"Una ragazza divorata dal fuoco, Tutti noi conosciamo la sua intenzione, Dai progetti che ha fatto, Le ho fatto una promessa, Battezzatemi nel suo splendore, Tutti progetti che ha fatto, Lei è l'unica, Lei aspettò…"
- This is the one, saldo equilibrio fra arpeggi e riverberi, è una delle tante bolle del rock mancuniano partorite dagli Stone Roses, i cui confini sfumarono al punto da permettere una confluenza di elementi contribuendo a definire il fenomeno “Mad-chester” che avrebbe inglobato lisergiche nebbie psichedeliche e il pop dei settanta. Lei aspettò, o lui, fa lo stesso, il doppio si annulla e per una volta fottiamocene di qualunque lessico e sintassi. Già, aspettò ventisei anni e l’attesa è uno stato talmente personale in cui si è soli. L’attesa è guardare ed esplorare, fermarsi a contemplare, riflettere su ciò che è successo o può succedere. Scorrono i fotogrammi di Matt Busby, di Bobby Charlton, di George Best, scorrono stagioni impazzite di pioggia e foglie morte, di vuoto nella latitanza del nome, scorrono altre più generose ma pur sempre infarcite di una tintinnante decadenza, di una pignoleria da rovello. Per molti l’attesa è un arco di tempo in cui prestare attenzione a faccende altrui; ma la vita da spettatore a Old Trafford finisce presto, ci si annoia, non ci si interessa ai retroscena della vita del vicino. Nel ridotto di Stretford, fra tetti e camini su file diligenti di case a schiera in mattoncini rossi, non piace essere protagonisti della propria attesa. Se Kafka sosteneva che la sua vita non fosse altro che “un’attesa prima della nascita”, Beckett ha fatto dell’attesa il soggetto principale della sua opera, e alla sopportazione di essa contrapponiamo reazioni infantili, ed è forse per questo che spesso diventiamo così puerili mentre aspettiamo perché l’attesa in fondo è solo speranza che accada un qualcosa che potrebbe non accadere mai, o semplicemente non accadere come noi speriamo che accada. Ed in questa sorta di ludo scenico, in quest’affanno di reiterata esistenza senza scopo, seppure veneratissima, che si muovono, allungandosi o ritraendosi, le ombre a sbalzo della West End ancora in rifacimento; ombre tese come le sbarre di una prigione, dentro un pomeriggio di maggio in cui gli “United Review”, senza saperlo, saranno battuti negli anni seguenti a prezzi folli, e il pubblico cantava, affermando con onore, di essere “l’esercito di merda di Denis Irwin”. C’è una foto, Ryan Giggs che corre in un stradina di un quartiere popolare di Manchester, una donna che lo guarda intontita fra pozzanghere permanenti. La sua è una storia di tenacia e sacrificio, e in quello scatto, strappato al conformismo, si possono sentire e ritrovare emozioni, attraverso un modo di essere, nei contorni di uno spazio pietrificato da un alba livida sboccia la curva acerba del suo sorriso. Quel giorno del 1993 Giggs non ha compiuto vent’anni, lo Sheffield Wednesday è avanti 1-0 a quattro minuti dal novantesimo e lui si porta alla bandierina per battere un corner nel dipanarsi di una cicatrice pronta a tormentare i 40000 che alitano malto sopra di lui. Era stato un campionato combattuto, ci si era messo pure il Norwich City a scompigliare il mazzo prima di precipitare nel canovaccio del perduto sogno di provincia, ma l’Aston Villa memore di un passato da attore sepolto in terra sconsacrata, prova a scrivere un nuovo testo. Tuttavia il teatro di rappresentazione è pura clausura, con le sue trame convenzionali fino all'inverosimile, abbagliato dalla visione del mondo di Schopenhauer, di un io obbligato, ecco la frustrazione dei ruoli spaccati come un arancia dal drammaturgo. Solo che quel Manchester United non finge, e di teatro vero e non di stolto intrattenimento, se ne intende. Date un teschio a Peter Schmeichel e avrete un principe di Danimarca più perfetto di Amleto stesso, magari al pari di quello di Laforgue, in cui il giovane si fa spettro del padre e decide di modificare la sceneggiatura, aggiungendo parti scritte di suo pugno. Alex Ferguson stavolta non deve fallire, resta attaccato alla panchina incassata nei mattoni grazie a una rete di Lee Martin a Wembley e ai due siluri di Mark Hughes a Rotterdam contro il Barcellona. Due coppe fanno argenteria, ma per liberarsi definitivamente dall’inverno del nostro scontento deve far brillare il sole del titolo sullo Ship Canal. Cerca di dare fiato ai 36 di Captain Marvel “Robbo” Robson inserendo Brian McClair a centrocampo e lo scozzese nasconde bene sotto il tartan le pecche da centrocampista empirico. Si, ma c'era da battare un calcio d'angolo. Giggs arcua una traiettoria da maldestro mortaio appuntato su una cresta alpina, quasi sulla mezzaluna dell’area, una balistica apparsa senza pretese anche ai fusti di birra del Bishop Blaize, eppure sbuca il corpaccione di Steve Bruce, il suo viso irregolare, tutta grinta e gomiti, e la prende di testa girandola nell’angolo dove Woods smanaccia aria e ricade stordito con la sfera nella rete: 1-1. Nel frattempo Eric Cantona non si lancia in esultanze. Si ferma. Come una statua, il corpo rigido, il diavolo qui è di casa e strizza l'occhio al perfetto marsigliese rivoluzionario, spontaneista di matrice anarco-insurrezionalista. L'amico Eric si volta soltanto per guardare storto Trevor Francis, il manager delle Owls, colui che lo scartò al provino, colui che adesso urla all’arbitro: "è finita". No, non è finita perché l’arbitro ufficiale si è infortunato ed è stato sostituito dal guardalinee. Si deve giocare almeno 10 minuti. In mezzo sbuffa il dinamico Paul Ince, c’è Lee Sharpe, sfortunato fuoriclasse dalle troppe vite in una sola, celebre per lo "Sharpey shuffle", il balletto con cui festeggia ogni goal impugnando la bandierina alla stregua di un microfono, dimenandosi come Elvis Presley. Oh, ci siamo, sulla destra si muove Paul Parker, Hughes invece è circondato dagli indiani e sbraita legato al totem Carlton Palmer. Per realizzare il punto di svolta occorre la ruvida disinvoltura di Gary Pallister, che naturalmente la colpisce malissimo ma Nigel Worthington è nel posto giusto nel momento (per lui) sbagliato e la scheggia quel tanto che basta a spedirla ancora una volta sul testone riccio di Bruce. E' all'incirca il novantaseiesimo, l'ultimo lancio di dadi alla roulette del Trafford: 2-1. “Fergie Time”. L’attesa è finita, il Manchester United si risiede sul trono, saldato dall'uomo d'acciaio nato a Govan ora addolcito dalla rosa rossa del Lanc's, e a Manchester si forma una Repubblica a immagine e somiglianza del monolite che l’ha plasmata.
“Sto andando a Gretna Green, e se tu non riesci a indovinare con chi, dovrò considerarti un’ingenua, perc hé c’è un solo uomo al mondo ch...