venerdì 17 novembre 2023

L'AJAX DEL DE MEER

 


Se fosse un romanzo il De Meer assomiglierebbe tremendamente a “Le sere” di Gerard Reve, la storia che racconta gli ultimi 10 giorni del 1946 di Frits van Egters, un giovane precocemente sbalzato fuori dalla scuola e finito a fare l’impiegato, con scarso entusiasmo. Lo sfondo è quello di un’Olanda ancora intenta a risorgere dal dopo guerra, nei fatti e nello spirito. Pochi svaghi, a parte qualche tiro di sigaretta, la musica classica passata alla radio e il cinema (il divertimento del secolo) sempre gremito. L’attenzione dell’autore si concentra sulla vita quotidiana, i pasti poveri ma tutt’altro che frugali, spia di una ripresa accennata, o sul sacro rito della stufa, da tenersi sempre accesa nel gelido inverno dei Paesi Bassi. Certo, quando uscì nelle librerie il libro fu molto divisivo. C’era chi lo salutava come l’opera di una generazione e chi ne censurava l’inopportuno nichilismo, una sorta di grammatica del tedio. Eppure, una ventina d’anni dopo, quando un altro nativo di Betendorp come Reve, (ah naturalmente Betendorp è un sobborgo di Amsterdam) incomincia a manifestarsi toccando il pallone con la medesima dimensione poetica, l’Ajax incomincerà a mostrare tutto il significato che poteva avere per le giovani generazioni "quell’aria di cavolo e pane vecchio, quelle porte scorrevoli, le strade luccicanti del Plan Zuid di Amsterdam, gli “ohi, ohi” della madre di Frits, le maglie bianche che è costretto a indossare, le aringhe scadute, le frittelle con pezzetti di mela e il vino ai frutti di bosco". Insomma, se sul libro veniva gettata l’accusa, tipicamente olandese, di essere “troppo tipicamente olandese” si sarebbe dovuto dire la stessa cosa per una squadra che fece della polarizzazione identitaria, figlia del proprio tempo, sperimentazione e labirinto di eclettismo, commistione di serietà e sbuffi d'ironia, maniacale precisione e talvolta confuso esibizionismo volto alla causa. Non abbiamo fatto ancora quel nome, lo abbiamo solo accennato senza nominarlo un po' come gli ebrei fanno nel Pentateuco col tetragramma, ossia circumnavigano il nome di Dio con aggettivi o altri appellativi ma qui non si fa teologia e lo facciamo subito appena dopo un pochina di indispensabile retorica; pavé, cemento, distese di ghiaia e porte di magazzini, ecco i campi da pallone su cui lo stentoreo ragazzino forgiò i propri piedi plasmando la naturale propensione a saltare gli avversari con finte accurate e improbabili senza mai cadere per le terre. A 10 anni, (eccolo) Johann Cruyff entrò a far parte delle giovanili dell’Ajax percorrendo i 500 metri che separavano il civico 32 di Akkerstraat dallo stadio De Meer dove la madre, vedova del fruttivendolo Manus, faceva le pulizie. Cruyff esordì nel 1964 a 17 anni nello anno in cui Jaap van Praag, proprietario di una smisurata catena di "freeshop", divenne presidente di un Ajax in agonia. Nel 1965 deciderà di portare in panchina un tale, Marihus Michels, detto Rinus la sfinge, e quest'ultimo non solo riportò in auge i biancorossi, ma nella stagione successiva lì trascinerà verso l’undicesimo titolo, il primo dell’era Cruyff. Attenzione, qui la cronaca tende a tracimare, poiché scoccherà l’eresia "giansenista" di un gioco differente, definito “totale”, provocando subbuglio tra i catechismi calcistici delle chiese più dogmatiche e conservatrici. Rinus Michels, giunse al capezzale di un club che lottava per evitare la retrocessione, aveva da poco ottenuto il titolo di professore d'educazione fisica in un'accademia olandese, nota, a quanto pare, per la sua severità. Al momento dell'assunzione alla guida tecnica della squadra, molti sostenitori manifestarono i loro dubbi, le loro incertezze, diffidenti sulle possibilità che questo signore riuscisse a salvare la barca da un naufragio che s'annunciava imminente. Invece, tutto andò per il giusto verso. E da allora cominciò la travolgente marcia della squadra che Michels portò dapprima alla finale della Coppa dei Campioni del 1969 persa contro il Milan a Madrid, alla conquista della stessa Coppa a Wembley nel 1971 con una formazione di fuoriclasse a metà fra il rockettaro e l’antica tabaccheria del corso: Stuy, Suurvuer, Neeskens, Hulshoff, Blankenburg, Haan, Muherer, Cruyff, Keizer (autentica anima gemella di Johan). Tutti sono diventati campioni nelle mani di Michels, uno uscito dal tirocinio pratico allenando i dilettanti dello Jos: la sigla significa “Jeugd Ons Streven”, vale a dire "La gioventù è il nostro destino", e per questo venivano sbeffeggiati mettendo al posto di "Jeugd", il termine “Jenever” che in pratica è il nome