Ci sono passato davanti una volta, sette anni fa. Era una
calda giornata d’estate in una città di mare, una di quelle giornate con il
cielo azzurro, piene di luce sfrangiata nell’impercettibile movimento perpetuo
della spuma sulla battigia. Ovunque odore di salsedine e, d'un tratto,
consapevole, mi svetta afona l’insopportabile visione della storia che mi
procura sempre il doloroso desiderio di fuggire glissando,
scappando dai ricordi di un modesto monitor a colori, eroe catodico della mia adolescenza,
in questo caso prendendo una direzione casuale avvistata in un incrocio su cui
stava infisso un titubante semaforo. In realtà cedetti (impossibile resistere) allora infilato dritto in Viale dei Partigiani. A Pesaro Viale dei Partigiani è una strada
abbastanza stretta, ingentilita da qualche tiglio e da qualche villetta in
stile liberty oltre a diverse abitazioni non di primo pelo, unite ad altri
edifici più recenti, condominiali, quelli in cui si annusa il vero orrore del
loculo domestico, dell’incompatibilità, la disgrazia della società moderna
attorcigliata nella bugia della terra strappata ai contadini per accatastarli
nelle fabbriche e nelle periferie, rendendoli esausti consumatori consunti in
brulicanti formicai regolati da cialtronesche riunioni e da commercialisti fin
troppo in erba. La memoria, così come il cuore, sono tremendi muscoli
involontari, purtroppo non seguono vie definite ma si muovono per
intermittenze. Ce l’ha insegnato Proust: sono quei soprassalti straordinari che
nello scorrere di una vita normale ci riportano improvvisamente a eventi, cose
o persone di ieri, rimaste apparentemente nell’ombra, marginali, ma che
d'improvviso ti aprono una prospettiva sfuggente e rivelatrice al di là dello
scorrere irreversibile del "chronos". E allora vidi l’Hangar,
sembrava un animale imbalsamato sorretto dagli invisibili orpelli della gloria
e soprattutto da diverse impalcature di tubi innocenti con le sue scalette
timide che portavano ai varchi d’ingresso. Si, l’Hangar era ancora lì, e senza
la cera negli orecchi attanagliava e attirava oltre maniera la mia sensibilità
di appassionato del gioco. Riuscii, per grazia ricevuta, a scattare una foto
all'interno, mentre immaginavo l’effetto che facesse ancora su tanti tifosi
pesaresi legati alla pallacanestro. Quel palazzetto, piccolo, claustrofobico,
con il suo parquet fatto di tavoloni marroni scurissimi, di canestri incuneati
fra l'uscita e la folla, in un ambiente dal sapore jugoslavo, ( e d'altra parte ci ha giocato un certo Kikanovic... ) se non fosse
stato per quelle scritte sulle canotte, poiché Scavolini, come ripeteva Lorella
Cuccarini in un celebre mantra pubblicitario, era la più amata dagli italiani.
Non sappiamo se la cucina in cui Valerio Bianchini convinse Darwin Cook a
firmare per Pesaro fosse griffata Scavolini, poco importa, ciò che contò
all’epoca in quel defluire disincantato degli anni ottanta fu che Cook a un
certo punto gli prese il braccio, lo fissò negli occhi in stile sfida all' OK
Corral e con quella sentenza da principe di Bel Air gli disse: "Coach, I’m
you man". Bianchini aveva perso per infortunio Greg Ballard e decise di
sostituire sia lui che Aza Petrovic che si infortunava troppo spesso per i suoi
canoni. Aza piaceva incondizionatamente al pubblico locale, pubblico di non
semplice lettura per ogni coach perché capace di concedere amore incondizionato
e calore inconsulto, ma anche pubblico capace di non farti dormire la notte se
la musica incominciava a stonare sul rumore ferrigno dei tiri sbagliati.
