Basta un attimo e tutto cambia. E
non sarà la volontà a riportare indietro le cose. L'unico appiglio è la
speranza di poter vincere domani. O forse no. Battaglia psicoanalitica nella complessa
ontologia del tifoso. Di quella sera a Anversa nel cuore fermo del Belgio,
restano solo i ricordi, una maglia blu, pensieri rapiti dal vento del canale e
dalla pioggia delle fiandre. Ma chi c’era in quei giorni dice che di fronte a
quella distesa di bandiere blu adagiate al suolo, o sorrette da spalle curve
per la stanchezza, aveva visto il bicchiere mezzo pieno della circostanza, del
suo essere, perché gli si era inaspettatamente rovesciato addosso e aveva
compreso. Un pensiero tanto assurdo quanto vero. Appiccicoso come una maestosa
birra scura. Il Glenavon Football Club sbucato nel 1889 da un dopolavoro
protestante di un industria tessile, si presentò al primo turno della
Coppe delle Coppe datata 92/93 con un flebile lume di speranza acceso dall’attaccante Sammy
Smith (che quell’anno era partito davvero alla grande) che nella gara interna dei sedicesimi contro l’Anversa aveva portato in vantaggio i suoi. Poi, nemmeno il tempo
di festeggiare a sufficienza che un biondone messianico dal nome Hans Petar Leanhoff
troverà la maniera di pareggiare dopo appena due minuti e il sogno si increspò
nell’umidità del Mourneview Park di Lurgan, lo stinco della Contea di Armagh: argille di estuario presso la riva di un lago
e una massa di basalto. Lurgan, Il triangolo degli omicidi. Lo chiamavano così durante
i troubles. Incendiata, restaurata,
piena di fabbriche di lino e una bella azienda che ancora produce carrozze,
all’ombra dei campanili di Shankill e St. Peter. Il Mourneview Park nel 1992
era praticamente un involucro di ferro e lamiera circondato da gomme esauste di
camion appoggiate alle stand inserite sotto ai tetti delle piccole case strette all’esterno
dell'impianto, illuminate dagli osceni lampioni pubblici versione anni settanta e
coronate
dalle luci alitose dei riflettori intrecciati dello stadio che nel loro
smarginare balenavano bianche su cortili e su ritagli di cielo scuro. Tipicamente british eppure nel caso specifico inquinanti,
inquietanti, e inefficienti. E i tifosi sembravano ombre vagabonde e quasi
solitarie oscillanti tra la cameretta tappezzata di poster e il gabinetto, insomma
tra la stanza libera e sublime di fumetti, fancazzismo e musica, e la puzza della
stanza verticale della masturbazione e della nudità. Il buono e cattivo, lo “ying”
e lo “yang”, frutto di un manicheismo non di facciata. Così come si mostrava il Glenavon del pallone, club che si permise di
vincere il campionato nordirlandese partecipando in veste di prima compagine
dell’Ulster alla Coppa dei Campioni, e capace successivamente di scatenare una furiosa tempesta
politica quando Sean Fallon deciderà di passare al Celtic. Quello è stato senza dubbio il miglior Glenavon della storia, quello ribaldo degli anni cinquanta, con Wilbur
Cush e Jimmy Jones. Cush, grosso, dinamico, tenace, fu uno dei giocatori irlandesi più affermati e coraggiosi di tutti i tempi, un esterno sinistro nel periodo dove quel ruolo veniva appellato da
widemen, terzini, o comunque sia giocatori che attaccavano lungo le fasce. Jimmy
Jones si era fratturato una gamba nella solita, famigerata, partitina fra Linfield e Belfast Celtic del 1948 al Windsor Park, in seguito si era unito al club
della sua città natale diventando un'icona del Glenavon dal 1951 al 1963, facendo di fatto la sua prima
apparizione in una semifinale infrasettimanale della Gold Cup a
Cliftonville: "Eravamo una squadra piuttosto forte in grado di
mantenere la stessa condizione ogni sabato senza eccezioni". Insomma questo luogo semisconsacrato da periferia
squattrinata e sconclusionata si portava dietro una sorta di battente del passato per sentirsi un po’ meno isolati da tutto il resto. Le due porte del campo con la loro
miseria verniciata di fretta, i suoi orinatoi doloranti, i suoi vecchi giornali
sfogliati dalla brezza e il suo odoraccio di fogna, era la prova che a qualcuno piaceva il lato oscuro, truculento,
del football lontano dal mainstream. Ripartiamo. Dopo il pari dell'andata partirono in
tanti per accompagnare la squadra in trasferta. Traghetto per Liverpool, treno
per Londra e Dover, infine nuovo traghetto per le coste dentellate del Belgio. Oddio,
ma perché il calcio occupa un ruolo fondamentale nella vita di tanta gente?