della “Ginevra”, bevanda nazionale olandese, per far credere che più che di giocatori di calcio sì trattasse di gente cui piaceva alzare il gomito con frequenza. Si, ma L’Ajax e soprattutto il De Meer? lo Stadion De Meer? Va detto per correttezza cronologica che all’anagrafe di Amsterdam, l’Ajax nasce la mattina del 18 marzo del 1900 al tavolo di un caffè, l’Oost Indie, in onore con buona probabilità dei rigogliosi commerci, da e per le Indie, che arricchirono la corona olandese. Tre giovanotti baffuti d’ufficio, furono i fondatori: Floris Stempel, Han Dade, Carel Reeser. Idee chiare e un nome, che unisse la città agli studi classici: Amsterdamsche Football Club Ajax. E Ajax da Aiace Telamonio, eroe omerico. Occorsero 17 anni affinché in vetrina si potesse lucidare il primo titolo nazionale, ma robetta in fondo, cianfrusaglia ancora di pionieri polverosi. Casomai oh, lasciate perdere quel grossolano e falsissimo soprannome di “lancieri” inventato da un giornalista italiano, nonostante personalmente la ritengo battaglia ormai persa, mai io ci provo lo stesso e ve lo faccio presente.  Il De Meer? Ci siamo, o quasi. Dopo i primi vagiti, dopo il cosiddetto “Het Houten Stadion”, lo stadio di legno, nel 1928 iniziarono i lavori per la realizzazione di un nuovo impianto, più a valle del vecchio Watergraafsmeer. La costruzione vera e propria iniziò nel 1934. Il nuovo stadio e i due campi di allenamento si trovavano in mezzo al verde, sul Middenweg, nel luogo dove precedentemente sorgeva la fattoria Voorland, da cui prese il nome il complesso sportivo. L'architetto e membro del club Daan Roodenburgh fornirà il progetto. Il De Telegraaf scrisse così nel gennaio 1934: “La tribuna coperta, è costruita con il retro rivolto a sud-ovest, in modo che le persone siano solitamente riparate dal sole basso e dai venti freddi, è la caratteristica principale dell'edificio dell'architetto Roodenburgh, che, a giudicare dai disegni, è davvero uno stadio colorato e accogliente”. Fatta eccezione per le tribune in cemento, lo stadio sarà stato costruito interamente in mattoni, nello stile sobrio della Scuola dell'Aia. Delle quattro tribune inizialmente era coperta solo quella d'onore. Nel 1965 venne rivestito anche l'altro lato lungo; quella tribuna prese il nome dall'ex allenatore Jack Reynolds. I lati lunghi erano tribune per sedersi, nei lati corti ci si stava in piedi ma naturalmente era quello il covo più frenetico e caldo dell’impianto. Negli anni '80 gli fu stato dato un tetto. La tribuna comprendeva gli spogliatoi, una palestra, un ristorante e la sala riunioni. Quella sezione dell'edificio era delimitata da due modeste torri. Negli angoli tra le tribune, Roodenburgh progettò quattro piccoli edifici di servizio, che potessero fungere da buffet e residenze di servizio. L'artista del vetro Willem Bogtman ha realizzò vetrate colorate per il ristorante; erano un dono di membri e donatori e raffiguravano vari sport. Inizialmente la capienza risultava intorno ai 22.000 spettatori. Successivamente dei lavori di ristrutturazione ne aumentarono la capacità a quasi 30000 poi drasticamente ridotta a 19.500 negli anni '80 per motivi di sicurezza e per le partite in cui era previsto un vasto pubblico, in genere match di coppe europee l'Ajax si trasferì in via continuativa nello Stadio Olimpico. Col tempo, verrà migliorato e ingrandito (ma non troppo), coperto, e dotato di impianto di illuminazione. Intorno, altri campi. Sui quali, generazione dopo generazione, crebbero parecchi talenti. Gli anni successivi sono quelli più gloriosi nella storia del club. Ma per gli incontri internazionali, davvero il De Meer è troppo piccolo, e l'Ajax gioca quelli interni nello Stadio Olimpico. Lo rifacciano qualche nome? Giusto così per ripasso: Johan Cruijff, Sjaak Swart, Piet Keizer, Gerrie Mühren, Ruud Krol, Johan Neeskens, Barry Hulshoff, Dick van Dijk, Arie Haan, Wim Suurbier, Horst Blankenburg, Velibor Vasović e Heinz Stuy. Altre Coppe dei Campioni, a Rotterdam contro l'Inter nel catino buio e tremebondo della "Vasca",  e l’anno seguente a Belgrado, in un enorme Marakana davanti al Maresciallo Tito dove il biondino Johnny Rep di testa befferà Zoff in apertura chiudendo di fatto la contesa e siamo già nell'era Stefan Kovacs perché a Barcellona  non ci pensarono troppo a portare Michels al Camp Nou così come faranno con Johan. L' Ajax vivrà successivamente anni decisamente magri sino a quando tornò il divino. Tuttavia scordatevi quell' Ajax dirà subito Cruijff, quello è morto. Poche idee, ma chiare le ha sempre avute il "Grande Scorbutico" dalla perenne paglia in bocca. "Il calcio è