Se fosse un romanzo il De Meer assomiglierebbe tremendamente a “Le sere” di Gerard Reve, la storia che racconta gli ultimi 10 giorni del 1946 di Frits van Egters, un giovane precocemente sbalzato fuori dalla scuola e finito a fare l’impiegato, con scarso entusiasmo. Lo sfondo è quello di un’Olanda ancora intenta a risorgere dal dopo guerra, nei fatti e nello spirito. Pochi svaghi, a parte qualche tiro di sigaretta, la musica classica passata alla radio e il cinema (il divertimento del secolo) sempre gremito. L’attenzione dell’autore si concentra sulla vita quotidiana, i pasti poveri ma tutt’altro che frugali, spia di una ripresa accennata, o sul sacro rito della stufa, da tenersi sempre accesa nel gelido inverno dei Paesi Bassi. Certo, quando uscì nelle librerie il libro fu molto divisivo. C’era chi lo salutava come l’opera di una generazione e chi ne censurava l’inopportuno nichilismo, una sorta di grammatica del tedio. Eppure, una ventina d’anni dopo, quando un altro nativo di Betendorp come Reve, (ah naturalmente Betendorp è un sobborgo di Amsterdam) incomincia a manifestarsi toccando il pallone con la medesima dimensione poetica, l’Ajax incomincerà a mostrare tutto il significato che poteva avere per le giovani generazioni "quell’aria di cavolo e pane vecchio, quelle porte scorrevoli, le strade luccicanti del Plan Zuid di Amsterdam, gli “ohi, ohi” della madre di Frits, le maglie bianche che è costretto a indossare, le aringhe scadute, le frittelle con pezzetti di mela e il vino ai frutti di bosco". Insomma, se sul libro veniva gettata l’accusa, tipicamente olandese, di essere “troppo tipicamente olandese” si sarebbe dovuto dire la stessa cosa per una squadra che fece della polarizzazione identitaria, figlia del proprio tempo, sperimentazione e labirinto di eclettismo, commistione di serietà e sbuffi d'ironia, maniacale precisione e talvolta confuso esibizionismo volto alla causa. Non abbiamo fatto ancora quel nome, lo abbiamo solo accennato senza nominarlo un po' come gli ebrei fanno nel Pentateuco col tetragramma, ossia circumnavigano il nome di Dio con aggettivi o altri appellativi ma qui non si fa teologia e lo facciamo subito appena dopo un pochina di indispensabile retorica; pavé, cemento, distese di ghiaia e porte di magazzini, ecco i campi da pallone su cui lo stentoreo ragazzino forgiò i propri piedi plasmando la naturale propensione a saltare gli avversari con finte accurate e improbabili senza mai cadere per le terre. A 10 anni, (eccolo) Johann Cruyff entrò a far parte delle giovanili dell’Ajax percorrendo i 500 metri che separavano il civico 32 di Akkerstraat dallo stadio De Meer dove la madre, vedova del fruttivendolo Manus, faceva le pulizie. Cruyff esordì nel 1964 a 17 anni nello anno in cui Jaap van Praag, proprietario di una smisurata catena di "freeshop", divenne presidente di un Ajax in agonia. Nel 1965 deciderà di portare in panchina un tale, Marihus Michels, detto Rinus la sfinge, e quest'ultimo non solo riportò in auge i biancorossi, ma nella stagione successiva lì trascinerà verso l’undicesimo titolo, il primo dell’era Cruyff. Attenzione, qui la cronaca tende a tracimare, poiché scoccherà l’eresia "giansenista" di un gioco differente, definito “totale”, provocando subbuglio tra i catechismi calcistici delle chiese più dogmatiche e conservatrici. Rinus Michels, giunse al capezzale di un club che lottava per evitare la retrocessione, aveva da poco ottenuto il titolo di professore d'educazione fisica in un'accademia olandese, nota, a quanto pare, per la sua severità. Al momento dell'assunzione alla guida tecnica della squadra, molti sostenitori manifestarono i loro dubbi, le loro incertezze, diffidenti sulle possibilità che questo signore riuscisse a salvare la barca da un naufragio che s'annunciava imminente. Invece, tutto andò per il giusto verso. E da allora cominciò la travolgente marcia della squadra che Michels portò dapprima alla finale della Coppa dei Campioni