venerdì 18 novembre 2022

MOURNEVIEW BOYS (pride of mid-ulster)


Basta un attimo e tutto cambia. E non sarà la volontà a riportare indietro le cose. L'unico appiglio è la speranza di poter vincere domani. O forse no. Battaglia psicoanalitica nella complessa ontologia del tifoso. Di quella sera a Anversa nel cuore fermo del Belgio, restano solo i ricordi, una maglia blu, pensieri rapiti dal vento del canale e dalla pioggia delle fiandre. Ma chi c’era in quei giorni dice che di fronte a quella distesa di bandiere blu adagiate al suolo, o sorrette da spalle curve per la stanchezza, aveva visto il bicchiere mezzo pieno della circostanza, del suo essere, perché gli si era inaspettatamente rovesciato addosso e aveva compreso. Un pensiero tanto assurdo quanto vero. Appiccicoso come una maestosa birra scura. Il Glenavon Football Club sbucato nel 1889 da un dopolavoro protestante di un industria tessile, si presentò al primo turno della Coppe delle Coppe datata 92/93 con un flebile lume di speranza acceso dall’attaccante Sammy Smith (che quell’anno era partito davvero alla grande) che nella gara interna dei sedicesimi contro l’Anversa aveva portato in vantaggio i suoi. Poi, nemmeno il tempo di festeggiare a sufficienza che un biondone messianico dal nome Hans Petar Leanhoff troverà la maniera di pareggiare dopo appena due minuti e il sogno si increspò nell’umidità del Mourneview Park di Lurgan, lo stinco della Contea di Armagh: argille di estuario presso la riva di un lago e una massa di basalto. Lurgan, Il triangolo degli omicidi. Lo chiamavano così durante i troubles. Incendiata, restaurata, piena di fabbriche di lino e una bella azienda che ancora produce carrozze, all’ombra dei campanili di Shankill e St. Peter. Il Mourneview Park nel 1992 era praticamente un involucro di ferro e lamiera circondato da gomme esauste di camion appoggiate alle stand inserite sotto ai tetti delle piccole case strette all’esterno dell'impianto, illuminate dagli osceni lampioni pubblici versione anni settanta e coronate dalle luci alitose dei riflettori intrecciati dello stadio che nel loro smarginare balenavano bianche su cortili e su ritagli di cielo scuro. Tipicamente british eppure nel caso specifico inquinanti, inquietanti, e inefficienti. E i tifosi sembravano ombre vagabonde e quasi solitarie oscillanti tra la cameretta tappezzata di poster e il gabinetto, insomma tra la stanza libera e sublime di fumetti, fancazzismo e musica, e la puzza della stanza verticale della masturbazione e della nudità. Il buono e cattivo, lo “ying” e lo “yang”, frutto di un manicheismo non di facciata. Così come si mostrava il Glenavon del pallone, club che si permise di vincere il campionato nordirlandese partecipando in veste di prima compagine dell’Ulster alla Coppa dei Campioni, e capace successivamente di scatenare una furiosa tempesta politica quando Sean Fallon deciderà di passare al Celtic. Quello è stato senza dubbio il miglior Glenavon della storia, quello ribaldo degli anni cinquanta, con Wilbur Cush e Jimmy Jones. Cush, grosso, dinamico, tenace, fu uno dei giocatori irlandesi più affermati e coraggiosi di tutti i tempi, un esterno sinistro nel periodo dove quel ruolo veniva appellato da widemen, terzini, o comunque sia giocatori che attaccavano lungo le fasce. Jimmy Jones si era fratturato una gamba nella solita, famigerata, partitina fra Linfield e Belfast Celtic del 1948 al Windsor Park, in seguito si era unito al club della sua città natale diventando un'icona del Glenavon dal 1951 al 1963, facendo di fatto la sua prima apparizione in una semifinale infrasettimanale della Gold Cup a Cliftonville: "Eravamo una squadra piuttosto forte in grado di mantenere la stessa condizione ogni sabato senza eccezioni". Insomma questo luogo semisconsacrato da periferia squattrinata e sconclusionata