disciplina- tira dritto. Bisogna che i giovani si divertano. Solo lo spettacolo può riportare la gente negli stadi e combattere la violenza". E i giovani lo seguirono con entusiasmo: non c'erano molti soldi e i migliori venivano regolarmente sottratti da squadre emergenti tipo il PSV ma arrivò comunque la Coppa delle Coppe dell'87 e in biancorosso passarono qualche paia di giovanotti in gamba.. Van Basten, Rijkaard, Bosman, Winter, Witschge. Ma era solo un fuoco di paglia, almeno fino al trionfo in Champions del 1995 (guizzo del gioiellino Patrick Kluivert in quel di Vienna e Milan battuto) che coinciderà pressappoco con la chiusura del De Meer (28 aprile 1996) e l’inaugurazione della nuova Arena. Un incendio pensò a spazzare via gli ultimi ferri contorti. Ora però in conclusione dobbiamo fare una cosa: toglietevi dalla testa la rete (quella regolare) segnata da Diego Maradona all’Azteca contro gli inglesi, e ditemi, così a braccio, senza pensarci troppo quali sono stati i due goal più belli nella storia del calcio dove per belli non intendo solo il gesto ma anche crismi di estetica da rivoluzione del gusto. Vi siete mai chiesti per quale ragione l’arte olandese del XVII secolo attira irresistibilmente l’attenzione non solo del pubblico delle mostre e dei musei, ma anche di scrittori come Tracy Chevalier (La ragazza con l’orecchino di perla, che racconta la nascita dell’omonimo quadro di Vermeer), Jessie Burton (Il miniaturista, ambientato nella Amsterdam del Secolo d’oro) e Donna Tartt (Il cardellino, storia che si svolge attorno al quadretto con un uccellino dipinto da Carel Fabritius), o dello stesso Marcel Proust che riteneva la Veduta di Delft di Vermeer “il quadro più bello del mondo”, al punto da inserirne una descrizione in uno dei volumi della Recherche. Proust vedeva in quel paesaggio, in quel modo di dipingere, un modello di “scrittura”, e fa dire a un suo personaggio, lo scrittore Bergotte: “È così che avrei dovuto scrivere”. Ecco, detto ciò non ho dubbi, Johan Cruijff il 6 dicembre 1981 in Ajax -Harleem e Marco Van Basten il 9 novembre 1986 in Ajax-Den Bosch. Due prodezze senza senso, un delizioso pallonetto dall’limite e una rovesciata sublime. Entrambi al De Meer, stessa porta.  Andate a rivederli non ve né pentirete. Oggi il De Meer è diventato quartiere residenziale fatto di condomini, piazzette e vie, dove spiccano i nomi dell’epopea ajacide, il tutto attratto come un enorme black hole verso un punto esatto composto da cerchi concentrici che diminuiscono via via il loro raggio fino a quel semi pallone di cemento che spunta laddove un tempo era collocato il centrocampo gessato del vecchio, indimenticabile stadio.



venerdì 10 novembre 2023

UMBRO IS THE NAME




La piccola sartoria ubicata all’angolo di Green Lane a Wimslow è in fermento. 
Un fabbricato eretto da un dedalo di mattoncini scuri sui cui infissi, sezionati dalle classiche grate all’inglese, scivolano zigzagando gocce di pioggia figlie del Mare d’Irlanda. Gli alisei le trascinano attraverso nubi grigiastre sulla campagna del Cheshire, pronta nel frattempo a rintanarsi in cottage fumanti. A Wimslow si avverte quanto basta il respiro di Manchester per essere definito villaggio con tutti i crismi e non anonimo punto topografico composto da casette avvinghiate dai sempre più lunghi tentacoli del suburbio. Uomini e donne seduti ai banchi da lavoro si chinano su stoffe colorate con metri flessibili, righelli e forbici affilate, mentre enormi casse di bobine di filo sono piazzate accanto alle macchine in ferro della ditta Bradbury’s & Company. Gli aghi picchiettano con ritmo incessante i tessuti: risvolti, maniche e colletti, oscillando in modo alternato, dall’alto verso il basso, trascinando, indietreggiando, a seconda della posizione data al perno della spoletta. Un pedale, posto sotto il tavolo della macchina, è collegato a una cinghia per permettere a entrambe le mani di restare libere e disponibili per qualsivoglia necessità di modifica. La sartoria sta dando lavoro dal 1924 ad almeno una ventina di operai fra uomini e donne, e i fratelli Harold e Wallace Humphreys, figli del vignettista James e di sua moglie Mary Ann (che gestisce l’indolente Bull’s Head Hotel di Mobberley) ne sono orgogliosi. Al termine del primo conflitto mondiale hanno lasciato l’impiego in un magazzino di Stockport con un pugno di penny in tasca per comprarsi una modesta lavanderia proprio qui a Wimslow. Le consegne iniziali vengono espletate con un empirico carretto tirato da un garzone di bottega. Poi però, una decina d’anni dopo, accade qualcosa che cambia per sempre la loro vita e quella dell’abbigliamento