del 1969 persa contro il Milan a Madrid, alla conquista della stessa Coppa a Wembley nel 1971 con una formazione di fuoriclasse a metà fra il rockettaro e l’antica tabaccheria del corso: Stuy, Suurvuer, Neeskens, Hulshoff, Blankenburg, Haan, Muherer, Cruyff, Keizer (autentica anima gemella di Johan). Tutti sono diventati campioni nelle mani di Michels, uno uscito dal tirocinio pratico allenando i dilettanti dello Jos: la sigla significa “Jeugd Ons Streven”, vale a dire "La gioventù è il nostro destino", e per questo venivano sbeffeggiati mettendo al posto di "Jeugd", il termine “Jenever” che in pratica è il nome della “Ginevra”, bevanda nazionale olandese, per far credere che più che di giocatori di calcio sì trattasse di gente cui piaceva alzare il gomito con frequenza. Si, ma L’Ajax e soprattutto il De Meer? lo Stadion De Meer? Va detto per correttezza cronologica che all’anagrafe di Amsterdam, l’Ajax nasce la mattina del 18 marzo del 1900 al tavolo di un caffè, l’Oost Indie, in onore con buona probabilità dei rigogliosi commerci, da e per le Indie, che arricchirono la corona olandese. Tre giovanotti baffuti d’ufficio, furono i fondatori: Floris Stempel, Han Dade, Carel Reeser. Idee chiare e un nome, che unisse la città agli studi classici: Amsterdamsche Football Club Ajax. E Ajax da Aiace Telamonio, eroe omerico. Occorsero 17 anni affinché in vetrina si potesse lucidare il primo titolo nazionale, ma robetta in fondo, cianfrusaglia ancora di pionieri polverosi. Casomai oh, lasciate perdere quel grossolano e falsissimo soprannome di “lancieri” inventato da un giornalista italiano, nonostante personalmente la ritengo battaglia ormai persa, mai io ci provo lo stesso e ve lo faccio presente. Il De Meer? Ci siamo, o quasi. Dopo i primi vagiti, dopo il cosiddetto “Het Houten Stadion”, lo stadio di legno, nel 1928 iniziarono i lavori per la realizzazione di un nuovo impianto, più a valle del vecchio Watergraafsmeer. La costruzione vera e propria iniziò nel 1934. Il nuovo stadio e i due campi di allenamento si trovavano in mezzo al verde, sul Middenweg, nel luogo dove precedentemente sorgeva la fattoria Voorland, da cui prese il nome il complesso sportivo. L'architetto e membro del club Daan Roodenburgh fornirà il progetto. Il De Telegraaf scrisse così nel gennaio 1934: “La tribuna coperta, è costruita con il retro rivolto a sud-ovest, in modo che le persone siano solitamente riparate dal sole basso e dai venti freddi, è la caratteristica principale dell'edificio dell'architetto Roodenburgh, che, a giudicare dai disegni, è davvero uno stadio colorato e accogliente”. Fatta eccezione per le tribune in cemento, lo stadio sarà stato costruito interamente in mattoni, nello stile sobrio della Scuola dell'Aia. Delle quattro tribune inizialmente era coperta solo quella d'onore. Nel 1965 venne rivestito anche l'altro lato lungo; quella tribuna prese il nome dall'ex allenatore Jack Reynolds. I lati lunghi erano tribune per sedersi, nei lati corti ci si stava in piedi ma naturalmente era quello il covo più frenetico e caldo dell’impianto. Negli anni '80 gli fu stato dato un tetto. La tribuna comprendeva gli spogliatoi, una palestra, un ristorante e la sala riunioni. Quella sezione dell'edificio era delimitata da due modeste torri. Negli angoli tra le tribune, Roodenburgh progettò quattro piccoli edifici di servizio, che potessero fungere da buffet e residenze di servizio. L'artista del vetro Willem Bogtman ha realizzò vetrate colorate per il ristorante; erano un dono di membri e donatori e raffiguravano vari sport. Inizialmente la capienza risultava intorno ai 22.000 spettatori. Successivamente dei lavori di ristrutturazione ne aumentarono la capacità a quasi 30000 poi drasticamente ridotta a 19.500 negli anni '80 per motivi di sicurezza e per le partite in cui era previsto un vasto pubblico, in genere match di coppe europee l'Ajax si trasferì in via continuativa nello Stadio Olimpico. Col tempo, verrà