si portava dietro una sorta di battente del passato per sentirsi un po’ meno isolati da tutto il resto. Le due porte del campo con la loro miseria verniciata di fretta, i suoi orinatoi doloranti, i suoi vecchi giornali sfogliati dalla brezza e il suo odoraccio di fogna, era la prova che a qualcuno piaceva il lato oscuro, truculento, del football lontano dal mainstream. Ripartiamo. Dopo il pari dell'andata partirono in tanti per accompagnare la squadra in trasferta. Traghetto per Liverpool, treno per Londra e Dover, infine nuovo traghetto per le coste dentellate del Belgio. Oddio, ma perché il calcio occupa un ruolo fondamentale nella vita di tanta gente? Perché non facciamo altro che pensarci? La risposta è semplice: perché siamo tifosi. Magari non tutti paonazzi, pieni di lentiggini, facinorosi, faziosi e sboccati, con ancestrale gusto il fritto mattutino, tuttavia simili. Pur non essendo eccessivamente un maniaco di etimologie, trovo straordinariamente appropriato che alla passione esclusiva per una squadra di calcio, per di più come il Glenavon, sia stato dato lo stesso nome di un morbo terribile, che dà la febbre alta: il tifo, per l'appunto. La cosa di cui ti rendi conto, se ti fermi un attimo a ragionare, è che il tifo, parafrasando una famosa formula di Jean Paul Sartre, è una passione inutile. Nel senso che dà la stessa soddisfazione del gioco d'azzardo. Il Glenavon addirittura in Europa perdeva sempre. Nel continente la sconfitta sembrava garantita da un imprimatur. E sia chiaro, sconfitte umilianti mica di misura. Ma allora perché spendere soldi per viaggiare e insistere a incoraggiare questi ragazzotti in maglia blu? I Lurgan Blues, allenati nell’occasione, con discreta armonia va detto, da Alan Fraser. Perché investire su un sentimento irrazionale che poteva dare solo fregature, surrogato, ogni tanto, da qualche orgasmino sofferto quando arrivava al novantesimo un successo con quelli del Portadown? Magari per la stessa ragione per cui alcune donne si innamorano sempre dell'uomo sbagliato e anche povero. I tifosi non pensano, i tifosi sono trascinati da pulsioni tanto burrascose quanto ridicole. Il Glenavon è ridicolo, probabilmente. Anzi togliamo l’avverbio di dubbio. Quell’anno la finale della Coppa delle Coppe si sarebbe assegnata nella finale di Wembley. Il Glenavon a Wembley, no dai impossibile. Un po’ alla stregua del se Jimmy Taylor, meccanico sguaiato alloggiato all’angolo di Market Street di Lurgan, venisse invitato a Buckingham Palace per un tè all’improvviso. Una cosa assurda al punto da mettere drammaticamente in discussione l'autenticità del sentimento dissacrante sparso fra i sostenitori “glens”. La vittoria, per il tifoso di club modesti è un'esperienza frastornante, c’è da diventare sordi e vecchi di colpo. Oh, lo stadio di Anversa. Quel pomeriggio di fine settembre. Primo tempo 0-0. Nella ripresa subito sotto quando un certo Kiekens portò avanti quelli in maglia rossa. Ma a dieci minuti dal termine Smith la pareggierà, cosi per permettere di fare due grasse risate e un certo casino. Fanculo tutto il mondo, grande Sammy. Uno a uno fuori casa. Tutto il ristretto settore ospiti saltellava goffamente, da squilibrati. Tutti ad abbracciare i conoscenti dei loro notevoli sabato pomeriggio, che chiedevano una stretta. I supplementari furono un inutile appendice. Rigori. Il dio pagano fra i pali si chiamava Robbie Beck. Intanto Trevor Mc Mullan andò a segno, e Beck (eccolo) parerà il tiro a Leanhoff. Sembrava fatta. Sembrava. E invece no, cristo santo, perché in sequenza Colin Cranford, Glenn Ferguson e quel cazzone di Smith, non me indovinarono uno di quei calci dal dischetto e l’Anversa passerà il turno. Anzi di più, andrà fino a Londra a giocarsi la finale con il Parma. Meglio così? No.. però, pensa te, alle volte il destino.
 

