venerdì 9 ottobre 2020

IL GESSO DEL SARRIA’

 


Enrique è il prototipo del ragazzino brasiliano da cartolina. Intreccio etnico palpabile, ballerino in ascesa e il pallone chiuso bene nella sacca dietro le spalle, perché Recife non è Rio con la sua spiaggia patinata e naif di Copacabana, lassù nello Stato del Pernanbuco oltre alla palla possono rubarti anche le scarpe e i vestiti. Eppure c'è la stessa sabbia bianca, quella di Muroalto, cucinano una frittata di granchio e aragosta che mette tutti d'accordo, hanno pietre, coralli e occhi chari come le acque dell’Oceano, luce che riflette spazzando via nuvole e sortilegi. O almeno avrebbero dovuto. Enrique non voleva crederci quando in TV, Zico, voltandosi verso l’arbitro, mostrò uno squarcio all’altezza del costato, un buco inferto alla santa maglia numero 10 che sembrava provocato dal morso di un pescecane, mentre sullo sfondo quel terzino italinao, Claudio Gentile, sfoderava la più candida delle espressioni quasi volesse beffardamente spiegare che i tessuti non erano più quelli di una volta. Ma facciamo un passo indietro. Il Brasile del 1982 si era presentato in Spagna per vincere i Mondiali e per riportare a casa una Coppa del Mondo che mancava da 12 anni, dai tempi di Pelé, troppo tempo per chi mangia feijoada, estasiandosi nel ritmo folle e malinconico del samba mentre respira calcio. Ci sono Paesi che esportano materie prime o manufatti dell’industria: il Brasile, sembra esportare soprattutto calcio e il calcio ha cambiato il Brasile. I protagonisti sono loro, i calciatori, ma anche la gente comune, gli appassionati del pallone, i tifosi, bambini che improvvisano le loro partitelle per strada o sulla spiaggia, allenatori, preti, santoni e politici, tutti coinvolti, in un modo o in un altro, nel grandecarrozzone calcistico. Il calcio come magia del mondo moderno, come l’ultimadelle leggende possibili, l’estremo spazio rimasto al sogno, un’arte ma anche un marchio. L’approccio al tema è onnicomprensivo, e quindi nulla rimane fuori da un ricco e colorato affresco, in cui campeggiano la bellezza, la passione e anche l’assurdità di questo sport nel Paese che, nel mondo, l’ha maggiormente coltivato. La religione, il Carnevale e il calcio formano una Trinità della cultura popolare brasiliana. Rio de Janeiro è la città della statua del Cristo, del samba-dromo e del Maracanã. L’appuntamento era alle 17,15 spagnole. Sul disco del centrocampo si presentarono liricamente Dino Zoff e Sócrates, i due capitani. L’arbitro israeliano Klein (con una tragica storia personale alle spalle) si rivolse al brasiliano e fece saltare nell’aria calda di Barcellona la moneta. Testa o croce, palla o campo? Sócrates perderà la scommessa. Zoff opterà per il campo. Il sole era ancora alto, profeticamente azzurro, e il portiere italiano scelse di schierare i suoi a destra perchè quando nella ripresa comincerà a calare saranno gli avversari ad avercelo in fronte. Ma Enrique, a casa, seduto sul divano, davanti al piccolo teleschermo Philips, accanto a suo padre, si beava di una fiducia illimitata in quella nazionale. E come non poteva, ogni angolo di quel paese immenso aspettava la vittoria dal gruppo verdeoro di Telè Santana che sinora aveva travolto tutti, Argentina compresa. Il Brasile d'altro canto resta, exempli gratia, la squadra che riesce a eccedere, a trascendere i limiti stessi del gioco, giungendo a una sorta di status extratemporale e perfino extraqualitativo, cioè la forma, è nel quale riesce a essere capace di ciò che conta di più, l'immediato, vale a dire ciò che avviene senza essere mediato da nulla, un atto puro che non ha bisogno dell'azione per avvenire e sbalordirci. Sembrò palese che contro quell' italietta apparasa zoppicante seppure rinfrancata dalla vittoria di misura su Maradona e compagni l’Italia non poteva essere difficile strappare almeno un pareggio e a quel punto al Brasile avrebbero consegnato il lasciapassare per la semifinale. Bastava amministrare la partita, palleggiare, rintontirli di finte spezzando da subito qualsivoglia illusione. Ma dagli sguardi si capiva che i brasiliani volevano vincere, anzi stravincere, perchè erano venuti al mondo per una missione, dimostrare loro erano e saranno