sportivo: un telegramma. Il dispaccio risultava spedito dagli uffici dello stadio di Maine Road da dove il presidente del Manchester City, Wilf Wild, chiede la disponibilità per la progettazione di un kit di maglie da indossare durante la finale della Coppa d’Inghilterra del 28 aprile 1934 contro il Portsmouth. Eccola la svolta: cucire le divise per una partita di calcio, anzi, per la partita di calcio. Con buona dose di ego tutto britannico, in quel momento la finale di FA Cup è decisamente più conosciuta e importante della stessa Coppa del Mondo. Oh, casomai sussiste un problema; beninteso che i fratelli non hanno mai dubbi sulla voglia e sulla capacità di vestire una squadra così importante, il problema è legato casomai al fatto, se vogliamo abbastanza banale, che i club in questione presentano entrambi colori piuttosto simili. Serve un’idea affinché la Humphreys Brothers Clothing, ormai serrata nella contrazione commerciale UMBRO, faccia una grande figura durante la finale. Centomila persone sulle gradinate e milioni nel paese attaccate alla radio dovevano avere la netta sensazione di un confronto non solamente sportivo ma anche legato alla bellezza dovuta agli indumenti indossati degli atleti scesi in campo. L’idea spunta con la rugiada di primavera, ed è quella di creare una divisa color granata (o “maroon” come dicono loro) con i bottoni a chiudere il colletto orizzontale sullo sterno e uno splendido “crest”, ossia un raffinato stemma, dove l’unicorno e il leone, simboli della corona, sono intenti a brandire lo scudo dello “Ship Canal” di Manchester. Quest’ultimo è solcato da un veliero e dalla dicitura “Wembley 1934”. Sarà un autentico successo, sia per il Manchester City che conquista la Coppa con una doppietta di Fred Tilson, sia per la ditta. La divisa piace così tanto che la dirigenza del City fa pervenire immediatamente un altro telegramma per congratularsi con Umbro ringraziando “per il comfort, la qualità e l’eleganza del materiale”, augurandosi inoltre l’apertura di un rapporto a lungo termine con l’azienda. Harold Humphreys e suo fratello Wallace, addossati al bancone di mescita in quercia di un pub di Wimslow, brindano al successo mettendosi subito al lavoro, viste le nuove e incombenti commissioni giunte da mezza Inghilterra e sparse sul tavolo del loro studio. Ma come un colpo di cannone improvviso arriva la Seconda Guerra Mondiale. L’azienda inizia così a fornire divise ed equipaggiamenti per l’esercito di sua maestà. Non solo. Durante il corso di quegli anni di sangue, fumo e macerie, nella mensa aziendale vengono accolti e rifocillati circa 250.000 soldati. Quando il pallone tornerà a rimbalzare sui campi il “brand” entrerà in una serie di fotogrammi memorabili cuciti da uno stile unico. Una tappa significativa del “Doube Diamonds” in altri sport verrà marcata nel 1958 da un certo Roger Bannister, sfinito ma felice; è il primo atleta capace di percorrere un miglio in meno di quattro minuti. Nel 1952 Umbro inizia un legame abbastanza viscerale con le nazionali britanniche ma siccome gli inglesi del periodo sono trascinati più dall’inerzia che dalla volontà di confronto con il resto del globo pedatorio un po' alla stregua dei giapponesi del medioevo, sorprendentemente sarà il Brasile a portare la ditta su tutti i rotocalchi sportivi e non: la Seleçao di un giovanissimo Pelé nel 1958 batterà la Svezia a Stoccolma per 5-2 alzando la prima delle sue cinque Coppe del Mondo, quattro delle quali griffate dal marchio inglese. Tuttavia, amore della mamma, Umbro accompagnerà i “Three Lions” alla vittoria del Mondiale casalingo datato 1966 monopolizzando l’intera competizione visto che 15 squadre su 16 vestiranno i loro prodotti con la sola esclusione dell’Unione Sovietica. Questo senza dimenticare che in Inghilterra gli Humphrey Brother’s stanno già facendo pentole e coperchi e tre club su quattro dei campionati gestiti dalla Football League indossano maglie confezionate dalla Umbro. Altra minuta indiscrezione a proposito del Mondiale del 1966: nonostante l’Inghilterra fosse il paese ospitante, in occasione della finale, sotto le torri dell’Empire Stadium, la Germania venne sorteggiata come squadra numero uno sul tabellone e i calciatori inglesi di Alf Ramsey furono costretti a ripiegare sulla celeberrima maglia rossa che di lì a poco, grazie alla vittoria, sarebbe diventata iconica al pari della faccia angelica di Bobby Moore. Dimenticavamo, il lancio della linea Replica per bambini, nel 1959, si può già considerare una prova generale, oltre che un’intuizione geniale: anche i più piccoli si possono agghindare come i loro idoli. 
