martedì 19 ottobre 2021

A NATALE VOGLIO LA MAGLIA DEL DUKLA PRAGA


Bisogna lasciare Piazza Venceslao, lo stuolo incessante di impeccabili camerieri che fanno carosello offrendo ai turisti caffè e liquori, nel cuore di questa città dove i palazzi sono di un gradevole stile neoclassico e il “buon Re” caracolla nel bronzo. Ma Praga evoca tragedie a ogni rintocco della sua più celebre torre, mentre le sagome in pietra degli apostoli ruotano e il gallo fa chicchirichì (all'artefice, racconta la guida, cavarono gli occhi e tagliarono le mani perché non ne potesse costruire un altro simile) nel caleidoscopio dei martiri, fra
vie silenziose, le dimore dei vecchi principi boemi, freddi e gravi, con le finestre e i portoni dagli immensi cortili impregnati di malinconia stesa come una quiete religiosa di cose morte: Mastro Giovanni Buss, bruciato vivo, gli impiccati dopo la vana resistenza contro gli Asburgo alla Montagna Bianca, l'antichissimo ghetto rastrellato dai nazisti, la sofferenza di un popolo per il quale alla guerra era seguita una pace insipida, vacillante, retta da un patto politico più subito che gradito. Il Dukla Praga del 1967 è stato scia che ha brillato sopra la polvere delle rivendicazioni, sopra la primavera che verrà, quel Dukla Praga che oggi puoi forse rivedere negli occhi di qualche vecchia fioraia, nei tipici chioschi dove la gente fa la fila per comprare salsicce calde e mangiarsele subito, in piedi, intingendole nella mostarda ed aiutandosi con una fetta di pane nero e una birra a severo tasso alcolico. Il Dukla divenuto profondità tragica. Un lembo di storia del calcio perso nella selva in cui affiora la cuspide di Josef Masopust, che riga, taglia, senza soluzione di continuità l’anima dello stadio Na Juliska, vascello fantasma nel quartiere di Dejvice. Andarci è pellegrinaggio, un percorrere il Ponte di San Carlo di notte, nella nebbia, in mezzo al suo gruppo estatico di statue, nell’ immobilità del marmo destituito dal mutismo grazie alla preghiera incessante dei santi. E il Dukla Praga, squadra partorita dal socialismo reale, sognante, temuta, caduta, fallita, si ridesta nel pensiero, riaffiorando, laica ma non laicista, e nelle orecchie pare di risentire Radio Mosca, attraverso la leggendaria voce del suo speaker Yuri Levitan, colui che esordiva con: “Attenzione! Qui parla Mosca…" emissione indispensabile per la riuscita dell’operazione che favorì il congiungimento degli insorti locali con l’Armata Rossa lesta a impadronirsi di uno strategico passo di confine che darà il nome al club in cui verso la fine degli anni ‘40 confluirono i migliori giocatori cecoslovocchi. Oggigiorno sarebbe qualcosa di inaccettabile, tuttavia fu questo l’inizio della storia poco ortodossa del Dukla. Masopust fu il fuoriclasse che guidò gli orogranata per tredici lunghi anni, dal 1953 al 1966. Figlio di un minatore, nativo di Most, Masopust era un trequartista dotato di eccellente ritmo di gioco, abile a utilizzare magnificamente entrambi i piedi. Allenato da Bohumil Musil detto “Mirek”, impeccabile con il suo spezzato da maggiordomo e l’inseparabile borsalino di lana in testa, il Dukla si iscriverà alla premiata società delle meteore calcistiche. Pavel Kouba in porta, František Šafránek, le bandiere Ladislav Novák, Josef Nedorost e Svatopluk Pluskal.  Il Dukla che nel ‘67 eliminò dalla Coppa dei Campioni Anderlecht e l'embrione del grande Ajax fendendo colpi dentro a una conca sparuta vessata da tribune asimettriche per poi beccare in semifinale i futuri vincitori del Celtic, scivolando via dal torneo a causa di una sola rete segnata in meno rispetto agli scozzesi e, inconsapelvolmente, lentamente, uscire al tempo stesso dalle prime pagine dei giornali sportivi a venire, acquisendo quasi la forma di una remota fattoria boema dove la fama del Dukla lavora nella bolla kafkiana di un paradosso romantico che ha oltrepassato i confini rettangolari del campo di calcio, apparendo sulla copertina di un libro, "Dukla mezi mrakodrapy" (Il Dukla tra i grattacieli) di Ota Pavel, che racconta le partecipazioni estive, dal 1961 al 1964, all’International Soccer League di New York, nel Cinema, allorchè il regista Ludek Svoboda, coadiuvato dal produttore cinematografico Petr Studének, decise di realizzare un film documentario “Hrdý na svůj klub” (Fiero del tuo club), e persino nella musica rock con “All I want for Christmas is a Dukla Praga away kit” (Tutto ciò che voglio per Natale è un completo da trasferta del Dukla Praga) del gruppo inglese Half Man Half Biscuit, canzone che scalò con ragione le classifiche dell’epoca visto che il Times ha inserito la maglia del Dukla tra le prime cinquanta divise più belle di sempre. Non era difficile, aggiungo.




