sabato 28 novembre 2020

YELLOW BRICK ROAD



"Oggi andiamo alla partita". Sguardi tesi, peccati originali nelle lentiggini delicate, verifiche teoriche dell’impatto del battipanni sui sederi salmonati. Ma il ragazzino occhialuto dai capelli ramati arringa il gruppetto come gli ammutinati del Bounty. “Cagasotto, torneremo in tempo, ho calcolato tutto.” Reginald Kenneth Dwight e tre amici, cartella sulle spalle, si muovono a passi svelti su per i vialetti del distretto collinare di Watford, laccio emostatico che soffoca squarci di Londra, esorcismo contro il maleficio del patinato, una zona rurale fatta di casette incolonnate dagli infissi bianchi ingentilite da siepi di pitosforo. La storia d’amore di Reginald Kenneth Dwight, in arte Elton John, con la sua squadra di club, comincia quel giorno marinando la scuola. Bucano Pinner (dove Reginald era nato e viveva a casa dei nonni insieme con i genitori) e seguono la folla. Reginald aveva sei o sette anni, sarà stato il 1953 o il 1954, poco importa, agli amichetti parlava seccato di come suo padre trombettista lo costringesse a interminabili lezioni di pianoforte e visto dalla prospettiva della "trottola" di Minerva tutto ciò doveva ovviamente appariva come una bislacca battuta di spirito. Poi appare Vicarage Road, allucinazione affabulatrice di tribune distorte, contrappunto eccelso di muri scurissimi su un terreno di gioco sputato da un frullatore di erba, terra e acqua piovana. C'è un problema. A tasche di fuori i tre non riescono a mettere assieme i pound necessari nemmeno per un solo biglietto e se anche un tornello si fosse caritatevolmente aperto mica si poteva giocarsi ai dadi l'ingresso. Allora decidono di accontentarsi, di sbirciare attraverso la prospettiva semicelata da un pilone dei riflettori che lasciava intravedere la porzione di una delle due aree di rigore. Qualcuno disse che quello là in maglia gialla era Maurice Cook il miglior centravanti di sempre mai visto sotto quel cielo velato e capriccioso. Restò l’emozione, il rumore composto, il brivido della folla. Reginald decise di tifare per quella squadra, il club del suo sobborgo, conservando in una nicchia del cuore quel pomeriggio di settembre in cui il Watford sconfisse 3-0 il Reading. Nel 1974 Reginald è già Elton John, eccentrico e imbellettato astro nascente del pop britannico che stava modellando uno stile spolverando riferimenti culturali americani uniti alla vorticosa spinta creativa del dopo Beatles. Il 5 maggio organizzerà un concerto proprio a Vicarage Road, radunando altri colleghi e fra questi, guarda caso, anche Rod Stewart, uno dei rocker calcistici più popolari. Costo del biglietto, una sterlina. Pienone. Eppure nemmeno l’appena pubblicato “Captain Fantastic”, dal suono inconfondibile, distoglierà Elton dalla passione per il pallone. Il Watford annaspava nel quarto piano della piramide professionistica e lui si presentò sul palco travestito da calabrone. Il percorso ben più concreto di quello trasognato di “yellow brick road” che aveva lanciato la strepitosa raccolta “rubata” al Mago di Oz, era ormai segnato. Elton John tre anni più tardi, nell'aprile del 1977, acquisterà la squadra, il sogno di ogni tifoso, rilevando la quota di maggioranza appartenuta a Jim Bonser. Tanti cari saluti e una discreta buonauscita a Mike Keen, e dopo un paio di telefonate arrivò a Vicarage Road il manager trentaduenne Graham Taylor, a dire il vero già piuttosto appetibile e discusso per il buon lavoro svolto a Lincoln. Non stringono patti tuttavia si comprenderanno al volo in un esparanto di ambizione. Nel giro di cinque stagioni i gialloneri listati di conturbanti marchette rosse sono ai nastri di partenza della Prima Divisone e solo il Liverpool di Greame Souness e Ian Rush riuscirà  a tenere a bada la scatenata banda di Taylor. Un risultato spaventoso, frutto di un calcio semplice e al tempo stesso colto. Qualche interprete eccellente come John “Hot Cross” Barnes di appena 18 anni, e altri giocatori controversi tipo il centravanti Luther Blissett che segnerà 27 reti in quella stagione da urlo dentro un Vicarage Road gremito e contornato sul perimetro del campo da un inconsueto muretto bianco a sostenere la cartellonistica pubblicitaria dell’Iveco che aveva versato in cassa 400000 sterline. Poi l’estro di Nigel Callaghan, la corpulenta spalla di Blissett, Ross Jenkins, e il capitano Les Taylor. Ci sono uomini d’esperiemza che non si vergogneranno a portare il secchio, l’ex Arsenal Pat Rice (ad Highbury, tripletta di Barnes, il Watford sorprenderà i gunners vincendo 4-2), e Gerry Armstrong, uome d’ordine e di rissa a seconda del pub in questione. Ironia della sorte, fra le poche sconfitte che comprometteranno il cammino degli Hornets, fu a Maine Road contro il Manchester City dove il difensore Bobby McDonald giocò 85 minuti in porta dopo che Joe Corrigan si era lussato una spalla, e un'altra, di fronte al Forest di Clough sbagliando un rigore sullo 0-0. La battaglia con il Liverpool restò impari; nel tempio di Anfield in dicembre il Watford cederà 3-1, mentre al ritorno in una situazione di classifica assolutamente gestibile per i reds di Bob Paisley, gli Hornets si prenderanno una piccola rivincita battendo la corazzata della Mersey 2-1 grazie ai centri di Martin Patching e Luther Blissett. L’anno seguente, senza Blissett ceduto con esiti circensi al Milan, il Watford getterà corpo e anima nella FA Cup. In quel 1984 per acquistare il singolo degli Human League fuori dal Virgin Megastore di Oxfor Street, c’era una fila chilometrica composta anche da gente che non distingueva il rock dal pop e non sapeva niente di Clash, Style Council, Heaven 17, Everything but the girl o David Bowie. Tutto questo perchè dopo una semifinale da palpito con il sorprendente Plymouth, risolta da una rete del biondo George Reilly, Elton John, nel pieno di una sua tournée in Germania, sarà piacevolmente costretto a prendere un aereo per tornare a Londra. Il Watford è sotto le torri di Wembley a giocarsi la coppa davanti a 90000 spettatori contro il gagliardo Everton di Howard Kendall. Non andò bene, ma quella scalata, quei risultati, resteranno una delle pagine più struggenti nella storia salvifica del calcio inglese. 
 