Quindi, ricapitoliamo, stagione 1987-88. Pesaro era stata acquistata da una
decina d’anni dalla famiglia Scavolini e stava andando alla ricerca della
definitiva consacrazione dopo un percorso di crescita e maturazione che l’aveva
portata a costruire un solido nucleo di giocatori italiani e una struttura
societaria efficiente. Una Pesaro del basket nata ufficialmente il 1º luglio
del 1946 ma omologata a unico vettore sportivo nel 1965 in seguito alla fusione
fra le due società cestistiche cittadine, la Victoria e la Libertas. Ed eccola
la "Vuelle", che dalla palestra Carducci, risalirà al campo
all’aperto di Viale della Vittoria (non quello del Monopoli) fino al sanguigno
catino rumoroso ed estremamente casalingo del palasport di viale dei
Partigiani. C’erano già state due finali scudetto, nel 1982 e nel 1985,
entrambe perse contro la solita seccante Milano, poi una serie di prese e di
brucianti rimandi in coppa delle coppe. Arrivò così la l’urgenza della svolta,
la voglia mai appagata di un tricolore.
Valerio Bianchini, milanese da cotoletta, ancora non completamente
"Vate", celebrò il suo futuro, nel dannato dannunzianesimo di una
genesi di rabbia e poesia, guidando la squadra femminile del Villasanta,
allenando gli spilungoni della forze armate e facendo apprendistato da Dido
Guerrieri, finché, a tirocinio concluso conquisterà lo storico scudetto romano
ed un altro a Cantù, che gli faranno guadagnare un periodo (un po' di stanca)
alla guida della nazionale azzurra. Nel 1988, a Pesaro, al suo fianco si muove
un giovanissimo Sergio Scariolo, novizio incamminato su una strada di gavetta
che lo sbalzerà a scrivere narrativa cestistica sostanziosa nell’élite nostrana
e internazionale. Al gruppo storico, composto dal totem Walter Magnifico, dal
“gemello” Ario Costa, e dal morettino Andrea Gracis, playmaker distinto,
discreto, quasi silenzioso, ciò nonostante, guarda te, straordinariamente
efficace quando c’era da tirare fuori la grinta necessaria. Si aggiungono Aza
Petrovic, il fratello di Drazen e Greg Ballard, realizzatore pescato in NBA dai
Golden State Warriors ben saldi nell’anonimato della baia e ben lontani dai
fasti dell’ultimo decennio. Sulla carta la squadra ha un organico importante
eppure la stagione si spezza in due, perché quando si rende conto che alla
squadra serve un maggior atletismo, fisicità e leadership per poter realmente
centrare il grande obiettivo, si fingerà malato prima di una trasferta a
Livorno e in segreto, salirà su un aereo diretto verso gli Stati Uniti per
vedere Darwin Cook giocare dal vivo. La firma è un amen con diversi zeri. Ora a
Cook, fisicato, molleggiato ed eclettico quanto bastava, mancava l’altro
dioscuro. Stiamo parlando di Darren Daye, cerbiatto sfuggito alla NBA per una
manciata di chili e perché a sbirciare bene il Boston Garden è una cuccia
peggiore dell’Hangar nel caso dici una parola in più del dovuto. Daye è un
vello d’ebano sontuoso nella sua insostenibile leggerezza dell’essere, e Mila
Kundera ci scusi, dotato di un primo passo corrosivo che lo rendeva
praticamente immarcabile nell’1 contro 1, ma Darren capirà subito aspetti da
Europa operaia, dove occorreva anche giocare sporco, dove serviva il campione e
pure il gregario in un corpo solo, e Daye si mette di buona lena a recuperare
palloni dati per persi e agguantando rimbalzi sgraziati rimettendo subito le
pedine al posto giusto nel tracciare l’azione da difensiva a offensiva. E manco
a Daye concerta l’intesa con Cook solleticando le pareti del vecchio hangar
come le onde docili dell’Adriatico fanno con i piedi. I due americani
