giovedì 25 marzo 2021

UNA RONDINE FA PRIMAVERA





Dobbiamo gettare in aria un po’ di numeri, così, imbambolati fra l’allegro e il malinconico, proprio come fossero coriandoli di Carnevale che mai è festa del tutto felice perché le maschere hanno sempre una storia da ricordare e magari dimenticare in fretta per non pensarci troppo. Chi è servo del crudele padrone, chi è servo del denaro, chi è schiavo dell’amore, chi è rapito della nostalgia. E tutti quei coriandoli, nello svelarsi della figura retorica, non sono altro che figurine adesive, quelle della Panini, le nostre amate figurine dell’album dei calciatori, quando l’album era una cosa seria, un espositore di amenità, di piccole o grandi curiosità, la vera mappa geografica di noi ragazzi. Il numero sul retro riportava 413, e a quel punto già capivi, anche senza rovesciare l’immagine, che si trattava di una squadra di Serie C, quella Serie C sanguigna e mordace dei campi di provincia, se non di comune, fra terra battuta, nobili decadute, giovani promesse, e un pubblico variegato, da balera e circolo borghese, da commedia all’italiana, gente che imbottiva i cinema quando arrivava l’ultimo film di Pietro Germi, Nanni Loy, Mario Monicelli o Luigi Comencini e il fumo si accomiatava silente in ogni angolo della sala, ristagnando, un po’ come l’Italia dell’inflazione e delle 127, un pubblico da processione in Salmo e da festa dell'Unità in fisarmonica, senz’altro da ombrello, perché le tribune coperte erano poche e allora occorreva prevenire acqua e freddo con un pesantissimo impermeabile color canarino, con il Caffè Borghetti e con la mignon di cognac nascosta dentro la tasca interna del giaccone appena comprato che, per l’amor del cielo, ti doveva bastare tutto l’inverno e forse anche quello successivo. La figurina numero 413 nella stagione di grazia 1983/84 recitava Rondinella Marzocco e rappresentò un autentica scia di cometa attraverso lo spazio fra gli anni settanta e ottanta, infilandosi in campionati di prestigio assoluto se solo si tiene presente che in fondo la Rondinella rappresentava un rione, quello di San Frediano, il rione subito sotto l’ansa inferiore dell’Arno nei pressi di Ponte alla Carraia dove la trippa è la migliore di Firenze e il giardino Torrigiani prova a far invidia a Boboli. Qui, in un bar, il Torrino di Santa Rosa, in un afoso giorno del luglio 1946 su iniziativa di un nucleo di sportivi che volevano provare a creare un'alternativa cittadina all' egemonia della Fiorentina, si misero le basi per una squadra di calcio. Certo, complicato il disegno di rivaleggiare con i dirimpettai, eppure si svolazzò con la fantasia, si svolazzò a tal punto che il nome fu adottato da una precipua peculiarità tutta toscana che ha nel colpo d’occhio la traduzione istantanea di cielo, terra e santi in arte decorativa. Accadde in effetti, al momento di battezzare la neonata società sportiva, che qualcuno tra i soci fondatori notò, incollate alle pareti del bar, alcune rondini di carta, verosimilmente un residuo del periodo pasquale o di qualche festa in costume tanto per tornare in incipit. Così si decise di chiamarla Rondinella, con firma francobollata del suo primo presidente Luigi Mochi. Cosa vuoi, "Benvenuti in casa Gori", minestrina e parenti serpenti, la seconda Categoria sembrò incavo dal pertugio insormontabile, ai tempi il gradino più basso delle serie dilettantistiche italiane non esistendo ancora la scorbutica terza, ultimo emporio della filantropica federcalcio italiana, che farà sbucare dalle porticine