mercoledì 8 novembre 2023

CAMPIONI IN PUNTA DI DITO





Ah, c’è questo brutto intervento di McLintock su Rocastle, sicuramente un fallo da espulsione…”. “Non era così brutto, sembrava brutto, lo ammetto, ho sbagliato tempo non era intenzionale…”. “Balle, allora, punizione dal limite per l’Arsenal ’89 e Davies si incarica del tiro e goal! La situazione è Arsenal del 1989 4, Arsenal del 1971 0, credo che il povero Bob Wilson ci resterà piuttosto male…”. “Ehi quelli non batterebbero mai una squadra così per 4-0 a Subbuteo, e che sono io una frana…”. “Potevi scegliere di essere un’altra squadra, chi altro c’è che in trasferta gioca con la maglia gialloblù?”. “l’Everton”. “Allora fai l’Everton”. “Ok però ricominciamo dall’inizio, non posso ricominciare fingendo che John Radford sia Joe Royle, altrimenti schizzo… ripartiamo da capo 0-0…”. “Va bene ricominciamo.” 

Un estratto di Fever Pitch, dove Paul (Colin Firth) e Steve (Mark Strong), i due amici tifosissimi dell’Arsenal, si sfidano in un’utopica partita di Subbuteo nella luce diafana di una mansarda di Islington. La mia generazione ha davvero vissuto una vita in punta di dito e la colpa, come sempre, o quasi sempre, è degli inglesi. Non saprei dire cosa provai la mattina di Natale del 1983 alla vista di quella scatola posta sotto l’albero, e inutilmente confezionata con una carta da regalo piena di stelline da firmamento. Da ragazzini ci gareggiavamo con intensità ancestrale osservata con supremo sprezzo, fatto di risolini di scherno, dalle nostre amiche allibite da tanto ritardo nello sviluppo ormonale. Dal punto di vista sensoriale l’accosterei alla prima volta che sono entrato a Wembley, al primo concerto visto dal vivo dei Metallica schiuso dagli accordi progressivi di Unforgiven, o al primo bacio. Anzi no, al primo bacio no, robetta scialba e priva di lingua, vi bastino le altre analogie. Alla fine mi fu promesso il Subbuteo per il Natale a venire con il solito prestabilito, piratesco, ricatto del “lo avrai se vai bene a scuola”Tutto filò alla perfezione, un po’ perché a scuola onestamente non faticavo molto, un po’ perché avevo la netta sensazione che il dono anche grazie a triangolazioni fra nonni e parenti stretti sarebbe arrivato a prescindere. La confezione base dell’epoca costava circa cinquantamila lire. Oh, sia chiaro, soldi spesi benissimo: io personalmente ci giocavo per giornate intere, da solo o in compagnia, ma direi preferibilmente da solo, e mi ero inventato tutta una regolamentazione apposita per questa tipologia di incontri in solitaria. Nei disincantati anni Ottanta dove tutto era un inno alla leggerezza, potevi scegliere la tua squadra da una apposita lista; ciò nondimeno, in seguito, Subbuteo mise a punto quello che divenne il metodo di opzione preferito da tutti gli appassionati ossia il tabellone dei club con i numeri di referenza. E così, insieme al poster di Paolo Rossi e di Kirk Hammett, comparve in camera mia il manifesto del Subbuteo che, bontà sua, poteva dirsi elaborato in modo migliore di quello di Marx ed Engels, superando qualsivoglia patto o confine sociale, culturale e geografico. Il catalogo delle squadre era un tomo da biblioteca nazionale che tutti conoscevamo e recitavamo a memoria come una preghiera laica. Imparavi per esempio che il Den Haag era un team olandese e non una marca di caffè, oppure che il Motherwell non era il nome di un tabacco da pipa ma di una nobilissima squadra scozzese. Detto questo mi pare giunto il momento di andare alle origini del gioco; Inghilterra. Immaginate la bucolica campagna inglese del Kent nel secondo dopoguerra, la ritrovata serenità sotto il solito cielo basso e plumbeo, i cottage con il tetto di paglia, le sale da tè tirate a lucido, i negozietti di antiquariato in puro stile Miss Marple, i pub col camino acceso perfino in piena estate, piccole volpi, usignoli, il silenzio di antiche cattedrali nascoste da querce secolariEcco, in tutta questa amenità, dove al Signore effettivamente è scappata un pochino la mano, si muoveva lui, giovanotto longilineo, stempiato, un cravattino a far capolino dal tipico golf con lo scollo a V, giacca e pantaloni in Tweed su stivaletti di gomma, armato di binocolo, macchina fotografica e fischietto da richiamo. Si chiamava Peter Adolph, abitava nel villaggio di Tunbridge Weels e di professione faceva l’impiegato all’ufficio pensioni. La sua passione? L’ornitologia. In realtà a dirla tutta Peter era nativo di Brighton, per esattezza anagrafica 7 dicembre 1916, e fin dall’infanzia non ebbe una vita facile. Rimasto orfano di padre nel 1930 si deve trasferire a Chiswich, nell’immediata periferia londinese, insieme alla madre. Terminati gli studi