi sparsi ai quattro venti nelle squadre italiane, si potrebbe formare uno squadrone formidabile". Infine, il Novara, sorto nel 1908 dopo la trasformazione della “Football Associazione Studenti” nata l'anno prima ad opera di un gruppo di liceali, che da Vercelli avevano raccolto le voci del nuovo sport. La squadra adottò maglie bianche, come quelle della Pro Vercelli, ma si cambiò presto colore. L'origine dell'azzurro è abbastanza curiosa: l'idea fu suggerita involontariamente dall'arbitro vercellese Milano, recatosi a Novara a dirigere un incontro indossando un fiammante maglione azzurro. Il colore piacque così tanto ai sostenitori novaresi che venne adottato a furor di popolo, dopo un'assemblea tenuta sotto i portici del mercato di Piazza Pasteur. il Novara è stato in Serie A sino al 1955, poi ha riassaggiato la massima categoria nel 2011, a distanza di oltre mezzo secolo, dopodiché ennesimo tramonto con la discesa nelle categorie minori. Nella squadra azzurra sono cresciuti e hanno militato Meneghetti, Mornese, Migliavacca, Reynaudi. Il Moccagatta, il Natal Palli, il Robbiano e il prato di via Alcarotti prima e di viale Kennedy poi, sono diventati i templi laici di fedi calcistiche che hanno resistito alle nebbie della storia. Che giorni, quelli.

giovedì 19 giugno 2025

COSENZA, MARULLA 9 PER SEMPRE




Errata Corrige. Anzi no, per niente. Un miliardo e ottocento milioni di vecchie lire che turbavano le notti dei tifosi cosentini alle prese con il dramma sportivo di non vedere più il loro amato centravanti allietare le domeniche. “Vestirà comunque in rossoblù”, era il pensiero consolatorio che circolava ma a cui non credeva nessuno. L’unica certezza fu che l’estate del 1985 sarebbe stata quella del distacco. Un venditore ambulante di frutta in via Panebianco trovò anche il modo per sublimarlo: “Miluni ara Gigi Marulla” recitava la pubblicità vergata a mano su un cartone appeso davanti alla bancarella. L’ultimo dolce prima dell’amaro. Senza Marulla il Cosenza, impegnato in serie C1, iniziò balbettando. Alla sesta giornata in casa contro il Siena di uno scatenato Fermanelli (autore di una tripletta) il punteggio diventò impietoso: 1-4. Ad un certo punto però le radioline collegate con "tutto il calcio minuto per minuto" gracchiarono la voce impostata di Ezio Luzi che interruppe dallo studio per il consueto aggiornamento sui risultati di B e dando atto del vantaggio del Genoa sul Cesena. Allora l’aria sul San Vito si fece rarefatta. “Ha segnato… Marulla”, e l’urlo collettivo dei presenti scosse le fondamenta delle tribune. Un boato, intenso, prolungato. Tanti altri partiranno ancora da quei gradoni negli anni a venire, quando di nuovo Gigi tornerà a Cosenza. Eppure, quello, dicono loro, resterà il più disperato e tenero mai sentito.