degli spogliatoi in calce e lamiera, saltimbanchi, guitti, mutualità, Peppone e Don Camillo, portieri smilzi, liberi dai piede piombati, e centravanti inventati solo perchè avevano il baffetto morbido alla Roberto Pruzzo. Si, ma l’esprit, la creatività, e la sottile sagacia portò la Rondinella a trovare modi ingegnosi per autofinanziarsi e progredire: uno di questi fu l'allestimento di spettacoli canori e musicali con alcune celebrità del momento tipo il locale Odoardo Spadaro o il romano Claudio Villa, che si esibirono per la squadra donandole l’incasso della serata. Al sabato sera non mancava mai la tombola, con o senza dibattito in appendice, con in premio un prosciutto, un salame e qualche bottiglia di vino "bono" , fra cartelle inchiostrate dalla solita tipografia e timbrate due volte dal banconiere, perché i furbi ci sono dovunque e non si sa mai. Ora però occorre scendere un pochino più giù: “Oh quanto fora meglio, quelle genti ch’io dico, ed al Galluzzo ed a Trespiano aver vostro confine” citando un Dante mica tanto serafico nel caso specifico. Fu in pratica appena fuori Porta Romana, al campo delle “Due Strade”, (modesto santuario laico dedito al calcio, stretto fra la periferia che avanzava e il verde non troppo lontano del Chianti, munito di una gradinata dietro la porta di sinistra e di una tribuna centrale costruita sul lato della via oggi intitolata a Stefano Borgonovo), che la Rondine spiccherà un volo dal sapore di primavera. Le mitiche Due Strade, qualcosa da circa 3000 posti a starci comodi, non bastarono in talune partite di cartello. Batti e ribatti, stagione dopo stagione, il gruppo di Renzo Melani e dell’amatissimo bomber Carmine Turano da Caivano, segnò un decennio di progressi e nel 1983 i biancorossi si ritrovarono in C/1 sotto la guida stavolta di Enzo Robotti, altro allenatore verace, senza troppi fronzoli. Sarà un anno straordinario. Basti pensare che in quel girone spiccava la presenza del Bologna e la Rondinella gli combinò due scherzi da matricola terribile andando a vincere al Dall’Ara e replicando in casa in una partita dirottata ovviamente al Comunale per evidenti scopi d’incasso ma naturalmente anche per la difficoltà logistica legata all' enorme quantità di biglietti richiesti dalla tifoseria felsinea. Dunque, ricapitolando, la Rondinella vinse a Bologna con le reti di Sergio Domini su un perfetto calcio di punizione e di Marco Calonaci lanciato in contropiede, mentre per i rossoblù segnò De Ponti su rigore verso lo scadere dei novanta minuti. Marco Marchi, fiorentino purosangue, in campo quel giorno, ricorda: “Alla fine della partita eravamo quasi increduli, ma meritammo la vittoria”. Roberto Mozzini, lo stopper, altro protagonista della storica vittoria, ancora si emoziona a pensarci: "Fu un’esperienza fantastica, spogliatoio unito, e mai un litigio”. In casa la rete invece la realizzò Marco Domenichini, su assist del lume di centrocampo Massimo Tassara. Domenichini era spezzino come spezzino era Sergio Borgo, ex bandiera della Pistoiese. Quella Rondinella del presidente Brunetto Vannacci e del centravanti Attilio Bardi giunse settima in un torneo che oltre al Bologna, secondo classificato e promosso insieme al Parma, comprendeva Lanerossi Vicenza, Reggiana e Brescia, scusate se vi pare poco. Arriverà comunque l’autunno per la Rondine, un tormento di fallimenti e di nidi molto più piccoli e angusti, ma quel volo che sfiorò la Serie B è ancora una “madeleine” evocatrice di un tempo dove i sogni non si facevano soltanto di notte.