migliorato e ingrandito (ma non troppo), coperto, e dotato di impianto di illuminazione. Intorno, altri campi. Sui quali, generazione dopo generazione, crebbero parecchi talenti. Gli anni successivi sono quelli più gloriosi nella storia del club. Ma per gli incontri internazionali, davvero il De Meer è troppo piccolo, e l'Ajax gioca quelli interni nello Stadio Olimpico. Lo rifacciano qualche nome? Giusto così per ripasso: Johan Cruijff, Sjaak Swart, Piet Keizer, Gerrie Mühren, Ruud Krol, Johan Neeskens, Barry Hulshoff, Dick van Dijk, Arie Haan, Wim Suurbier, Horst Blankenburg, Velibor Vasović e Heinz Stuy. Altre Coppe dei Campioni, a Rotterdam contro l'Inter nel catino buio e tremebondo della "Vasca", e l’anno seguente a Belgrado, in un enorme Marakana davanti al Maresciallo Tito dove il biondino Johnny Rep di testa befferà Zoff in apertura chiudendo di fatto la contesa e siamo già nell'era Stefan Kovacs perché a Barcellona non ci pensarono troppo a portare Michels al Camp Nou così come faranno con Johan. L' Ajax vivrà successivamente anni decisamente magri sino a quando tornò il divino. Tuttavia scordatevi quell' Ajax dirà subito Cruijff, quello è morto. Poche idee, ma chiare le ha sempre avute il "Grande Scorbutico" dalla perenne paglia in bocca. "Il calcio è disciplina- tira dritto. Bisogna che i giovani si divertano. Solo lo spettacolo può riportare la gente negli stadi e combattere la violenza". E i giovani lo seguirono con entusiasmo: non c'erano molti soldi e i migliori venivano regolarmente sottratti da squadre emergenti tipo il PSV ma arrivò comunque la Coppa delle Coppe dell'87 e in biancorosso passarono qualche paia di giovanotti in gamba.. Van Basten, Rijkaard, Bosman, Winter, Witschge. Ma era solo un fuoco di paglia, almeno fino al trionfo in Champions del 1995 (guizzo del gioiellino Patrick Kluivert in quel di Vienna e Milan battuto) che coinciderà pressappoco con la chiusura del De Meer (28 aprile 1996) e l’inaugurazione della nuova Arena. Un incendio pensò a spazzare via gli ultimi ferri contorti. Ora però in conclusione dobbiamo fare una cosa: toglietevi dalla testa la rete (quella regolare) segnata da Diego Maradona all’Azteca contro gli inglesi, e ditemi, così a braccio, senza pensarci troppo quali sono stati i due goal più belli nella storia del calcio dove per belli non intendo solo il gesto ma anche crismi di estetica da rivoluzione del gusto. Vi siete mai chiesti per quale ragione l’arte olandese del XVII secolo attira irresistibilmente l’attenzione non solo del pubblico delle mostre e dei musei, ma anche di scrittori come Tracy Chevalier (La ragazza con l’orecchino di perla, che racconta la nascita dell’omonimo quadro di Vermeer), Jessie Burton (Il miniaturista, ambientato nella Amsterdam del Secolo d’oro) e Donna Tartt (Il cardellino, storia che si svolge attorno al quadretto con un uccellino dipinto da Carel Fabritius), o dello stesso Marcel Proust che riteneva la Veduta di Delft di Vermeer “il quadro più bello del mondo”, al punto da inserirne una descrizione in uno dei volumi della Recherche. Proust vedeva in quel paesaggio, in quel modo di dipingere, un modello di “scrittura”, e fa dire a un suo personaggio, lo scrittore Bergotte: “È così che avrei dovuto scrivere”. Ecco, detto ciò non ho dubbi, Johan Cruijff il 6 dicembre 1981 in Ajax -Harleem e Marco Van Basten il 9 novembre 1986 in Ajax-Den Bosch. Due prodezze senza senso, un delizioso pallonetto dall’limite e una rovesciata sublime. Entrambi al De Meer, stessa porta. Andate a rivederli non ve né pentirete. Oggi il De Meer è diventato quartiere residenziale fatto di condomini, piazzette e vie, dove spiccano i nomi dell’epopea ajacide, il tutto attratto come un enorme black hole verso un punto esatto composto da cerchi concentrici che diminuiscono via via il loro raggio fino a quel semi pallone di cemento che spunta laddove un tempo era collocato il centrocampo gessato del vecchio, indimenticabile stadio.