Altro anno significativo per la storia di Umbro resta il 1970. La “Rimet” sbarca in Messico e a trionfare sarà ancora il Brasile. La Umbro, in quella competizione, si rende protagonista grazie alle rivoluzionarie maglie traspiranti dette, con discreta originalità “Aztec”. Le divise permetteranno ai giocatori di affrontare al meglio la torrida estate sugli altopiani messicani. Certo come no, la Coppa dei Campioni: il marchio vuole essere protagonista nelle manifestazioni continentali e ciò avverrà col successo del Celtic nel 1967. Poi toccherà al Liverpool farsi fotografare vincitore (curiosamente da Roma a Roma, passando per Londra e Parigi) fra il 1977 e il 1984. E chi si scorda di quell’uno/due firmato Sheringham-Solskjaer nella finale catalana del 1999 dove il Manchester United stenderà il Bayern Monaco recando sul petto il diamante a sei anni di distanza. Da quando, cioè, nel 1993, i “red devils” tornano a sedersi sul trono d’Inghilterra e (fra l’altro) anche in quell’occasione ammantati da una leggendaria Umbro retrò con i laccetti sullo scollo tutta da gustarsi. C’è dell’altro. Solskjaer realizzerà quello storico goal indossando le cosiddette Umbro Special. Parlando di United va detto che il roccioso Duncan Edwards, uno dei calciatori vittime della tragedia aerea del 1958 che decimò i Busby Bubes, probabilmente uno dei migliori prospetti del calcio inglese dell’epoca, servì da modello alla tenuta della squadra, cucita ovviamente dalle sarte della Umbro. Quella maglia presentava un collo a V di gran classe. In ogni caso sarà il ventennio 80/90 (quando la società si trasferisce “armi e bagagli” nella nuovissima sede all’avanguardia di Cheadle, sempre ubicata nell’immediata periferia di Manchester) l’epoca di splendore della Umbro. Dagli Old Firm scozzesi, all’Arsenal che sedurrà Nick Hornby, fino a Italia 90, in cui al bianco tradizionale dei tre leoni verranno aggiunti tocchi di qualità grazie alle bande (tipo greche) sui bordi delle maniche e sul colletto rifinito in blu. Stesso discorso per il pantaloncino blu notte in nylon reso particolare da angusti baffetti sui lati per completare quello che resterà negli annali come uno dei completi più famosi di sempre. Questo genere di prodotto, questo stilema, andrà alla grande ad esempio in Serie A. Celebre la maglietta della Lazio con il bianco listato da gradazioni nere e oltremare a incorniciare il dovuto spazio al celeste pantocratore. Umbro entrerà a gamba tesa sugli anni Novanta sviluppando anche una serie di calzature realizzate con pelli pregiate, leggere, accurate e funzionali. E il colletto alzato di Cantona dove lo mettiamo? Fottuto genio e sregolatezza di un francese all’anagrafe ma non di fatto. Scorrendo il nastro ci sono momenti ed immagini topiche che hanno posto Umbro sull’altare del mito: Terry Butcher (un nome un programma) versione “splatter” alla Quentin Tarantino, con la maglia insanguinata dopo la gara disputata con la Svezia il 6 settembre 1989; e il colletto alzato di Cantona dove lo mettiamo? Fottuto genio e sregolatezza di un francese all’anagrafe ma non di fatto. E ancora. La meravigliosa rete di Michael Owen contro l’Argentina nel 1998, autentica perla per un attaccante apparso serio prodigio che tre anni dopo avrebbe alzato il Pallone d’Oro. Oppure il modello Alan Shearer, il centravanti di Gosforth, dalle vocali maledettamente strette, che nelle sue annate da “Northern Rock” con il Newcastle e con il Blackburn Rovers ha calzato Umbro con risultati totemici. E perché no, il romantico ritorno di Wayne Rooney all’Everton con la maglia “brandizzata” indossata al momento della firma sul contratto nel serafico Goodison Park. Se in passato Umbro ha avuto in pratica l’esclusiva in molte competizioni, oggi la situazione è cambiata: il numero degli sponsor tecnici è aumentato e colossi come Adidas, Nike e Puma si sono assicurati grandi fette di mercato. A livello internazionale attualmente il gruppo opera a stretto contatto con una rete di 47 licenziatari per mantenere un’identità di marchio globale e uniforme. Certo, nel frattempo è diventata sezione Nike, ma non si è comunque arresa al modernismo imperante e ha continuato a lavorare secondo la propria natura senza dimenticarsi delle origini. Senza dimenticarsi di quella piccola fabbrica di Wimslow, senza dimenticarsi di omaggiare lo scorrere della storia nei suoi contenuti. Una storia lunga quasi un secolo, attenta al presente e volta al futuro. Umbro is the name.