giocheranno una pallacanestro veloce dentro la bolla di un’epoca in cui il
cronometro del “pensa cosa fare per andare a segno” girava ancora sulla clessidra
dei 30 secondi. In cucina il cuoco resterà comunque Walter Magnifico, esile
abatino di 2 metri e 10 scovato a San Severo provincia di Foggia; movimenti
felpati, mani educatissime e straordinario prestigiatore di muscoli e gomiti
che insieme alla sua costola Ario Costa formò un binomio di lunghi rari e fin
troppo contenti di scartare le caramelle recapitate dai loro compagni. E se il
paradiso può attendere, mutuando il film di Warren Beatty e Buck Henry,
l’inferno (biancorosso) no. Solo che il debutto della premiata ditta
Cook&Daye, con la deliziosa canotta a striscioline convergenti della
“Scavo”, non sarà dei migliori e il clima, attorno a una squadra che si
apprestava ad affrontare i playoff con un assetto a dir poco rivoluzionato, non
si presentava dei più favorevoli, e in barba a Copernico c’era pure chi ci si
ironizzava su, giacché al tempo non esisteva ancora l’infamia del prevaricante
e ottuso politicamente corretto al punto che al debutto contro Reggio Emila uno
spettatore dietro la panchina di Bianchini pensò bene di urlargli addosso
qualche parolina non contenuta nel Vangelo: “Hai cambiato più neri tu di Moana
Pozzi!”. Tuttavia, postea loquimur, ai posteri l’ardua sentenza. Nelle terre
dei Montefeltro stava per arrivare lo scudetto. Eliminata Reggio Emilia in 3
partite, Pesaro proseguirà con una doppia impresa ribaltando il fattore-campo
avverso battendo sia Caserta (2-0) sia la capolista della stagione regolare
Varese (2-1). C’è ancora Milano, inevitabile tronco d’acacia sdraiato in mezzo
alla strada del successo. La Milano da bere, la Milano griffata Tracer di
D’Antoni Meneghin, McAdoo, sotto i fili ordinati di Franco Casalini. Il formato
della serie è un enigmatico 1-2-1-1, con la bella eventualmente in programma al
Palatrussardi nel quartiere milanese di Lampugnano, una tensostruttura in odore
di abusivismo, da 10000 non troppo ergonomici posti a sedere. Pesaro sfrutterà
l’esordio in Viale dei Partigiani, l’Hangar scosse a dovere il pronostico
mandandolo in tilt la Scavolini incomincerà il tricolore elargendo una
tabellina dell’otto a favore 90-82: 23 Daye, 23 Magnifico e magnifici. A Milano
nel pre-partita salta fuori una scommessa d’istinto tutta americana: Darren
Daye si avvicinò all’telecronista di Antenna 3 (emittente dei match della Scavolini)
e gli chiese, a scanso di umiltà, di preparare un filmato con i suoi highlights
del campionato. “Ok” – la risposta del giornalista- “ Però facciamo così”- “Se
vincete, te la facciamo gratis, se perdete, paghi tu cassette e tecnico”.
“Nessun problema” – replicò il pokerista Daye- “Vinciamo noi”. Ho paura che
abbia voluto dire vinco io, ma temo di essere malizioso, o forse no… E gara-2,
difatti, se la metterà in tasca ancora la "Scavo" passando di
striscio 86-83 con 27 di Magnifico e 17 cadauno di Cook e Daye. Al terzo atto
il colpo di coda milanese abile a smussare le quinte emendate e riavvitare
appena i gancetti dello spumante del gruppo di Bianchini. Questione di poco per
i botti, tranquilli, la Scavolini chiuderà i giochi in gara-4, ancora in Viale dei
Partigiani: 98-87 25 punti e 7 assist di Daye, 20 di Cook e 21 di Magnifico.
Sarà scudetto, il più amato dai pesaresi. Fu meglio ripartire, respirare un po’
di iodio e cercare un ristorante, dimenticare l’Hangar, fra un astice, una
triglia e un bicchiere di bianco.
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