venerdì 4 novembre 2022

CATANZARO SENZA VENTO




Locandina delle intenzioni. L’uso del filo della memoria e dei solluccheri di un tempo andato, e più il racconto va avanti, più pare si trucchi di fiaba lasciando varchi aperti fra le righe al cupo presente: furono tutti giovani e felici a Catanzaro nel 1976, in quella primavera profumata di gigli. Catanzaro città in figura di morzello, stretta fra due mari ma campagnola, aggravata verso l’istmo sullo Ionio, da dove Omero fa raccontare a Ulisse la sua storia, questa striscia, questo corridoio contornato da sproni di roccia sparpagliati, quasi a far da pacieri con le nuvole in cielo, trafelate come i balconi dei vicoli irregolari del centro che penzolavano lenzuola di lino e sventolavano bandiere metà rosse e metà gialle, appese da ragazze brune affacciate sorridenti ai davanzali. “La banda del Catanzaro” ritrovato, quello sceso dalla Serie A che volle provare a ripartire nel vento, senza vento, nel ritiro monastico dell’Hotel Bellavista di Platania in una porzione del massiccio silano detto Reventino. La poverissima Calabria si riconobbe in quel testo, una teoria di nomi ingolfati ai margini del mondo moderno, ma sano emblema di riscatto per generazioni di emigrati che nella tragedia della diaspora vedevano in quella squadra del presidente Nicola Ceravolo la loro stessa intensità e il loro medesimo sacrificio nel risolvere la vita, anche se la vita non si risolve mai, casomai si sistema alla bell’e meglio, tipo un auto di piccola cilindrata finita fuori strada presso i vapori di Napoli. Dentro c’era un giovane allenatore, aveva appena 34 anni, all'anagrafe di Mergellina fa Gianni di Marzio e in quel momento, mentre sulle radio impazza “Piange il Telefono” di Mina, sta sorprendendo i rotocalchi del pallone con il suo Brindisi primo in classifica in serie B. Sarà un brutto incidente. Di Marzio necessità di interventi urgenti a un nervo oculare che purtroppo non riprenderà più la sua funzione naturale lasciandolo con un occhio più aperto dell’altro. Allora a Brindisi cominciano a farne un problema, e in breve Ceravolo lo convincerà, lo porta a Catanzaro, sulla panchina delle aquile. Prende forma la squadra dei sogni, quelli della filastrocca “Pellizzaro, Silipo e Maldera attenti alla barriera…”. Sono tutti figli del dopoguerra, contornati dal culto processionario di una fiumana di persone pronte a imballare la stradina che conduce in cima alla città, alla Chiesa di San Francesco di Paola, in cui sorge lo stadio più ventoso d’Italia, l’allora “Militare”. Giorgio Pellizzaro aveva il grugno rassicurante, da pugile buono, la faccia volitiva, un ragazzo di valori, figlio di agricoltori in un casale del mantovano, e lui fu custode fedele di una porta che rimase a lungo immacolata, anche grazie ai suoi voli d’angelo da un palo all’altro che gli valsero l’affetto di una piazza intera. Una devozione che ricambiò prendendo casa a Costaraba, lungo la costa, e fra un bagno e l’altro a Caminia, passò quattro stagioni indimenticabili che cementarono il suo legame con Catanzaro. Da Roma arrivò Claudio Ranieri, soprannominato “er fettina”, perché il Sor Mario, il papà, aveva una macelleria nel cuore del quartiere romano di Testaccio. Arrivò a bordo di una Mini Cooper con dentro Roberto Vichi e Stefano Pelligrini. Un viaggio interminabile fino alla sede della società in Corso Mazzini, accanto ai magazzini dell’UPIM, per firmare un contratto e per giocare essenzialmente con un gruppo della sua stessa estrazione popolare: il padre del gracilino regista Paolo Braca era pescatore, quello di Alberto Spelta, detto lo "Jair bianco" faceva il trippaio. Poi un giorno si presenta un tipo, un cespuglio di capelli informe, un batuffolo baffuto e barbuto, rossiccio, si intravedevano solo i piedi, il sinistro è d’oro: Massimo Palanca. Anche la sua famiglia non vive certo nell’agio, anzi, figlio di uno spazzino, fino a otto anni è costretto ad abitare nel campo sportivo di Porto Recanati in una sorta di loculo domestico incastrato fra gli spogliatoi e una tribuna. L’unico con un passato ormai consolidato, così come il conto in banca,  è l’arcigno  difensore Luigi Maldera, il fratello del più celebre Aldo, uno che arrivava agli allenamenti a bordo di una Fiat A112 Abarth con ha la faccia da attore americano. Giungono Gianluigi Maggini e il bronzeo sciupafemmine Pieraldo Nemo, entrambi dalla Juventus; il massaggiatore del Catanzaro, dalle mani fatate e sapiente dei rimedi della nonna, Amato
Masino va a prenderli in stazione in ‘500. Dopo tre giorni Maggini scappa, fugge, non è abituato a una città dove alle 20,30 in strada non c'è più un anima viva e poi alla Procura avevano riaperto processi di cui lui aveva sentito parlare alla TV e letto sui giornali e pare avesse paura. E ce pure un ragazzo nato a Catanzaro, manco a dirlo proveniente da una famiglia modesta, che ha incontrato tante difficoltà per affermarsi ma che non ha mai smesso di crederci fino a quando è riuscito ad emergere, il difensore capelluto Fausto Silipo. Eppure nessuno meglio di Giorgio Vignando da Jesolo, mediano per natura, espone meglio quel Catanzaro che tornerà in serie A nella stagione 1975/76 grazie a una rete all’ultimo minuto al Mirabello di Reggio Emilia realizzata da Gianni Improta, napoletano verace, quello del “Si può vendere il Vesuvio ma Improta no” come venne vergato nello striscione esibito durante le contestazioni per la sua cessione alla Sampdoria. Vignando spiegò che lui sudava e lottava perché l’empatia con quel popolo lo aveva riempito. “Mi infilavo nei bar, cercavo di decifrare parole astruse, io emiliano e contadino però sapevo riconoscere le stesse rughe, le stesse miserie nascoste dal loro vino caldo”. I tifosi ci ripetevano: voi siete la squadra di una speranza schierata su un campo verde, lo sai cosa significa per noi vincere contro l’Inter, il Milan o la Juve? Significa che domani il vicino della porta accanto che ha il fratello in fabbrica a Mirafiori, e ai cancelli sventola la sciarpa giallorossa, in quel momento non si sentirà più emigrato sporco con la valigia di cartone, né sfruttato, né sfortunato, né incazzato, si sentirà orgoglioso, di un orgoglio che arriva a zaffate, un orgoglio che significa recuperare la dignità della propria terra, di una tacita intesa indurita dai secoli. E così facendo renderete protagonista una città, una regione, infilandovi semplicemente quella magliettina rossa, stretta, delicata, con le righine gialle che sembra ‘nduja. Qui dove si scruta sull’erba il tempo che verrà, qui non si vince solo per i due punti ma per riscattare famiglie disperse. Il Catanzaro degli anni settanta fu una rivoluzione, una rivoluzione proletaria in pantaloncini e parastinchi, e il nostro Che Guevara si chiamava Massimo Palanca.

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