 
 
 

 


 

 

 

 

giovedì 26 novembre 2020

THIS IS THE ONE

 

 

"Una ragazza divorata dal fuoco, Tutti noi conosciamo la sua intenzione, Dai progetti che ha fatto, Le ho fatto una promessa, Battezzatemi nel suo splendore, Tutti progetti che ha fatto, Lei è l'unica, Lei aspettò…"  

- This is the one, saldo equilibrio fra arpeggi e riverberi, è una delle tante bolle del rock mancuniano partorite dagli Stone Roses, i cui confini sfumarono al punto da permettere una confluenza di elementi contribuendo a definire il fenomeno “Mad-chester” che avrebbe inglobato lisergiche nebbie psichedeliche e il pop dei settanta. Lei aspettò, o lui, fa lo stesso, il doppio si annulla e per una volta fottiamocene di qualunque lessico e sintassi. Già, aspettò ventisei anni e l’attesa è uno stato talmente personale in cui si è soli. L’attesa è guardare ed esplorare, fermarsi a contemplare, riflettere su ciò che è successo o può succedere. Scorrono i fotogrammi di Matt Busby, di Bobby Charlton, di George Best, scorrono stagioni impazzite di pioggia e foglie morte, di vuoto nella latitanza del nome, scorrono altre più generose ma pur sempre infarcite di una tintinnante decadenza, di una pignoleria da rovello. Per molti l’attesa è un arco di tempo in cui prestare attenzione a faccende altrui; ma la vita da spettatore a Old Trafford finisce presto, ci si annoia, non ci si interessa ai retroscena della vita del vicino. Nel ridotto di Stretford, fra tetti e camini su file diligenti di case a schiera in mattoncini rossi, non piace essere protagonisti della propria attesa. Se Kafka sosteneva che la sua vita non fosse altro che “un’attesa prima della nascita”, Beckett ha fatto dell’attesa il soggetto principale della sua opera, e alla sopportazione di essa contrapponiamo reazioni infantili, ed è forse per questo che spesso diventiamo così puerili mentre aspettiamo perché l’attesa in fondo è solo speranza che accada un qualcosa che potrebbe non accadere mai, o semplicemente non accadere come noi speriamo che accada. Ed in questa sorta di ludo scenico, in quest’affanno di reiterata esistenza senza scopo, seppure veneratissima, che si muovono, allungandosi o ritraendosi, le ombre a sbalzo della West End ancora in rifacimento; ombre tese come le sbarre di una prigione, dentro un pomeriggio di maggio in cui gli “United Review”, senza saperlo, saranno battuti negli anni seguenti a prezzi folli, e il pubblico cantava, affermando con onore, di essere “l’esercito di merda di Denis Irwin”. C’è una foto, Ryan Giggs che corre in un stradina di un quartiere popolare di Manchester, una donna che lo guarda intontita fra pozzanghere permanenti. La sua è una storia di tenacia e sacrificio, e in quello scatto, strappato al conformismo, si possono sentire e ritrovare emozioni, attraverso un modo di essere, nei contorni di uno spazio pietrificato da un alba livida sboccia la curva acerba del suo sorriso. Quel giorno del 1993 Giggs non ha compiuto vent’anni, lo Sheffield Wednesday è avanti 1-0 a quattro minuti dal novantesimo e lui si porta alla bandierina per battere un corner nel dipanarsi di una cicatrice pronta a tormentare i 40000 che alitano malto sopra di lui. Era stato un campionato combattuto, ci si era messo pure il Norwich City a scompigliare il mazzo prima di precipitare nel canovaccio del perduto sogno di provincia, ma l’Aston Villa memore di un passato da attore sepolto