mercoledì 8 novembre 2023

CAMPIONI IN PUNTA DI DITO





Ah, c’è questo brutto intervento di McLintock su Rocastle, sicuramente un fallo da espulsione…”. “Non era così brutto, sembrava brutto, lo ammetto, ho sbagliato tempo non era intenzionale…”. “Balle, allora, punizione dal limite per l’Arsenal ’89 e Davies si incarica del tiro e goal! La situazione è Arsenal del 1989 4, Arsenal del 1971 0, credo che il povero Bob Wilson ci resterà piuttosto male…”. “Ehi quelli non batterebbero mai una squadra così per 4-0 a Subbuteo, e che sono io una frana…”. “Potevi scegliere di essere un’altra squadra, chi altro c’è che in trasferta gioca con la maglia gialloblù?”. “l’Everton”. “Allora fai l’Everton”. “Ok però ricominciamo dall’inizio, non posso ricominciare fingendo che John Radford sia Joe Royle, altrimenti schizzo… ripartiamo da capo 0-0…”. “Va bene ricominciamo.” 

Un estratto di Fever Pitch, dove Paul (Colin Firth) e Steve (Mark Strong), i due amici tifosissimi dell’Arsenal, si sfidano in un’utopica partita di Subbuteo nella luce diafana di una mansarda di Islington. La mia generazione ha davvero vissuto una vita in punta di dito e la colpa, come sempre, o quasi sempre, è degli inglesi. Non saprei dire cosa provai la mattina di Natale del 1983 alla vista di quella scatola posta sotto l’albero, e inutilmente confezionata con una carta da regalo piena di stelline da firmamento. Da ragazzini ci gareggiavamo con intensità ancestrale osservata con supremo sprezzo, fatto di risolini di scherno, dalle nostre amiche allibite da tanto ritardo nello sviluppo ormonale. Dal punto di vista sensoriale l’accosterei alla prima volta che sono entrato a Wembley, al primo concerto visto dal vivo dei Metallica schiuso dagli accordi progressivi di Unforgiven, o al primo bacio. Anzi no, al primo bacio no, robetta scialba e priva di lingua, vi bastino le altre analogie. Alla fine mi fu promesso il Subbuteo per il Natale a venire con il solito prestabilito, piratesco, ricatto del “lo avrai se vai bene a scuola”Tutto filò alla perfezione, un po’ perché a scuola onestamente non faticavo molto, un po’ perché avevo la netta sensazione che il dono anche grazie a triangolazioni fra nonni e parenti stretti sarebbe arrivato a prescindere. La confezione base dell’epoca costava circa cinquantamila lire. Oh, sia chiaro, soldi spesi benissimo: io personalmente ci giocavo per giornate intere, da solo o in compagnia, ma direi preferibilmente da solo, e mi ero inventato tutta una regolamentazione apposita per questa tipologia di incontri in solitaria. Nei disincantati anni Ottanta dove tutto era un inno alla leggerezza, potevi scegliere la tua squadra da una apposita lista; ciò nondimeno, in seguito, Subbuteo mise a punto quello che divenne il metodo di opzione preferito da tutti gli appassionati ossia il tabellone dei club con i numeri di referenza. E così, insieme al poster di Paolo Rossi e di Kirk Hammett, comparve in camera mia il manifesto del Subbuteo che, bontà sua, poteva dirsi elaborato in modo migliore di quello di Marx ed Engels, superando qualsivoglia patto o confine sociale, culturale e geografico. Il catalogo delle squadre era un tomo da biblioteca nazionale che tutti conoscevamo e recitavamo a memoria come una preghiera laica. Imparavi per esempio che il Den Haag era un team olandese e non una marca di caffè, oppure che il Motherwell non era il nome di un tabacco da pipa ma di una nobilissima squadra scozzese. Detto questo mi pare giunto il momento di andare alle origini del gioco; Inghilterra. Immaginate la bucolica campagna inglese del Kent nel secondo dopoguerra, la ritrovata serenità sotto il solito cielo basso e plumbeo, i cottage con il tetto di paglia, le sale da tè tirate a lucido, i negozietti di antiquariato in puro stile Miss Marple, i pub col camino acceso perfino in piena estate, piccole volpi, usignoli, il silenzio di antiche cattedrali nascoste da querce secolariEcco, in tutta questa amenità, dove al Signore effettivamente è scappata un pochino la mano, si muoveva lui, giovanotto longilineo, stempiato, un cravattino a far capolino dal tipico golf con lo scollo a V, giacca e pantaloni in Tweed su stivaletti di gomma, armato di binocolo, macchina fotografica e fischietto da richiamo. Si chiamava Peter Adolph, abitava nel villaggio di Tunbridge Weels e di professione faceva l’impiegato all’ufficio pensioni. La sua passione? L’ornitologia. In realtà a dirla tutta Peter era nativo di Brighton, per esattezza anagrafica 7 dicembre 1916, e fin dall’infanzia non ebbe una vita facile. Rimasto orfano di padre nel 1930 si deve trasferire a Chiswich, nell’immediata periferia londinese, insieme alla madre. Terminati gli studi