lunedì 19 giugno 2023

GLI OCCHIALI DI TROTSKY

 


Brusio di sottofondo, voci indistinte, un pulviscolo di luce filtra dalle imposte socchiuse, qualche mosca adagiata su libri di Carlos Fuentes che nessuno legge, riviste sparpagliate, ventilatori a soffitto, maglie rosse come il sangue sotto i ferri da stiro, quel rosso di cui magari sarebbe lecito o naturale supporre fosse il colore allineato nell'ambito della politica identitaria utilizzata per simboleggiare la forza del comunismo e del proletariato, ed in effetti lo è, ma le origini della tinta si perdono nella profondità della pancia delle rivendicazioni sociali: il rosso era associato ai movimenti che precedettero la Rivoluzione e, tuttavia, la politica può essere anche rimossa completamente dall'equazione se consideriamo che la parola russa per rosso è "Krasni", sinonimo di bellezza. I sovietici ai Mondiali del 1970 sono attesi ai quarti di finale dall’Uruguay. Hanno superato un girone scorbutico con Messico, Belgio e El Salvador, hanno già fatto i conti con il caldo torrido, con le visioni, con le icone graffiate da Montezuma, con l'Azteca dagli spalti immensi e adesso aspettano. Vivono nel modesto refrigerio di un albergo del centro, l’insegna dice Hotel Escargot, dove sopra il bancone della reception campeggia un quadro di Rivera. No, non quel Rivera, un altro, tale Diego, esponente del muralismo messicano e militante della movimentata lotta di classe che nel primo Novecento aveva scosso il paese, soprattutto amico fraterno di Leon Trotsky che qui nel 1940 a 5 km in linea d’aria dal ritiro russo viveva in esilio dopo l’allontanamento forzato dalla madrepatria, qui in un appartamento del sobborgo di Coyoacán, qui dove trent’anni prima da quel giorno venne ucciso da un sicario con vaghe parentele cinematografiche. Gavriil Kachalin, commissario tecnico dall'immancabile borsalino di feltro e dagli occhi vitrei, non ha mai risposto a nessuna domanda su questa sciocca questione: “sono un allenatore di calcio, non faccio politica e in ogni caso non né sarei autorizzato”. Kachalin è un discreto allenatore, ha fatto vincere l’unico trofeo continentale all’Unione Sovietica 10 anni addietro e pare mai abbia pronunciato un discorso ai suoi giocatori usando il pronome “io”, lui preferiva “noi”. Le porte dell’Hotel sono sprangate, vigila la turpe polizia messicana e invisibili agenti del KGB. Sul campo d’allenamento Kachalin tiene le lezioni di tattica; i giocatori fanno capannello, ogni tanto intervengono con qualche osservazione, in ogni caso tutto finisce presto. Kachalin non è più giovanissimo, piuttosto basso di statura, con i capelli bianchi, si muove agitato, di tanto in tanto gesticola, ricorda un pò certi vecchietti dei paesini polverosi del Far-West o, se vogliamo, di un crocicchio degli Urali. La sua squadra, nel confronto con il 1966 è ringiovanita, presenta qualcosa di nuovo e nelle prime tre partite d’esordio lo ha dimostrato. Odia la difesa ad oltranza, preferisce una manovra ad ampio respiro, non ha grandi assi, non allinea dei divi. Lev Yashin ha 41 anni, è stato convocato più come sciamano che come atleta, al suo posto in porta gioca Anzor Kavazashvili, un georgiano nevrile dello Spartak che per rispetto del predecessore dietro la schiena si è fatto cucire il numero 2 sulla divisa nera. L’URSS del ’70 è un insieme che alla fine dei salmi si è integrato bene, devono solo riuscire a ragionare d’ insieme, come se il campo fosse un enorme scacchiera, forse mancano di fantasia, eppure in una nazione che ha avuto Pushkin, Esenin, Blok, Majakovskij e altri non sembra possibile, per forza deve insinuarsi in loro, quantomeno sottotraccia, una