Perché non facciamo altro che pensarci? La risposta è semplice: perché siamo tifosi. Magari non tutti paonazzi, pieni di lentiggini, facinorosi, faziosi e sboccati,
con ancestrale gusto il fritto mattutino, tuttavia simili. Pur non essendo eccessivamente un maniaco
di etimologie, trovo straordinariamente appropriato che alla passione esclusiva
per una squadra di calcio, per di più come il Glenavon, sia stato dato lo stesso
nome di un morbo terribile, che dà la febbre alta: il tifo, per l'appunto. La
cosa di cui ti rendi conto, se ti fermi un attimo a ragionare, è che il tifo,
parafrasando una famosa formula di Jean Paul Sartre, è una passione inutile.
Nel senso che dà la stessa soddisfazione del gioco d'azzardo. Il Glenavon addirittura in Europa perdeva sempre. Nel continente la sconfitta sembrava garantita
da un imprimatur. E sia chiaro, sconfitte umilianti mica di misura. Ma allora
perché spendere soldi per viaggiare e insistere a incoraggiare questi
ragazzotti in maglia blu? I Lurgan Blues, allenati nell’occasione, con discreta
armonia va detto, da Alan Fraser. Perché investire su un sentimento irrazionale
che poteva dare solo fregature, surrogato, ogni tanto, da qualche orgasmino
sofferto quando arrivava al novantesimo un successo con quelli del Portadown? Magari
per la stessa ragione per cui alcune donne si innamorano sempre dell'uomo
sbagliato e anche povero. I tifosi non pensano, i tifosi sono trascinati da
pulsioni tanto burrascose quanto ridicole. Il Glenavon è ridicolo,
probabilmente. Anzi togliamo l’avverbio di dubbio. Quell’anno la finale della
Coppa delle Coppe si sarebbe assegnata nella finale di Wembley. Il Glenavon a
Wembley, no dai impossibile. Un po’ alla stregua del se Jimmy Taylor, meccanico
sguaiato alloggiato all’angolo di Market Street di Lurgan, venisse invitato a
Buckingham Palace per un tè all’improvviso. Una cosa assurda al punto da mettere
drammaticamente in discussione l'autenticità del sentimento dissacrante sparso
fra i sostenitori “glens”. La vittoria, per il tifoso di club modesti è
un'esperienza frastornante, c’è da diventare sordi e vecchi di colpo. Oh, lo
stadio di Anversa. Quel pomeriggio di fine settembre. Primo tempo 0-0. Nella
ripresa subito sotto quando un certo Kiekens portò avanti quelli in maglia rossa. Ma a dieci
minuti dal termine Smith la pareggierà, cosi per permettere di fare due grasse risate e un certo casino.
Fanculo tutto il mondo, grande Sammy. Uno a uno fuori casa. Tutto il ristretto
settore ospiti saltellava goffamente, da squilibrati. Tutti ad abbracciare i
conoscenti dei loro notevoli sabato pomeriggio, che chiedevano una stretta. I
supplementari furono un inutile appendice. Rigori. Il dio pagano fra i pali si
chiamava Robbie Beck. Intanto Trevor Mc Mullan andò a segno, e Beck (eccolo) parerà il tiro a
Leanhoff. Sembrava fatta. Sembrava. E invece no, cristo santo, perché in sequenza Colin Cranford, Glenn
Ferguson e quel cazzone di Smith, non me indovinarono uno di quei calci dal
dischetto e l’Anversa passerà il turno. Anzi di più, andrà fino a Londra a giocarsi la
finale con il Parma. Meglio così? No.. però, pensa te, alle volte il destino.