inizierà a lavorare come contabile presso la Vestey Brothers, un’impresa produttrice di carne in scatola tuttora esistente. Allo scoppio delle ostilità, il 23enne verrà arruolato nell’aviazione svolgendo servizio nei magazzini della RAF e risparmiandosi in tal modo dal partecipare attivamente ai combattimenti. All’epilogo del conflitto rientrò a vivere con la madre trasferendosi nel suddetto caseggiato. Un giorno, mentre si trovava negli Stati Uniti, assorbito dalla ricerca di uova di qualche raro uccello, il postino della Royal Mail gli invade testualmente la casa di una quantità enorme di posta. Adolph, visibilmente incredulo, tornò di corsa. Ma cosa era successo? Fermi, facciamo un doveroso passo indietro. La leggenda vuole le prime miniature di calciatori create dai marinai inglesi all’inizio degli anni ‘20. Appassionati di calcio ma con poco tempo libero a disposizione, durante i viaggi, decidono di portare fra gli oceani le emozioni delle sfide calcistiche plasmando con il piombo sagome di calciatori che giocano con una pallina delle dimensioni di quella del Ping-pong. Il salto di qualità avvenne nel 1925, sempre in Gran Bretagna, quando prenderà fama il “New Footy”, un gioco creato a Liverpool da tale William Lane Keeling per far divertire i suoi due figli David e Donald. Nel 1929 Keeling creerà un’azienda familiare, la “NewFooty Co.” gestita in maniera assolutamente casareccia con vendite effettuate per corrispondenza. Trattasi di figure di carta laccata che riproducono le squadre inglesi più famose del periodo incollate ad una base in piombo sul genere di quelle dei soldatini. La pallina era formata da due pezzi incastrati l’uno nell’altro. Un errore, a posteriori, fu quello di non registrare il brevetto di uno svago che regnerà incontrastato almeno fino alla fine della guerra. E allora dopo le ristrettezze e i lutti, Peter Adolph si ingegnò nell’inventare un gioco da tavolo di stampo calcistico che inizialmente avrebbe dovuto essere chiamato con il nome abbastanza banale di “the hobby” ma poiché quel nome non è registrabile, da esperto ornitologo, ottiene la denominazione della sua idea dal suo amore per gli uccelli e nello specifico per il falco lodolaio il cui termine scientifico (dal corrispondente latino) è falco Subbuteo (hobby hawk in inglese). Il motivo? La capacità del volatile di colpire la preda in modo preciso e veloce. Una maniera arguta per delineare le caratteristiche pratiche del divertimento che si apprestava a sviluppare. Adolph non solo nomina Subbuteo la sua ditta ma usa la testa del falco anche per il logo della stessa. In principio, scusate il riferimento biblico, il Subbuteo è una semplice scatoletta contenente due fogli di cartoncino smaltato dove erano stampati i giocatori da dover ritagliare. A ciò andavano aggiunte 20 piccole basi malleabili di “ometti” montati su una sorta di bottone bilanciato e appesantito da una rondella piombata semisferica, due basi rettangolari per i portieri con un’asta in metallo atta al loro controllo e una sfera di plastica scura o bianca sul modello dei favolosi palloni "mitre" usati nella Football League. Le porte sono da assemblare con del filo di ferro e la rete fatta anch’essa in cartone rigido. Quello che sarebbe stato peculiare successivamente, vale a dire il manto verde, non c’era ancora e mister Adolph fornirà in sua assenza un gessetto con cui tracciare le apposite righe sulle coperte di lana verdastre distribuite gratuitamente dall’esercito di sua maestà. Il concetto base del Subbuteo assomiglia molto al NewFooty: gli omini, a colpi di dito, vengono spinti sul campo con l’obiettivo di “scontrare” il pallone indirizzandolo verso la porta dell’avversario. Tuttavia, nel 1946, il progetto risulta ancora piuttosto empirico. Ma Peter Adolph non si perde d’animo e pochi mesi dopo il cerchio si chiude con la creazione, nella località, di un fecondo centro di produzione che debellerà la concorrenza del Newfooty ponendo le condizioni per il clamoroso successo degli anni ’60. Il tutto ottenuto con pochissima pubblicità, qualche testimonial occasionale (Stanley Matthews e Bobby Charlton) e tanto passaparola. Il Subbuteo incontra così una richiesta di massa e in migliaia di famiglie cominciano a decorare a mano gli idoli in scala dei propri club del cuore. Va detto che quei giovani degli anni quaranta sarebbero stati la prima generazione della storia a sperimentare, senza sensi di colpa, il gioco inteso non più come tempo rubato al sostentamento sociale ma meramente come spazio di divertimento libero. Il successo di vendite sarà eclatante e l’azienda cominciò ad offrire ai propri clienti una vasta gamma di accessori e attraversata la Manica tracimerà