sorta di armonia, un barocco che allenta e talvolata spazza la geometria euclidea e i gesuiti di Caterina la Grande, distorce il materialismo scientifico liberando anima e spirito. Prendete ad esempio il centravanti Anatoly Byshovets, lui di creatività ne ha da vendere, e comunque, se poi se occorre battagliare sul Don, Alekseyevich Shesternyov con la fascia da capitano ha l'esperienza giusta. Il 14 di luglio, dopo colazione, Gavriil Kachalin si siede sul pullman con il resto della squadra, qualcuno dello staff lo avvicina, gli mormora qualcosa, uno spiffero freddo nell'afa di Città del Messico, insomma pare che per una banale deviazione quella mattina per giungere allo stadio Azteca occorrerà passare per il sobborgo di Coyoacán, e allora per uno nato nel 1911, fu una notizia non da poco. Dai finestrini chiusi del pullman giunge il ronzio sordo della città avvinghiata alla canicola di mezzogiorno. "La vita è bella". Questa fu l'osservazione che Leon Trotsky espresse nel suo testamento politico guardando fuori della sua abitazione prima di essere colpito a morte. Trotsky restava un buco nero nella vicenda dell’Unione Sovietica, rivoluzionario, proletario, marxista, a dispetto della "russificazione" dell'Unione Sovietica voluta da Stalin. E qualcosa turbò l’allenatore moscovita, una sorta di presagio nefasto a poche ore dal calcio d’inizio della partita contro l’Uruguay per i quarti di finale. Allo stadio Azteca, enorme astronave piantata nel cuore di Città del Messico, incastrato fra le sue arterie, l’Uruguay non si palesava chissà cosa, ma fanno correre la palla meglio dei sovietici. Gli altopiani stavolta si fanno sentire. Nonostante tutti ricordassero di aver già battuto gli uruguaiani ai mondiali cileni, e pure a Montevideo e a Mosca, seppure in amichevole, la partita diventa estremamente difficile. Sul cielo senza nuvole sopra l’Azteca ora incombe un nembo scuro, un infinito. Nei primissimi minuti di gioco diventa evidente che i russi hanno esaurito la loro parte di felicità, mutuando "l'Idiota" di Dostoevskij. Vitaly Khmelnytsky da pochi metri non riesce a segnare, roba facile, stridore, respiro affannoso. L’ Uruguay pone timidi ramoscelli d’ulivo, ma Atilio Ancheta, Roberto Matosas e Ladislao Mazurkevich chiudono bene i varchi. L’URSS a poco a poco perde l'iniziativa. Solo Shesternyov e Vladimir Muntyan provano a restituire grinta alla squadra. Invano. Si va ai supplementari. Kachalin sbilancia l’assetto, parla di coraggio, di spregiudicatezza, quando improvvisamente sulla vacillante difesa dalle superbe maglie con l'acronimo cirillico incombe la figura solitaria di Luis Cubilla che di alfabeti redatti da monaci bizantini se ne infischia. Resta un dubbio, la palla supera la linea di fondo, oppure no? l'arbitro non fischia, il guardalinee non sventola, il terzino Valentin Afonin alza timidamente un braccio indicando mestamente la rimessa dal fondo ma Cubilla rimane incurante, rimette in mezzo il pallone con un leggero calcio oscillante. Víctor Espárrago, subentrato, raccoglie l’invito di testa e realizza indisturbato, battendo l’esterrefatto Kavazashvili. Il direttore di gara Van Ravens non presta la minima attenzione alle lamentele dei rossi, alla loro maschera operaia, ai loro capelli ondulati, lasciando civetteria sopra una polveriera che per fortuna non esplode. Il treno è partito, il piano quinquennale saltato. In una qualche dimensione parallela, fuori dallo spazio e dal tempo, qualcuno con i baffi a punta, ripone degli occhialetti rotondi dentro un cassetto della scrivania, non sappiamo se con soddisfazione o se con sconforto.

 

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