inizierà a lavorare come contabile presso la Vestey Brothers, un’impresa produttrice di carne in scatola tuttora esistente. Allo scoppio delle ostilità, il 23enne verrà arruolato nell’aviazione svolgendo servizio nei magazzini della RAF e risparmiandosi in tal modo dal partecipare attivamente ai combattimenti. All’epilogo del conflitto rientrò a vivere con la madre trasferendosi nel suddetto caseggiato. Un giorno, mentre si trovava negli Stati Uniti, assorbito dalla ricerca di uova di qualche raro uccello, il postino della Royal Mail gli invade testualmente la casa di una quantità enorme di posta. Adolph, visibilmente incredulo, tornò di corsa. Ma cosa era successo? Fermi, facciamo un doveroso passo indietro. La leggenda vuole le prime miniature di calciatori create dai marinai inglesi all’inizio degli anni ‘20. Appassionati di calcio ma con poco tempo libero a disposizione, durante i viaggi, decidono di portare fra gli oceani le emozioni delle sfide calcistiche plasmando con il piombo sagome di calciatori che giocano con una pallina delle dimensioni di quella del Ping-pong. Il salto di qualità avvenne nel 1925, sempre in Gran Bretagna, quando prenderà fama il “New Footy”, un gioco creato a Liverpool da tale William Lane Keeling per far divertire i suoi due figli David e Donald. Nel 1929 Keeling creerà un’azienda familiare, la “NewFooty Co.” gestita in maniera assolutamente casareccia con vendite effettuate per corrispondenza. Trattasi di figure di carta laccata che riproducono le squadre inglesi più famose del periodo incollate ad una base in piombo sul genere di quelle dei soldatini. La pallina era formata da due pezzi incastrati l’uno nell’altro. Un errore, a posteriori, fu quello di non registrare il brevetto di uno svago che regnerà incontrastato almeno fino alla fine della guerra. E allora dopo le ristrettezze e i lutti, Peter Adolph si ingegnò nell’inventare un gioco da tavolo di stampo calcistico che inizialmente avrebbe dovuto essere chiamato con il nome abbastanza banale di “the hobby” ma poiché quel nome non è registrabile, da esperto ornitologo, ottiene la denominazione della sua idea dal suo amore per gli uccelli e nello specifico per il falco lodolaio il cui termine scientifico (dal corrispondente latino) è falco Subbuteo (hobby hawk in inglese). Il motivo? La capacità del volatile di colpire la preda in modo preciso e veloce. Una maniera arguta per delineare le caratteristiche pratiche del divertimento che si apprestava a sviluppare. Adolph non solo nomina Subbuteo la sua ditta ma usa la testa del falco anche per il logo della stessa. In principio, scusate il riferimento biblico, il Subbuteo è una semplice scatoletta contenente due fogli di cartoncino smaltato dove erano stampati i giocatori da dover ritagliare. A ciò andavano aggiunte 20 piccole basi malleabili di “ometti” montati su una sorta di bottone bilanciato e appesantito da una rondella piombata semisferica, due basi rettangolari per i portieri con un’asta in metallo atta al loro controllo e una sfera di plastica scura o bianca sul modello dei favolosi palloni "mitre" usati nella Football League. Le porte sono da assemblare con del filo di ferro e la rete fatta anch’essa in cartone rigido. Quello che sarebbe stato peculiare successivamente, vale a dire il manto verde, non c’era ancora e mister Adolph fornirà in sua assenza un gessetto con cui tracciare le apposite righe sulle coperte di lana verdastre distribuite gratuitamente dall’esercito di sua maestà. Il concetto base del Subbuteo assomiglia molto al NewFooty: gli omini, a colpi di dito, vengono spinti sul campo con l’obiettivo di “scontrare” il pallone indirizzandolo verso la porta dell’avversario. Tuttavia, nel 1946, il progetto risulta ancora piuttosto empirico. Ma Peter Adolph non si perde d’animo e pochi mesi dopo il cerchio si chiude con la creazione, nella località, di un fecondo centro di produzione che debellerà la concorrenza del Newfooty ponendo le condizioni per il clamoroso successo degli anni ’60. Il tutto ottenuto con pochissima pubblicità, qualche testimonial occasionale (Stanley Matthews e Bobby Charlton) e tanto passaparola. Il Subbuteo incontra così una richiesta di massa e in migliaia di famiglie cominciano a decorare a mano gli idoli in scala dei propri club del cuore. Va detto che quei giovani degli anni quaranta sarebbero stati la prima generazione della storia a sperimentare, senza sensi di colpa, il gioco inteso non più come tempo rubato al sostentamento sociale ma meramente come spazio di divertimento libero. Il successo di vendite sarà eclatante e l’azienda cominciò ad offrire ai propri clienti una vasta gamma di accessori e attraversata la Manica tracimerà