martedì 6 ottobre 2020

VAMO' A BAILAR PARA CAMBIAR LA SUERTE..



“Por eso ahora vamo´ a bailar, para cambiar esta suerte”.

Avellaneda sono ponti e ferrovie sul Riachuelo. Avellaneda sono case basse, botteghe in disuso, agglomerati senza controllo e odore di asado. Avellaneda è un clima di povertà che occupa ogni spazio, anche il più piccolo che la società del benessere lascia libero. In qualche caso ne diviene padrona ed afferma proprie regole. Nei luoghi di forti concentrazioni questo fenomeno appare evidente. Tutti sono in cerca di una qualche opportunità. Avellaneda è qualche pesos guadagnato porgendo la mano. Ogni volto sembra alla ricerca di qualcosa e lo fa indisturbato come lo scorrere del fiume.

“Sì sabemos gambetear para ahuyentar la muerte. Vamo´ a bailar, para cambiar esta suerte”.

Avellaneda sono case pitturate di colori vivaci che ravvivano legno e lamiera: intrise di storia, di miseria e di sogni. Le sculture e i murales, alcuni veri e propri affreschi, abbelliscono lo scorrere dei piedi. Mai casuali, mai contrastanti: colori e forme che il sentire popolare hanno reso una vera e diffusa, unica, opera d’arte. I negozi ripieni di artigianato locale, tanto cuoio lavorato in molti modi. Si avverte che il tempo qui ha meno fretta, perde consistenza, scorre più lentamente. I volti delle persone t’incontrano nella ricerca di un qualche acquisto. Ma tutto è composto, non invadente. Il tratto dei loro volti varia, ci si accorge che pur avendola fatta da padroni gli spagnoli sono stati contaminati dalle etnie provenienti da tutto il mondo che in quel mare venivano a cercare la speranza.   

“Si sabemos gambetear para ahuyentar la muerte. Y por que si, porque sobran las bolas, de matarla con el pecho y no tirarla afuera”.

Avellaneda è Racing e Independiente. Anzi è Racing o Independiente. Il Cilindro o il Doble Visera, che oggi non si chiamano più così ma qui i nomi restano scolpiti nel cuore alla pari di epitaffi alla memoria, marchiati sulla pelle come un tatuaggio. Due stadi che si guardano in cagnesco a duecento metri di distanza l’uno dall’altro. Devi fare una scelta, non puoi restare in mezzo. O vendi l’anima al Diavolo Rosso o entri nelle segrete stanze dell’Accademia. Solo che devi fare presto, “l’Hinchada” vuole coglierti in fasce e accompagnarti per tutta la vita, sotto il cielo a picco di Baires, in un rituale di coriandoli. E allora decidiamo, d'istinto, senza indugi: Independiente. Anzi, Club Atletico Independiente.  

“Para jugar de local en cualquier cancha, aunque pongo el corazóny vo´ ponés la plancha”.

Nel negozio di moda “Ciudad de Londres” un gruppo degli impiegati più anziani fonda un club di calcio che si chiama Maipù Banfield. Sì, ma c’è un problema. Tassativamente, la soglia di età per entrare a farvi parte non consente ai giovani di giocare. Regola amara. Il Diavolo allora ride e si posa all’incrocio fra Calle Bolivar e Calle Victoria a stuzzicare i ragazzi. “…Fate un vostro club” … Dentro un bar in gran segreto si scinde il dopolavoro del Ciudad. Un pezzo del Maipù si stacca per diventare libero, incondizionato, per diventare Indipendente. E questa è la genesi del nome. E’ il 4 agosto 1904. I ribelli si chiamano Aristides Langone, il primo presidente, Daniel Bevilacqua, Juan Artau, Carlos De Giorgi, Andres Ferrier, Victor Camino e Josè Hermida. L’ufficialità arriva nel 1905 e inizialmente la squadra giocherà con una divisa bianca. Poi tre anni dopo Langone restò folgorato dal rosso della maglia del Nottingham Forest e ne mutuerà subito il colore innescando l’ascesa del “apodo”. Un nomignolo coniato definitivamente nel 1926 quando un giornalista vedrà nella furia offensiva di Canaveri, Lalin, Ravaschino, Seoane e Orsi, dei diavoli vestiti di rosso. 

“Y, porque soyde la escuela del bocha, voy con la fantasía a la estrategia fría.y, si no hay copa, que haya cope para la gente,que salta sobre el dolory nace nuevamente…¡vamo´!..”.

Bisogna spendere un nome. Uno solo. Prima ancora di Arsenio Erico, il miglior realizzatore di tutti i tempi. E il nome è Bochini. All’anagrafe Ricardo Enrique Bochini nato il 25 gennaio 1954 nella città di Zárate, Mesopotamia d’Argentina, terra fra fiumi e nazioni. Un passo e ti trovi in Uruguay, due e sei in Paraguay. Un pezzetto di globo dove gli inglesi capirono che la carne era la migliore del mondo e vi fondarono stabilimenti. Così un giorno, dopo una giornata di lavoro, dissero ai loro operai che se volevano vedere e ascoltare potevano insegnargli un gioco che magari gli sarebbe piaciuto. Ma solo per divertimento sia chiaro; perché gli inglesi del periodo sono alla stregua dei giapponesi del medioevo, chiusi in un isolamento fin troppo altezzoso, e non intrattengono rapporti con il mondo del calcio esterno sostanzialmente fino agli anni trenta.

“Y si me voy,así como de repente,es como un viaje más para el que viaja siempre. Sì he de morir, no quiero como la oveja, que cuando no da más lana el amo la degüella”.