sul continente. Si poteva costruire uno stadio, riempirlo di spettatori, installare riflettori, il tabellone con lo “scoreboard”, appendere spazi pubblicitari e addirittura far presenziare i reali. Ognuno si ingegna a seconda dell’impianto ideale: da Andrea c’era San Siro, nella cameretta di Giulio risiedeva la Bombonera, da Leo giocavi al Maracana, a casa mia nei fasti di Wembley perché godevo di un discreto tavolone in noce e non costringevo i miei ospiti a estenuanti partite in ginocchio sulla moquette o sui tappeti. Ci saranno numerosi allenatori di calcio che utilizzarono il Subbuteo per illustrare nello spogliatoio le tattiche al posto delle vecchie lavagne. Arriviamo al 29 ottobre 1968, quando Peter Adolph accettò l’offerta d’acquisto della Subbuteo Sport Games da parte del gigante dei giochi Waddington, noto soprattutto per il Monopoli; la vendita gli frutterà circa 250.000 sterline. Guarda caso la nazione in cui le distribuzioni vanno meglio è di gran lunga l’Italia grazie all’agente di commercio genovese Edilio Parodi che aveva adocchiato il Subbuteo su una pubblicità di una rivista britannica di giocattoli. Nonostante la cessione, nominalmente, Peter Adolph è ancora la persona di massimo riferimento del Subbuteo. In una lettera indirizzata alla “Waddington” afferma che “la direzione dipende dalla pianificazione di coloro che intuitivamente colgono e comprendono i bisogni e i desideri dei ragazzi”. Altra immagine che fa il giro del mondo è il campo da gioco battezzato "Stadium of Fingers" dal cultore Stephen Moreton, popolato da oltre 10.000 spettatori dipinti a mano con dedizione certosina. Adolph non crede che l’azienda sia in grado di individuare le esigenze dei clienti e così, non appagato dalla risposta, il 30 settembre 1970 decise di dimettersi completamente da ogni incarico. Subbuteo “perde” così il suo padre fondatore ma continua per la sua strada introducendo dei cambiamenti. Nel 1977 la Subbuteo Sport Games Ltd automatizzerà la produzione creando giocatori assemblati e dipinti da specifici macchinari industriali. Nascono così i cosiddetti zombie: giocatori rigidi, senza vita ma con pose e dettagli umanissimi, piantati sul supporto con una visibile stecchetta verticale sotto gli scarpini. Intanto spopola la foto in bianco e nero di Andrea Piccaluga (campione del mondo juniores ’78) che con lo scudetto tricolore sul petto si renderà protagonista di una sensazionale tournée in Inghilterra (vincendo tutte le 400 partite disputate e subendo solo 4 gol) diventando subito cult. L’Astropitch intanto diventerà la superficie più apprezzata nei principali tornei. Il gioco si dimostra più scorrevole e realistico che sui vecchi panni e i giocatori possono effettuare lanci lunghi con maggiore precisione. Per permettere colpi decisamente dritti fu ridotta la curvatura del basamento che diviene così più distesa e rende di fatto più facile alzare la palla. A metà degli anni Novanta si verificano due eventi importanti. Il primo sarà la fabbricazione di tre figure nere per ciascuna squadra, il secondo la vendita della Waddington al colosso americano Hasbro. Il Subbuteo stava imboccando la sua parabola discendente. L’Hasbro, per contenere i costi, ridusse il catalogo delle squadre a poco più di quaranta. Così facendo recide alla radice la pianta di quel sentimento finemente sintetizzato dalla band inglese Half Man Half Biscuit, attraverso il singolo del 1989 "All I want for Christmas is a Dukla Prague away kit" (tutto quello che voglio per Natale è il Dukla Praga con la maglia da trasferta). In Italia Parodi cercò di porre rimedio alla chiusura delle relazioni con Hasbro e per dimostrare la propria professionalità decide di concepire Zeugo, tentando di ridare al gioco la vitalità perduta, introducendo tra le novità quella di utilizzare delle basi “piatte”. Ovviamente la “controriforma parodiana” non esalterà tutti i dediti al Subbuteo, i quali si divideranno in varie branche di pensiero filosofico. Il dato certo è che negli ultimi anni il Subbuteo ha conosciuto una sorprendente rivitalizzazione. Un gioco destinato a discariche o nella migliore delle ipotesi a soffitte polverose sta conoscendo una seconda giovinezza. Un po’ come assaggiare una madeleine di Proust riaprendo spiragli sui ricordi innescati da quei colpetti in punta di dito, perpetuando, da dogmatici adepti, la tradizione del Subbuteo mentre il mondo, spietatamente, fila in direzione ostinata e contraria. Avrei voluto chiudere con il suono onomatopeico del falco lodolaio ma non sono riuscito a trovarlo. Comunque sia Thanks Mr. Adolph, naturalmente anche da parte di Steve e Paul.






LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...