 

 

sabato 16 ottobre 2021

NEL NOME DEL PADRE



Il pubblico diventò ostile, sotto un cielo puntellato di cenere, laggiù nel cuore decadente di Belgrado la "cavalleria leggera" dello Hajduk stava completando il suo ricamo sul prato dell'affollato catino del Partizan. Da un piede all'altro, gli undici spalatini nascosero la palla ai padroni di casa, arruffati e disordinati dentro le loro strizzate maglie bianconere; zero a quattro recitava l'empirico tabellone manuale dove un indispettito addetto si abbarbicava continuando a mutare il numero delle reti segnate dagli ospiti. E al culmine dell'impotenza della squadra di Belgrado, mentre senza successo i suoi giocatori cercavano anche con le maniere più dure e spicciole di togliere la palla a quelli di Spalato, il capitano Frane Matošić urlò al suo "gemello" Bernard "Bajdo" Vukas: "Dai, adesso siediti sul pallone!" Ed è successo davvero, con un sorriso freddo disegnato sul viso l'attaccante croato subì gli scoppi di rabbia delle gradinate e l’accerchiamento degli avversari ormai pronti ad alzare le mani e non solo. Bajdo si sedette sulla sfera giallognola, malata, sporca, nel bel mezzo della partita, così, alla pari di una partitella fra amici quando qualcuno chiede di interrompere il gioco per un bisognino fisiologico. "Questo è per voi, per tutti voi", gridava nel subbuglio Matošić, guardando con aria di provocazione le stelline arrabbiate del Partizan mentre la polizia cercava a fatica di riportare ordine nell'impianto del quartiere  di Autokomanda. Fu un atto di estrema umiliazione nei confronti della squadra che rappresentava l’esercito e indirettamente le istituzioni. Un guanto di sfida da parte di una squadra di una piccola città che aspettava da anni questa rivincita e in quella squadra c’era gente che visse solo per quella rivincita. Il Partizan vinceva sempre, spesso in modo insolente, soprattutto nella loro tana di Belgrado, forti di una sicurezza garantita. Zlatko Tchaikovsky e Stjepan Bobek quel gesto di sedersi sulla palla per irretire i vinti lo avevano già fatto, e lo Hajduk uscirà sconfortato nel punteggio e nell’anima. A Spalato non dimenticarono mai quel disonore. Figuriamoci perdonarlo. Ed allora arrivò il momento della vendetta, a qualunque prezzo, un lancio di dadi, rosso o nero, nella migliore tradizione balcanica. E nello stesso posto, nel centro dello stadio del Partizan, davanti a 50.000 sostenitori con la bava alla bocca. 

Questo era lo Hajduk Spalato degli anni '50. Senza paura, indisponente, testardo. Uno Hajduk che dovunque si faceva rispettare. Frane Matošić incarnava quel nome e quelle nozioni. Perchè si può essere sconfitti ma entrare in campo privi di volontà e zelo, ecco il vangelo mai abiurato dal momento in cui per la prima volta ha indossato la maglia bianca nel vecchio Stari Plac, giusto a pochi passi della sua casa natale in via Matošićeva, alla periferia di Varoš, nella tortuosa Spalato, cardo e decumano dell’imperatore Diocleziano, a picco nel blu, un mare cristallino e ancestrale, attorniato da una miriade di isole e penisole sbriciolate, a evocare un luogo quasi astratto e incomprensibile, fatto di attriti, scontri recenti, odi mai sopiti, che scorrono come le pieghe del marmo di Ivan Meštrović o come la “Barba”, la birra locale fatta con solo ingredienti di base, luppolo, orzo, lievito e acqua, nella migliore trascrizione del Reinheitsgebot, la legge bavarese sulla purezza della lager redatta nel 1516