Gigi Marulla come una varchiglia di Renzelli, come una poesia di Ciardullo, come una pagina di Telesio. Marulla adorato a Cosenza e dalla sua provincia. Dai Casali al Manco, dalla bizantina Rossano fino ad Amantea hanno avuto il loro Maradona senza eccessi. Calabrese buono, Gigi. Solidale e amico della Terra di Piero, laggiù in Calabria dove il pallone sembra avere un suono diverso, un rimbalzo più duro. Rimbomba tra i monti della Sila, rotola lungo il Crati, attraversa vicoli stretti e piazze acciottolate in cui il tempo evapora scorrendo con maggior lentezza. A Cosenza fra le mura normanne, il calcio è faccenda sentimentale, da fiori d’arancio, forza di un rito sociale al labile confine con il sacro come lo definì Pasolini. Luigi “Gigi” Marulla resta nome che a distanza di anni vibra alla pari di una danza dal sapore antico. Quando nel luglio del 1991 il Cosenza affrontò la Salernitana nello spareggio salvezza di Pescara, la città intera restò sospesa, immobile. Era il 16 giugno, stadio Adriatico, quinto minuto del primo tempo supplementare: sudore, caldo e afa ad accorciare il respiro. Marulla è pronto a battere dagli undici metri, la palla sul dischetto di gesso, le mani sui fianchi, gli occhi fissi sul pallone, quel numero 9 sulle spalle a indicarne la cabala delle gesta. La rete si gonfia, salvezza, pandemonio. Quello non fu solo un goal: fu la definizione stessa della fatalità calcistica cosentina. Più di un successo, più di una promozione: fu l’attestazione identitaria di una squadra e di un popolo che viveva il calcio non come normale passatempo ma come appartenenza totale. “Marulla è il Cosenza”, dicono ancora oggi i tifosi al San Vito-Gigi Marulla, lo stadio che reca inciso il suo nome come si affigge quello di un santo sopra una teca di vetro con le reliquie. Perché per Cosenza, Marulla non è mai stato solamente un attaccante. È stato il capitano, il simbolo, il trascinatore. Un uomo che scelse la polvere della provincia quando avrebbe potuto andare altrove, che sposò la maglia rossoblù dei "lupi" come si sposa la donna della vita. Un uomo perbene, di altri tempi si dice alle volte con troppa facilità e retorica, senonché Marulla fu davvero persona, oltre che "bomber", di rara pregevolezza, uno spasso per i bambini, un cartone animato che sconfiggeva i cattivi del mondo. Quando mise piede a Cosenza aveva appena compiuto vent’anni e, curiosamente, prima della calvizie inclemente, aveva una montagna di riccioli in testa. Era l’estate del 1982, quella indimenticabile del Mundial spagnolo. Gigi Marulla da Stilo, un bel presepe di pietra arroccato in provincia di Reggio Calabria e affacciato sullo spumeggiare dello Jonio. Si era messo in luce nell’Acireale guidato in panchina guarda caso proprio dal cosentino Franco Gagliardi. A Cosenza finalmente avevano costruito una società affidabile con Cenzino Morelli al timone dopo la promozione in C1 e non ci vorrà molto a convincerli. Il giovane Marulla (mutuando Salinger) giocherà un precampionato eccellente ritagliandosi subito un posto da titolare con mister Lucio Mujesan ma alla seconda giornata, a Livorno, il ginocchio cedette e Gigi sarà costretto a rimanere fuori per diversi mesi. Rientrerà dopo la sosta natalizia quando al posto di Mujesan era già arrivato Lino De Petrillo e per chi è appassionato di statistiche, il 9 gennaio 1983 passò agli annali come il giorno del primo goal di Marulla con la maglia del Cosenza. Accadde al San Vito al 12’ del secondo tempo in un Cosenza-Casertana 1-1. Un magnifico goal di testa sotto la Curva Sud. Poi pareggerà l’ex romanista Casaroli. Gigi è un attaccante che fa dello scatto fulmineo e della rapidità la sua arma migliore. Ha un’accelerazione nel breve che è fenomenale e nonostante non sia molto alto, stacca di testa che è una meraviglia. Insomma, ha il fiuto della porta avversaria nel sangue; eppure, non è il classico centravanti che aspetta la palla in mezzo all’area. Lui la cerca, se la va a prendere, ha una ottima tecnica individuale, il dribbling lo esalta, il pubblico naturalmente apprezza. Non fu facile per lui recuperare il ritmo della partita dopo molti mesi di convalescenza, servirà attendere un po' di tempo per il secondo acuto, che giungerà di nuovo dentro al San Vito il 13 marzo in Cosenza-Paganese 3-0. Gigi segna il terzo gol in apertura di ripresa dopo quelli siglati da Conte e Orlando. Poi si apriranno altre porte, a Cosenza fece ritorno nel 1989 dopo le esperienze con le maglie di Genoa e Avellino. Tuttavia, in quella pausa lontano dalla Calabria i suoi centri continuarono a mitigare le delusioni e le amarezze della vita dei cosentini. Già andavano così le cose a Cosenza, anche quando le reti, Marulla, le faceva per un’altra tifoseria. I Lupi stavano perdendo, ma attenzione gridavano le radioline di tutto il calcio minuto per minuto “il Genoa è in vantaggio, rete di Marulla” con allegato boato del San Vito, incomprensibile forse ma sincero. Trattasi semplicemente di vero amore. A Cosenza fra primo e secondo atto resterà per quasi undici anni, scrivendo la storia del club rossoblù: 330 presenze, una novantina di reti, record ancora imbattuti. Ma la fredda matematica, i numeri, da soli, non bastano a spiegare il legame d’affetto. Marulla era il sorriso umile di chi non si è mai montato la testa, l’abbraccio al compagno che sbaglia, la corsa sotto la curva dopo ogni goal, le mani alzate verso il cielo a picco di Calabria. Anche dopo il ritiro, quando il fisico gli impose un passo indietro, Marulla volle restare a Cosenza. Allenatore, dirigente, presenza discreta ma costante. Era uno di famiglia, uno che al bar del centro lo salutavi per nome, ci scherzavi, come un vecchio amico. Finché il 19 luglio 2015, il suo cuore si fermerà all’improvviso, pare, a causa di una congestione dopo aver bevuto una bibita ghiacciata. Manco a farlo apposta alla vigilia dell’anniversario del suo rigore più famoso. Un crudele, infame, scherzo del destino. Il dolore fu collettivo, sincero, autenticamente popolare. Alle esequie, tutta la città si strinse attorno al feretro e alla sua famiglia. E il San Vito, che aveva esultato per ogni suo goal, si trasformò in una sorta di basilica laica dove scorrevano lacrime e cori. Da allora, il suo nome campeggia sopra l’ingresso dello stadio. San Vito-Gigi Marulla: come a dire che per fortuna il calcio, qui, è ancora fatto anche di memoria, di riconoscenza, di gratitudine per un calciatore divenuto esempio comportamentale. Certo, il rischio di cadere nella melassa è sempre enorme solo è vero che le bandiere non moriranno mai perchè quando il calcio diventa passione, si rimane eterni. E poi i lupi ululano solo alla luna.


LA B DELLA MASSESE

  Ho annusato e calpestato quei luoghi per anni e di una cosa posso essere certo, la Toscana culturalmente e linguisticamente finisce in Ver...