Non è sempre facile trovare un giocatore che dedichi tutta la sua carriera a un’unica squadra. Ricardo Bochini “El Bocha” con l’Independiente ci ha giocato per 20 stagioni. Vi ha giocato sempre. Ci giocherà sempre. Tra il 1972 e il 1991 colleziona 638 partite, segnando 97 goal e vincendo quattro campionati, quattro Coppe Libertadores e due Coppe Intercontinentali. Per gli “aficionados” del Diablo solo due cose nella vita sono sacre: la madre e lui: “Snoopy”. Il Boca Juniors lo vide prima di tutti. Luis Ciriulli lo porta a Diego Garcia, l’allenatore degli Xeneizes. Quest’ultimo dice che è bravo ma gli manca qualcosa nel fisico. Gli appare troppo fragile, troppo piccolo. E allora Nito Veiga s’infilò lesto fra le pieghe delle indecisioni del Boca, lo prende e gli regala il Doble Visera e la maglia numero 10, la maglia per combattere i mascalzoni del mondo.

Diventerà il Re di quello stadio, idolo e icona della gente del Club Atletico.

“Tomala vos, dámela a mí, si te quedas… por qué no venis? movela como sea, que ya llegó la hora del baile de la gambeta. Para cambiar de suerte Fantaseo una jugada Hay que ahuyentar la muerte. Con la pelota encendida”.

Bochini è la risoluzione di Tucuman. Da giovane lo chiamano “Pelusa”, poi i capelli lentamente lo abbandonano ma non la classe, tantomeno l’intelligenza. Se la geometria ci condanna, Bochini è il barocco che ci salva, gli arabeschi fra gli speaker in divisa militare, Bochini è il cantore che stende poesia mentre alle Malvinas si muore. Un giorno lo inviteranno a un matrimonio, cerca di evitare di esporsi, tuttavia mentre la cerimonia cala nella solennità della predica alla coppia, stretta nella morsa del dogma e dei parenti, il parroco s’inceppa, si blocca, scende trafelato dall’altare e punta dritto verso una colonna. Ha visto “El Bocha” e ora pretende un autografo, gli sposi possono attendere.

"Para cambiar de suerte Lleva el alma de una queja Hay que ahuyentar la muerte Y el cuero es pura vida. Para cambiar de suerte. Si la suerte ya está echada Hay que ahuyentar la muerte.”

Maradona lo chiamerà il maestro. Sì, Maradona, l’incarnazione del verbo, chiamerà maestro Bochini, il più inverosimile dei maestri. Piccolino, goffo, imperturbabile, senza carisma. Eppure quel senso di improbabilità paradossalmente lo segna al punto da far emergere la sua popolarità. Nell’ordinarietà conclamata ha impersonato il genio creativo del calcio argentino, il ragazzo della strade che ha fatto bene senza alcun vantaggio dall’educazione o dal fisico ma solo attraverso la sua ignorante capacità tecnica. Eppure la sua bravura non troverà sfogo in nazionale. Menotti non lo convoca per i mondiali del 1978 e per quelli del 1982. Bilardo lo porterà in Messico solo per fargli giocare dieci minuti contro il Belgio. E Ricardo Bochini alla domanda se lui si sentisse un campione del mondo risponderà sempre di no.

“Y es el final del partido, para cambiar de suerte Meto un gol de corazón Hay que ahuyentar la muerte. Para gritarle al olvido”.

Bochini è l’Independiente e basta. A decretarlo potrebbe bastare la notte di Cordoba. La notte del suo ventitreesimo compleanno. Il giorno della finale di ritorno del campionato argentino 1977 giocata stranamente il 25 gennaio 1978. All’andata in casa del “Diablo Rojo” era finita 1-1. Reti di Ricardo Cherini per il Talleres e di Enzo Trossero per l’Independiente. Adesso alla squadra del “Pato” Pastoriza necessariamente serviva una vittoria o per lo meno un pareggio con più di un gol per vincere il torneo. Notte di campioni, di entusiasmo, ma anche di Colonnelli e di politica. Fra i trentamila della “Boutique” in tribuna d’onore c’è il generale Luciano Benjamin Menendez, governatore di Cordoba molto interessato affinché la squadra locale diventasse campione del paese. L’Independiente in maglia bianca passa in vantaggio con un preciso colpo di testa di Norberto Outes. La “T” reagirà e l’arbitro Roberto Barreiro non esita a dargli una mano decretando un rigore per i padroni di casa. Cherini segna e il campionato torna in bilico finché Angelo Bocanelli non realizza un goal di mano. Lo hanno visto tutti. Tutti meno che il signor Barreiro ma gli increduli tifosi del Talleres festeggiano e si fanno beffe del torto fatto agli avversari. 

Otto minuti d’inferno. Larrosa, Galvan e Trossero vengono espulsi, l’Independiente resta in otto uomini a quindici minuti dalla fine in una bolgia. Non è giusto, non può finire così, non deve piangere il popolo rosso di Avellaneda. Nessuno lo vede Bochini, nessuno tranne Daniel Bertoni, forse perché è nato a Bahia Blanca, ha più sale nei capelli e ha visto le carte di Magellano. Ed ecco l’inaspettato, l’imprevisto, perché in fondo il calcio è anche “dinamica dell’impensato“. Tra Bertoni e Bochini in un attimo cova l’intesa decisiva nell’area intasata di sudore e rabbia. Bertoni tocca la palla ed innesca il compagno. Rubén Guibaudo esce di quel tanto che basta a fregarlo ed emette la sentenza di condanna dei suoi. 2-2 l’Independiente è campione d’Argentina. 

Gracias Bocha. 

“Vamo’ a bailar para cambiar la Suerte…”. 

 


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