Frane Matošić il leader indiscusso. Robusto, gli occhi a fessura a inquadrare un possibile bersaglio, i capelli una coltre di crema alle nocciole spalmata all’indietro sulla testa e il mascellone volitivo. La colpa, o l’intuizione, sarà di un allenatore, Luka Kaliterna. Nel 1935 la posizione di centravanti dello Hajduk era dibattuta fra Leo Lemešić e Vlado Kragić. L'astuto Luka Kaliterna decise di risolvere il problema alla vigilia della partita contro lo Slavija di Sarajevo chiedendo al 17enne Fran, che nel frattempo si occupava di legare le reti ai sostegni delle porte oltre che di tirare le righe di gesso, se voleva giocare lui nel ruolo di centravanti. Nello stupore generale Kragić e Lemešić vennero sistemati sulle fasce, e Frane Matošić, sorretto da un destino che passa una volta ogni cento anni, realizzò una tripletta diventando in breve l’attaccante principe dello Hajduk. 

E tale è rimasto. In tutti i libri e in tutti gli almanacchi dedicati allo Hajduk. Le cifre ufficiali dicono 739 partite e 729 gol. Pazzesco. E le statistiche sono ancora più affascinanti quando si aggiungono i numeri del settore giovanile. Matošić insomma è lo Hajduk, o se volete, viceversa. Perché Frane Matošić non solo aveva aperto la fabbrica del goal ma incarnava un'autorità nello spogliatoio, un capitano a cui sia i compagni di squadra che gli avversari portavano un rispetto ai limiti del sacro. Prima delle gare Matošić guardava severo i più giovani e chiedeva loro: “Siete pronti?”-  “Si giocheremo signor Frane”, rispondevano con una sola voce tipo coro greco. E Frane ribatteva secco: “Non sto chiedendo se giocherete, ma se combatterete?”. Ogni partita per lui è stata una battaglia di volontà e impegno, e fino al fischio finale nessuno doveva accettare la sconfitta. Scrive Miljenko Smoje: nell'aprile 1947, Hajduk Spalato e Dinamo Zagabria giocarono allo Stari Plac e Frane Matošić era in tribuna per via di una sanzione rimediata nella partita precedente. Un giocatore della Dinamo, un ragazzino di appena vent’anni, fece numeri di scuola sopraffina. Matošić volle prenderlo a tutti a costi. Preparò un piano d'azione e un mese dopo, insieme al compagno di squadra Božo Broket, aspetterà Bernard Vukas davanti all'Esplanade di Zagabria per portarlo a Spalato. L'accordo fu trovato e venne deciso di trovarsi alle 7:30 alla stazione, il treno per Spalato partiva alle 8 in punto del mattino. Matošić era nervoso, il prossimo treno sarebbe partito solo l’indomani e Bajda ancora non si vedeva. Che fosse saltato tutto? Perchè? poi, quando avevano perso le speranze maledicendo l’inutile viaggio già seduti sui  sedili del convoglio, Vukas entrò trafelato con suo padre e una valigia in mano. Bajdo Vukas completò così il più grande tandem d’attacco del 20esimo secolo dei bianchi, vincendo il titolo del 1950, l’anno dell’arrivo della Torcida sulle tribune dello Stari Plac, creata dallo studente di ingegneria Vjenceslav Žuvela su ispirazione carioca.

Una vittoria senza macchia quella del ’50, senza neppure una sconfitta, tuttavia al termine di quella stagione Frane Matošić fu portato davanti al tribunale della federazione e del partito a causa a uno schiaffo dato in faccia al difensore della Stella Rossa Branko Stanković. Quando gli fu chiesto, davanti alla commissione investigativa se si fosse pentito dell'incidente, rispose: “Mi dispiace solo di non aver colpito Stankovic ancora più forte. E questa indagine non sarebbe avvenuta se la Stella non avesse perso”.

Ovviamente questi atteggiamenti intransigenti gli costarono scarse presenze in nazionale e soprattutto l’esclusione dalla Coppa del Mondo in Brasile nonostante fosse il miglior attaccante del torneo jugoslavo. Respinse due volte Tito, che gli propose di trasferire lo Hajduk a Belgrado e trasformarlo in un club militare con numerosi vantaggi per giocatori e dirigenti. Nel 1955 l'Hajduk vinse ancora il campionato, eppure la Federcalcio della Jugoslavia lo mandò a partecipare alla Mitropa, mentre il Partizan fu scelto per partecipare alla prima edizione della Coppa dei Campioni. Matošić morì a Spalato il 29 ottobre 2007 nell'anniversario della memorabile vittoria dello Hajduk sulla Stella Rossa nel 1950. Frane Matošić, il più grande capitano della storia degli Splitski Bili, i bianchi di Spalato.

 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...