in terra sconsacrata, prova a scrivere un nuovo testo. Tuttavia il teatro di rappresentazione è pura clausura, con le sue trame convenzionali fino all'inverosimile, abbagliato dalla visione del mondo di Schopenhauer, di un io obbligato, ecco la frustrazione dei ruoli spaccati come un arancia dal drammaturgo. Solo che quel Manchester United non finge, e di teatro vero e non di stolto intrattenimento, se ne intende. Date un teschio a Peter Schmeichel e avrete un principe di Danimarca più perfetto di Amleto stesso, magari al pari di quello di Laforgue, in cui il giovane si fa spettro del padre e decide di modificare la sceneggiatura, aggiungendo parti scritte di suo pugno. Alex Ferguson stavolta non deve fallire, resta attaccato alla panchina incassata nei mattoni grazie a una rete di Lee Martin a Wembley e ai due siluri di Mark Hughes a Rotterdam contro il Barcellona. Due coppe fanno argenteria, ma per liberarsi definitivamente dall’inverno del nostro scontento deve far brillare il sole del titolo sullo Ship Canal. Cerca di dare fiato ai 36 di Captain Marvel “Robbo” Robson inserendo Brian McClair a centrocampo e lo scozzese nasconde bene sotto il tartan le pecche da centrocampista empirico. Si, ma c'era da battare un calcio d'angolo. Giggs arcua una traiettoria da maldestro mortaio appuntato su una cresta alpina, quasi sulla mezzaluna dell’area, una balistica apparsa senza pretese anche ai fusti di birra del Bishop Blaize, eppure sbuca il corpaccione di Steve Bruce, il suo viso irregolare, tutta grinta e gomiti, e la prende di testa girandola nell’angolo dove Woods smanaccia aria e ricade stordito con la sfera nella rete: 1-1. Nel frattempo Eric Cantona non si lancia in esultanze. Si ferma. Come una statua, il corpo rigido, il diavolo qui è di casa e strizza l'occhio al perfetto marsigliese rivoluzionario, spontaneista di matrice anarco-insurrezionalista. L'amico Eric si volta soltanto per guardare storto Trevor Francis, il manager delle Owls, colui che lo scartò al provino, colui che adesso urla all’arbitro: "è finita". No, non è finita perché l’arbitro ufficiale si è infortunato ed è stato sostituito dal guardalinee. Si deve giocare almeno 10 minuti. In mezzo sbuffa il dinamico Paul Ince, c’è Lee Sharpe, sfortunato fuoriclasse dalle troppe vite in una sola, celebre per lo "Sharpey shuffle", il balletto con cui festeggia ogni goal impugnando la bandierina alla stregua di un microfono, dimenandosi come Elvis Presley. Oh, ci siamo, sulla destra si muove Paul Parker, Hughes invece è circondato dagli indiani e sbraita legato al totem Carlton Palmer. Per realizzare il punto di svolta occorre la ruvida disinvoltura di Gary Pallister, che naturalmente la colpisce malissimo ma Nigel Worthington è nel posto giusto nel momento (per lui) sbagliato e la scheggia quel tanto che basta a spedirla ancora una volta sul testone riccio di Bruce. E' all'incirca il novantaseiesimo, l'ultimo lancio di dadi alla roulette del Trafford: 2-1. “Fergie Time”. L’attesa è finita, il Manchester United si risiede sul trono, saldato dall'uomo d'acciaio nato a Govan ora addolcito dalla rosa rossa del Lanc's, e a Manchester si forma una Repubblica a immagine e somiglianza del monolite che l’ha plasmata.

 

 


 

 

THE GATE OF SHEL'S

  Diciamolo, ci avete fracassato il cazzo con gli stadi nuovi tutti uguali. Ma qui siccome siamo a livelli straordinari di decadenza occorre...