 

 

 

 

 

venerdì 4 novembre 2022

CATANZARO SENZA VENTO




Locandina delle intenzioni. L’uso del filo della memoria e dei solluccheri di un tempo andato, e più il racconto va avanti, più pare si trucchi di fiaba lasciando varchi aperti fra le righe al cupo presente: furono tutti giovani e felici a Catanzaro nel 1976, in quella primavera profumata di gigli. Catanzaro città in figura di morzello, stretta fra due mari ma campagnola, aggravata verso l’istmo sullo Ionio, da dove Omero fa raccontare a Ulisse la sua storia, questa striscia, questo corridoio contornato da sproni di roccia sparpagliati, quasi a far da pacieri con le nuvole in cielo, trafelate come i balconi dei vicoli irregolari del centro che penzolavano lenzuola di lino e sventolavano bandiere metà rosse e metà gialle, appese da ragazze brune affacciate sorridenti ai davanzali. “La banda del Catanzaro” ritrovato, quello sceso dalla Serie A che volle provare a ripartire nel vento, senza vento, nel ritiro monastico dell’Hotel Bellavista di Platania in una porzione del massiccio silano detto Reventino. La poverissima Calabria si riconobbe in quel testo, una teoria di nomi ingolfati ai margini del mondo moderno, ma sano emblema di riscatto per generazioni di emigrati che nella tragedia della diaspora vedevano in quella squadra del presidente Nicola Ceravolo la loro stessa intensità e il loro medesimo sacrificio nel risolvere la vita, anche se la vita non si risolve mai, casomai si sistema alla bell’e meglio, tipo un auto di piccola cilindrata finita fuori strada presso i vapori di Napoli. Dentro c’era un giovane allenatore, aveva appena 34 anni, all'anagrafe di Mergellina fa Gianni di Marzio e in quel momento, mentre sulle radio impazza “Piange il Telefono” di Mina, sta sorprendendo i rotocalchi del pallone con il suo Brindisi primo in classifica in serie B. Sarà un brutto incidente. Di Marzio necessità di interventi urgenti a un nervo oculare che purtroppo non riprenderà più la sua funzione naturale lasciandolo con un occhio più aperto dell’altro. Allora a Brindisi cominciano a farne un problema, e in breve Ceravolo lo convincerà, lo porta a Catanzaro, sulla panchina delle aquile. Prende forma la squadra dei sogni, quelli della filastrocca “Pellizzaro, Silipo e Maldera attenti alla barriera…”. Sono tutti figli del dopoguerra, contornati dal culto processionario di una fiumana di persone pronte a imballare la stradina che conduce in cima alla città, alla Chiesa di San Francesco di Paola, in cui sorge lo stadio più ventoso d’Italia, l’allora “Militare”. Giorgio Pellizzaro aveva il grugno rassicurante, da pugile buono, la faccia volitiva, un ragazzo di valori, figlio di agricoltori in un casale del mantovano, e lui fu custode fedele di una porta che rimase a lungo immacolata, anche grazie ai suoi voli d’angelo da un palo all’altro che gli valsero l’affetto di una piazza intera. Una devozione che ricambiò prendendo casa a Costaraba, lungo la costa, e fra un bagno e l’altro a Caminia, passò quattro stagioni indimenticabili che cementarono il suo legame con Catanzaro. Da Roma arrivò Claudio Ranieri, soprannominato “er fettina”, perché il Sor Mario, il papà, aveva una macelleria nel cuore del quartiere romano di Testaccio. Arrivò a bordo di una Mini Cooper con dentro Roberto Vichi e Stefano Pelligrini. Un viaggio interminabile fino alla sede della società in Corso Mazzini, accanto ai magazzini dell’UPIM, per