sul continente. Si poteva costruire uno stadio, riempirlo di spettatori, installare riflettori, il tabellone con lo “scoreboard”, appendere spazi pubblicitari e addirittura far presenziare i reali. Ognuno si ingegna a seconda dell’impianto ideale: da Andrea c’era San Siro, nella cameretta di Giulio risiedeva la Bombonera, da Leo giocavi al Maracana, a casa mia nei fasti di Wembley perché godevo di un discreto tavolone in noce e non costringevo i miei ospiti a estenuanti partite in ginocchio sulla moquette o sui tappeti. Ci saranno numerosi allenatori di calcio che utilizzarono il Subbuteo per illustrare nello spogliatoio le tattiche al posto delle vecchie lavagne. Arriviamo al 29 ottobre 1968, quando Peter Adolph accettò l’offerta d’acquisto della Subbuteo Sport Games da parte del gigante dei giochi Waddington, noto soprattutto per il Monopoli; la vendita gli frutterà circa 250.000 sterline. Guarda caso la nazione in cui le distribuzioni vanno meglio è di gran lunga l’Italia grazie all’agente di commercio genovese Edilio Parodi che aveva adocchiato il Subbuteo su una pubblicità di una rivista britannica di giocattoli. Nonostante la cessione, nominalmente, Peter Adolph è ancora la persona di massimo riferimento del Subbuteo. In una lettera indirizzata alla “Waddington” afferma che “la direzione dipende dalla pianificazione di coloro che intuitivamente colgono e comprendono i bisogni e i desideri dei ragazzi”. Altra immagine che fa il giro del mondo è il campo da gioco battezzato "Stadium of Fingers" dal cultore Stephen Moreton, popolato da oltre 10.000 spettatori dipinti a mano con dedizione certosina. Adolph non crede che l’azienda sia in grado di individuare le esigenze dei clienti e così, non appagato dalla risposta, il 30 settembre 1970 decise di dimettersi completamente da ogni incarico. Subbuteo “perde” così il suo padre fondatore ma continua per la sua strada introducendo dei cambiamenti. Nel 1977 la Subbuteo Sport Games Ltd automatizzerà la produzione creando giocatori assemblati e dipinti da specifici macchinari industriali. Nascono così i cosiddetti zombie: giocatori rigidi, senza vita ma con pose e dettagli umanissimi, piantati sul supporto con una visibile stecchetta verticale sotto gli scarpini. Intanto spopola la foto in bianco e nero di Andrea Piccaluga (campione del mondo juniores ’78) che con lo scudetto tricolore sul petto si renderà protagonista di una sensazionale tournée in Inghilterra (vincendo tutte le 400 partite disputate e subendo solo 4 gol) diventando subito cult. L’Astropitch intanto diventerà la superficie più apprezzata nei principali tornei. Il gioco si dimostra più scorrevole e realistico che sui vecchi panni e i giocatori possono effettuare lanci lunghi con maggiore precisione. Per permettere colpi decisamente dritti fu ridotta la curvatura del basamento che diviene così più distesa e rende di fatto più facile alzare la palla. A metà degli anni Novanta si verificano due eventi importanti. Il primo sarà la fabbricazione di tre figure nere per ciascuna squadra, il secondo la vendita della Waddington al colosso americano Hasbro. Il Subbuteo stava imboccando la sua parabola discendente. L’Hasbro, per contenere i costi, ridusse il catalogo delle squadre a poco più di quaranta. Così facendo recide alla radice la pianta di quel sentimento finemente sintetizzato dalla band inglese Half Man Half Biscuit, attraverso il singolo del 1989 "All I want for Christmas is a Dukla Prague away kit" (tutto quello che voglio per Natale è il Dukla Praga con la maglia da trasferta). In Italia Parodi cercò di porre rimedio alla chiusura delle relazioni con Hasbro e per dimostrare la propria professionalità decide di concepire Zeugo, tentando di ridare al gioco la vitalità perduta, introducendo tra le novità quella di utilizzare delle basi “piatte”. Ovviamente la “controriforma parodiana” non esalterà tutti i dediti al Subbuteo, i quali si divideranno in varie branche di pensiero filosofico. Il dato certo è che negli ultimi anni il Subbuteo ha conosciuto una sorprendente rivitalizzazione. Un gioco destinato a discariche o nella migliore delle ipotesi a soffitte polverose sta conoscendo una seconda giovinezza. Un po’ come assaggiare una madeleine di Proust riaprendo spiragli sui ricordi innescati da quei colpetti in punta di dito, perpetuando, da dogmatici adepti, la tradizione del Subbuteo mentre il mondo, spietatamente, fila in direzione ostinata e contraria. Avrei voluto chiudere con il suono onomatopeico del falco lodolaio ma non sono riuscito a trovarlo. Comunque sia Thanks Mr. Adolph, naturalmente anche da parte di Steve e Paul.






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