sempre i più forti. Enrique aveva solo 7 anni, in pratica si tarttava del suo battesimo da tifoso, e dopo il primo tempo ebbe una crisi di pianto. Valdir Peres non apparve affatto impeccabile sulla rete di Rossi, mantenendo alto il luogo comune della scarsa prestanza dei portieri in verdeoro, poi però Sócrates, il dottore socilaista, barbuto e solenne, rimedia una staffilata pareggiando la partita solo che non era scritto da nessuna parte che il Brasile avesse dovuto soffrire così tanto. Lo stesso Falcao nei giorni di vigilia ripeté alla stregua di un mantra che la nazionale brasiliana sintetizzava la dimostrazione oggettiva di come bisognava giocare al calcio: allestire un collettivo ricco di altruismo e di movimento che offriva la possibilità al giocatore di dare il meglio di sé. E se poi in squadra hai anche Junior, Leandro, Cerezo, Serginho e Zico, la sfera animista di qualunque orientamento religioso non poteva distaccarsi dal destino dogmatico di diventare campioni. Enrique torna a sedersi, il Brasile nel secondo tempo  riprende ad attaccare senza sosta la porta italiana. Zoff si deve disimpegnare in diverse occasioni, e in ogni caso l'abbiamo detto con il pari addio Mondiale per i ragazzi di Bearzot. Su un  ribaltamento di fronte ecco arrivare un calcio d'angolo. Sugli sviluppi dello stesso, in una fulminea tenzone da flipper nell’area piccola brasiliana, spunta ancora Paolo Rossi lesto a beffare di nuovo gli sconcertati giocatori sudamericani. Tutto da rifare. Ed Enrique in silenzio piangerà nuovamente. Venti minuti alla fischio conclusivo. Caraco. Che non traduco, ma se ci avete provato ci avete preso o ci siete andati sicuramente vicini. Junior dalla fascia sinistra tagliò il campo in orizzontale, Cabrini seguiva Sócrates al apri di un segugio, lasciando però libero Falcao sulla fascia destra. Il riccioluto centrocampista della Roma eseguì un finta di corpo che mandò mezzo stadio a prendere un caffè e poi di sinistro, con precisone, calciò dentro la rete del 2-2 esultando in maniera fin troppo forsennata. E in quell’impeto di arrembaggio i brasiliani da atavica prassi non vollero accontentarsi, mettonndo alle corde la retroguardia azzurra, mandandola davvero in affanno. Ma l’Italia da preciso concetto Eupallico è letale nelle ripartenze. Conti calciò una palla che s’impennerà in area, la difesa avversaria tentennerà un attimo di troppo e Tardelli girò al volo verso la porta. Sulla traiettoria, proprio davanti a Valdir Peres, che ormai sta per diventare ennesimo sinonimo di sconfitta al pari di Maracanazo, arriva la solita canaglia di Rossi a perfezionare la direzione del tiro. Il dramma si stava materializzando assumendo forme spaventose. Il padre di Enrique, che fino a quel momento aveva mantenuto una calma invidiabile si lasciò cadere esausto sulla poltrona incredulo davanti a quel risultato emesso nella didascalia bassa televisiva: Italia 3 Brasile 2.  Un attimo. Ci sarebbe il tempo di pareggiarla prima che l’ansia del condannato a morte prevalga. Enrique non si ricordò di aver mai visto suo padre pregare ma ad un certo punto lo vede genuflesso sul tappeto ai piedi del divano con le mani congiunte perché intanto dalle retrovie sbucò angelico il difensore Leandro che in uno stacco quasi disperato colpirà di testa indirizzando la sfera a botta sicura verso un punto impecisato della porta. Zoff la prenderà, con un minimo di incertezza, ma la prenderà, schiacciando il tango sulla linea di gesso e illudendo la Torcida accalcata sugli spalti del Sarrià in una frazione di tempo e polvere cristallizzata dalla memoria. Forse è questa la sensazione che proveranno gli uomini al cospetto del giudizio divino: la divisione dei giusti dai malvagi. La riscossa dei giustizia sulla prevaricazione. Enrique piangerà, suo padre uscirà a fumarsi la sigaretta peggiore della sua vita, mentre un paese intero prese coscienza della seconda più grande delusione sportiva di sempre. Qualcuno, sprezzante, dirà che quella partita fu il bivio sbagliato che il calcio intraprese:

 “Avesse vinto il Brasile, si sarebbero battute altre strade, dopo quella partita invece il risultato diventò sempre più un’ossessione.”

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