firmare un contratto e per giocare essenzialmente con un gruppo della sua stessa estrazione popolare: il padre del gracilino regista Paolo Braca era pescatore, quello di Alberto Spelta, detto lo "Jair bianco" faceva il trippaio. Poi un giorno si presenta un tipo, un cespuglio di capelli informe, un batuffolo baffuto e barbuto, rossiccio, si intravedevano solo i piedi, il sinistro è d’oro: Massimo Palanca. Anche la sua famiglia non vive certo nell’agio, anzi, figlio di uno spazzino, fino a otto anni è costretto ad abitare nel campo sportivo di Porto Recanati in una sorta di loculo domestico incastrato fra gli spogliatoi e una tribuna. L’unico con un passato ormai consolidato, così come il conto in banca,  è l’arcigno  difensore Luigi Maldera, il fratello del più celebre Aldo, uno che arrivava agli allenamenti a bordo di una Fiat A112 Abarth con ha la faccia da attore americano. Giungono Gianluigi Maggini e il bronzeo sciupafemmine Pieraldo Nemo, entrambi dalla Juventus; il massaggiatore del Catanzaro, dalle mani fatate e sapiente dei rimedi della nonna, Amato
Masino va a prenderli in stazione in ‘500. Dopo tre giorni Maggini scappa, fugge, non è abituato a una città dove alle 20,30 in strada non c'è più un anima viva e poi alla Procura avevano riaperto processi di cui lui aveva sentito parlare alla TV e letto sui giornali e pare avesse paura. E ce pure un ragazzo nato a Catanzaro, manco a dirlo proveniente da una famiglia modesta, che ha incontrato tante difficoltà per affermarsi ma che non ha mai smesso di crederci fino a quando è riuscito ad emergere, il difensore capelluto Fausto Silipo. Eppure nessuno meglio di Giorgio Vignando da Jesolo, mediano per natura, espone meglio quel Catanzaro che tornerà in serie A nella stagione 1975/76 grazie a una rete all’ultimo minuto al Mirabello di Reggio Emilia realizzata da Gianni Improta, napoletano verace, quello del “Si può vendere il Vesuvio ma Improta no” come venne vergato nello striscione esibito durante le contestazioni per la sua cessione alla Sampdoria. Vignando spiegò che lui sudava e lottava perché l’empatia con quel popolo lo aveva riempito. “Mi infilavo nei bar, cercavo di decifrare parole astruse, io emiliano e contadino però sapevo riconoscere le stesse rughe, le stesse miserie nascoste dal loro vino caldo”. I tifosi ci ripetevano: voi siete la squadra di una speranza schierata su un campo verde, lo sai cosa significa per noi vincere contro l’Inter, il Milan o la Juve? Significa che domani il vicino della porta accanto che ha il fratello in fabbrica a Mirafiori, e ai cancelli sventola la sciarpa giallorossa, in quel momento non si sentirà più emigrato sporco con la valigia di cartone, né sfruttato, né sfortunato, né incazzato, si sentirà orgoglioso, di un orgoglio che arriva a zaffate, un orgoglio che significa recuperare la dignità della propria terra, di una tacita intesa indurita dai secoli. E così facendo renderete protagonista una città, una regione, infilandovi semplicemente quella magliettina rossa, stretta, delicata, con le righine gialle che sembra ‘nduja. Qui dove si scruta sull’erba il tempo che verrà, qui non si vince solo per i due punti ma per riscattare famiglie disperse. Il Catanzaro degli anni settanta fu una rivoluzione, una rivoluzione proletaria in pantaloncini e parastinchi, e il nostro Che Guevara si chiamava Massimo Palanca.

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...