 

giovedì 18 marzo 2021

LA PIU' AMATA DAI PESARESI




Ci sono passato davanti una volta, sette anni fa. Era una calda giornata d’estate in una città di mare, una di quelle giornate con il cielo azzurro, piene di luce sfrangiata nell’impercettibile movimento perpetuo della spuma sulla battigia. Ovunque odore di salsedine e, d'un tratto, consapevole, mi svetta afona l’insopportabile visione della storia che mi procura sempre il doloroso desiderio di fuggire glissando, scappando dai ricordi di un modesto monitor a colori, eroe catodico della mia adolescenza, in questo caso prendendo una direzione casuale avvistata in un incrocio su cui stava infisso un titubante semaforo. In realtà  cedetti (impossibile  resistere) allora infilato dritto in Viale dei Partigiani. A Pesaro Viale dei Partigiani è una strada abbastanza stretta, ingentilita da qualche tiglio e da qualche villetta in stile liberty oltre a diverse abitazioni non di primo pelo, unite ad altri edifici più recenti, condominiali, quelli in cui si annusa il vero orrore del loculo domestico, dell’incompatibilità, la disgrazia della società moderna attorcigliata nella bugia della terra strappata ai contadini per accatastarli nelle fabbriche e nelle periferie, rendendoli esausti consumatori consunti in brulicanti formicai regolati da cialtronesche riunioni e da commercialisti fin troppo in erba. La memoria, così come il cuore, sono tremendi muscoli involontari, purtroppo non seguono vie definite ma si muovono per intermittenze. Ce l’ha insegnato Proust: sono quei soprassalti straordinari che nello scorrere di una vita normale ci riportano improvvisamente a eventi, cose o persone di ieri, rimaste apparentemente nell’ombra, marginali, ma che d'improvviso ti aprono una prospettiva sfuggente e rivelatrice al di là dello scorrere irreversibile del "chronos". E allora vidi l’Hangar, sembrava un animale imbalsamato sorretto dagli invisibili orpelli della gloria e soprattutto da diverse impalcature di tubi innocenti con le sue scalette timide che portavano ai varchi d’ingresso. Si, l’Hangar era ancora lì, e senza la cera negli orecchi attanagliava e attirava oltre maniera la mia sensibilità di appassionato del gioco. Riuscii, per grazia ricevuta, a scattare una foto all'interno, mentre immaginavo l’effetto che facesse ancora su tanti tifosi pesaresi legati alla pallacanestro. Quel palazzetto, piccolo, claustrofobico, con il suo parquet fatto di tavoloni marroni scurissimi, di canestri incuneati fra l'uscita e la folla, in un ambiente dal sapore jugoslavo, ( e d'altra parte ci ha giocato un certo Kikanovic... ) se non fosse stato per quelle scritte sulle canotte, poiché Scavolini, come ripeteva Lorella Cuccarini in un celebre mantra pubblicitario, era la più amata dagli italiani. Non sappiamo se la cucina in cui Valerio Bianchini convinse Darwin Cook a firmare per Pesaro fosse griffata Scavolini, poco importa, ciò che contò all’epoca in quel defluire disincantato degli anni ottanta fu che Cook a un certo punto gli prese il braccio, lo fissò negli occhi in stile sfida all' OK Corral e con quella sentenza da principe di Bel Air gli disse: "Coach, I’m you man". Bianchini aveva perso per infortunio Greg Ballard e decise di sostituire sia lui che Aza Petrovic che si infortunava troppo spesso per i suoi canoni. Aza piaceva incondizionatamente al pubblico locale, pubblico di non semplice lettura per ogni coach perché capace di concedere amore incondizionato e calore inconsulto, ma anche pubblico capace di non farti dormire la notte se la musica incominciava a stonare sul rumore ferrigno dei tiri sbagliati. Quindi, ricapitoliamo, stagione 1987-88. Pesaro era stata acquistata da una decina d’anni dalla famiglia Scavolini e stava andando alla ricerca della definitiva consacrazione dopo un percorso di crescita e maturazione che l’aveva portata a costruire un solido nucleo di giocatori italiani e una struttura societaria efficiente. Una Pesaro del basket nata ufficialmente il 1º luglio del 1946 ma omologata a unico vettore sportivo nel 1965 in seguito alla fusione fra le due società cestistiche cittadine, la Victoria e la Libertas. Ed eccola la "Vuelle", che dalla palestra Carducci, risalirà al campo all’aperto di Viale della Vittoria (non quello del Monopoli) fino al sanguigno catino rumoroso ed estremamente casalingo del palasport di viale dei Partigiani. C’erano già state due finali scudetto, nel 1982 e nel 1985, entrambe perse contro la solita seccante Milano, poi una serie di prese e di brucianti rimandi in coppa delle coppe. Arrivò così la l’urgenza della svolta, la voglia mai appagata di un tricolore.  Valerio Bianchini, milanese da cotoletta, ancora non completamente "Vate", celebrò il suo futuro, nel dannato dannunzianesimo di una genesi di rabbia e poesia, guidando la squadra femminile del Villasanta, allenando gli spilungoni della forze armate e facendo apprendistato da Dido Guerrieri, finché, a tirocinio concluso conquisterà lo storico scudetto romano ed un altro a Cantù, che gli faranno guadagnare un periodo (un po' di stanca) alla guida della nazionale azzurra. Nel 1988, a Pesaro, al suo fianco si muove un giovanissimo Sergio Scariolo, novizio incamminato su una strada di gavetta che lo sbalzerà a scrivere narrativa cestistica sostanziosa nell’élite nostrana e internazionale. Al gruppo storico, composto dal totem Walter Magnifico, dal “gemello” Ario Costa, e dal morettino Andrea Gracis, playmaker distinto, discreto, quasi silenzioso, ciò nonostante, guarda te, straordinariamente efficace quando c’era da tirare fuori la grinta necessaria. Si aggiungono Aza Petrovic, il fratello di Drazen e Greg Ballard, realizzatore pescato in NBA dai Golden State Warriors ben saldi nell’anonimato della baia e ben lontani dai fasti dell’ultimo decennio. Sulla carta la squadra ha un organico importante eppure la stagione si spezza in due, perché quando si rende conto che alla squadra serve un maggior atletismo, fisicità e leadership per poter realmente centrare il grande obiettivo, si fingerà malato prima di una trasferta a Livorno e in segreto, salirà su un aereo diretto verso gli Stati Uniti per vedere Darwin Cook giocare dal vivo. La firma è un amen con diversi zeri. Ora a Cook, fisicato, molleggiato ed eclettico quanto bastava, mancava l’altro dioscuro. Stiamo parlando di Darren Daye, cerbiatto sfuggito alla NBA per una manciata di chili e perché a sbirciare bene il Boston Garden è una cuccia peggiore dell’Hangar nel caso dici una parola in più del dovuto. Daye è un vello d’ebano sontuoso nella sua insostenibile leggerezza dell’essere, e Mila Kundera ci scusi, dotato di un primo passo corrosivo che lo rendeva praticamente immarcabile nell’1 contro 1, ma Darren capirà subito aspetti da Europa operaia, dove occorreva anche giocare sporco, dove serviva il campione e pure il gregario in un corpo solo, e Daye si mette di buona lena a recuperare palloni dati per persi e agguantando rimbalzi sgraziati rimettendo subito le pedine al posto giusto nel tracciare l’azione da difensiva a offensiva. E manco a Daye concerta l’intesa con Cook solleticando le pareti del vecchio hangar come le onde docili dell’Adriatico fanno con i piedi. I due americani giocheranno una pallacanestro veloce dentro la bolla di un’epoca in cui il cronometro del “pensa cosa fare per andare a segno” girava ancora sulla clessidra dei 30 secondi. In cucina il cuoco resterà comunque Walter Magnifico, esile abatino di 2 metri e 10 scovato a San Severo provincia di Foggia; movimenti felpati, mani educatissime e straordinario prestigiatore di muscoli e gomiti che insieme alla sua costola Ario Costa formò un binomio di lunghi rari e fin troppo contenti di scartare le caramelle recapitate dai loro compagni. E se il paradiso può attendere, mutuando il film di Warren Beatty e Buck Henry, l’inferno (biancorosso) no. Solo che il debutto della premiata ditta Cook&Daye, con la deliziosa canotta a striscioline convergenti della “Scavo”, non sarà dei migliori e il clima, attorno a una squadra che si apprestava ad affrontare i playoff con un assetto a dir poco rivoluzionato, non si presentava dei più favorevoli, e in barba a Copernico c’era pure chi ci si ironizzava su, giacché al tempo non esisteva ancora l’infamia del prevaricante e ottuso politicamente corretto al punto che al debutto contro Reggio Emila uno spettatore dietro la panchina di Bianchini pensò bene di urlargli addosso qualche parolina non contenuta nel Vangelo: “Hai cambiato più neri tu di Moana Pozzi!”. Tuttavia, postea loquimur, ai posteri l’ardua sentenza. Nelle terre dei Montefeltro stava per arrivare lo scudetto. Eliminata Reggio Emilia in 3 partite, Pesaro proseguirà con una doppia impresa ribaltando il fattore-campo avverso battendo sia Caserta (2-0) sia la capolista della stagione regolare Varese (2-1). C’è ancora Milano, inevitabile tronco d’acacia sdraiato in mezzo alla strada del successo. La Milano da bere, la Milano griffata Tracer di D’Antoni Meneghin, McAdoo, sotto i fili ordinati di Franco Casalini. Il formato della serie è un enigmatico 1-2-1-1, con la bella eventualmente in programma al Palatrussardi nel quartiere milanese di Lampugnano, una tensostruttura in odore di abusivismo, da 10000 non troppo ergonomici posti a sedere. Pesaro sfrutterà l’esordio in Viale dei Partigiani, l’Hangar scosse a dovere il pronostico mandandolo in tilt la Scavolini incomincerà il tricolore elargendo una tabellina dell’otto a favore 90-82: 23 Daye, 23 Magnifico e magnifici. A Milano nel pre-partita salta fuori una scommessa d’istinto tutta americana: Darren Daye si avvicinò all’telecronista di Antenna 3 (emittente dei match della Scavolini) e gli chiese, a scanso di umiltà, di preparare un filmato con i suoi highlights del campionato. “Ok” – la risposta del giornalista- “ Però facciamo così”- “Se vincete, te la facciamo gratis, se perdete, paghi tu cassette e tecnico”. “Nessun problema” – replicò il pokerista Daye- “Vinciamo noi”. Ho paura che abbia voluto dire vinco io, ma temo di essere malizioso, o forse no… E gara-2, difatti, se la metterà in tasca ancora la "Scavo" passando di striscio 86-83 con 27 di Magnifico e 17 cadauno di Cook e Daye. Al terzo atto il colpo di coda milanese abile a smussare le quinte emendate e riavvitare appena i gancetti dello spumante del gruppo di Bianchini. Questione di poco per i botti, tranquilli, la Scavolini chiuderà i giochi in gara-4, ancora in Viale dei Partigiani: 98-87 25 punti e 7 assist di Daye, 20 di Cook e 21 di Magnifico. Sarà scudetto, il più amato dai pesaresi. Fu meglio ripartire, respirare un po’ di iodio e cercare un ristorante, dimenticare l’Hangar, fra un astice, una triglia e un bicchiere di bianco.

LIVING THE DREAM

  “Sto andando a Gretna Green, e se tu non riesci a indovinare  con chi, dovrò considerarti un’ingenua, perc hé c’è un solo uomo al mondo ch...