martedì 19 marzo 2024

ACQUARELLO D'UDINESE


Chissà perché, quando scriviamo la parola estate abbiamo sempre la tentazione di associarla all’aggettivo “torrida”, forse pensiamo di agghindarla, di dargli un maggiore senso di compiutezza lessicale, oppure lo facciamo solamente per un tocco di enfasi da modesti scribacchini della domenica, e poi, in fondo, chi se lo ricorda se in quel 1983 ci fu davvero un’estate calda. Certamente giornali, radio e televisione ebbero le loro linee di febbre costipati dal “caso Tortora” e dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, dopodiché un giorno, in Piazza XX Settembre a Udine, qualcuno dei presenti all’intemerata del presidente bianconero Lamberto Mazza, alzò in aria un cartello fra il goliardico e il minaccioso: “O Zico o Austria”. Insomma, il meraviglioso campione brasiliano, clamorosamente, stava per materializzarsi lassù, in quel puntino di frico e resina compreso fra Venezia e la Jugoslavia, fatto sobbalzare da un violento terremoto ma che adesso aveva una voglia matta di scuotersi con la samba. Dalla spiaggia di Copacabana agli argini pietrosi del Tagliamento, dai centomila invasati del Maracanã alle tribune mitteleuropee del Friuli, appare rovescio di francobollo, vorticoso ascensore di stile e stelle e invece, vivaddio, le campane della bellezza possono suonare in ogni angolo di mondo, dondolando l’incantesimo ruffiano di una palla che girava in avanti e scendeva a una velocità incredibile. Quando Zico, con la sua folta chioma castana arrivò a Udine, gli fece posto il fantasioso Ivica Suriak che si portava dietro la leggenda delle punizioni calciate durante un allenamento con la barriera mobile, colpendo per cinque volte consecutive la traversa, e alla fine dovette intervenire il magazzinere per la caparbia ostinazione dello spalatino sul fatto di tirare verso una porta leggermente non regolamentare e naturalmente dimostrò di avere ragione, costringendo lo staff dell'Udinese a risistemare i centimetri in difetto. Zico ad ogni modo non ebbe problemi a migliorare i colpi del suo predecessore. Arthur Antunes Coimbra detto “Zico” o anche “Galinho” in quanto l’ultimo aggregato di 5 fratelli dove lui era il più giovane e il più gracile di tutti ma, corpo di mille balene, mutuando romanzi di bucanieri nella tempesta, questo ragazzino con il pallone fra i piedi mostrava un talento cristallino che brillava nelle strade polverose e complicate del quartiere di Quintino, suburbio di empiriche casupole in qualche maniera fagocitate da mamma Rio de Janeiro. “Udinese? Udinese. Di dove? di Udine”. Calma ci arriviamo. Se fosse un film l’arrivo in Italia di Zico sarebbe sicuramente un film di controspionaggio dove dietro la macchina da presa, avremo potuto trovare registi tipo Sergio Sollima, Alberto De Martino, Umberto Lenzi, o Sergio Greco che dettero vita a una sfilza infinita di “prefissi”: spie e affaristi per tutti i gusti e tutte le missioni, dentro un fantastico immaginario pop, costruito in pochi mesi, scritto in poche settimane, eppure folle, creativo e ricco di idee originali. Nella scena d'apertura di Zico ci sarebbero senz’altro in primo piano, con un sottofondo di musica popolare brasiliana, percussioni e ukulele, anzi facciamo "acquarello" di Toqhino uscita giusto quell'anno, due valigie di cuoio marrone piazzate sopra il tavolo del presidente del Flamengo Antônio Augusto Dunshee de Abranches. Al loro interno contengono 2.1 miliardi di cruzeiros, che serviranno per pagare il club carioca e portare Zico all’Udinese. Le ha portate Franco dal Cin, il direttore Generale dell’Udinese. E qui si torna a capo quando Dal Cin, quarantenne lungo e scaltro risponderà serafico alla curiosità icastica del suo interlocutore brasiliano: “Udinese? Udinese. Di dove? di Udine”. Oh, non ci scordiamo di una cosa appena menzionata in incipit: nel 1976 il Friuli gridò la sua rabbia per un sisma devastante, ma senza sprecare un secondo più del necessario per le lacrime, si armava di silenzioso eroismo. C’era ancora molto da ricostruire, talvolta persino a mani nude, quella sorta di paradiso perduto, tuttavia sette anni dopo l’apertura della voragine, con una manovra al limite della legalità e con la consueta grazia elargita dal convoglio corpulento e generoso della Prima Repubblica a Udine arrivava veramente Zico. Sia chiaro, nessun mago Silvan, il trucchetto finanziario ed economico funzionò. La storia cominciò due anni prima. Nel 1981 Zico venne a Udine per una gara amichevole il cui incasso andò alle famiglie senzatetto. Capitò in una giornata fredda e uggiosa che purtroppo aveva richiamato poca gente ma sarà in quella serata che il presidente Lamberto Mazza, tenutario della ditta Zanussi e l’amico Giulio Gori, si lasciarono andare al pensiero stupendo che siccome nasce un poco strisciante s’insinuerà nelle pieghe del contratto in scadenza di Zico. Dagli uffici del Maracanã mica riattaccano la cornetta, lo scherzo, se di scherzo si trattasse, appariva più serio del previsto e presentano il conto. Quattro milioni di dollari. I lumini in suffragio a Ermacora e Fortunato, patroni di Udine, avvampano nel biascicare di preghiere laiche. Esisteva un problema. Nonostante la disponibilità donata dalla vendita di elettrodomestici Zanussi, la spesa effigiava un numero di zeri imprensentabili nel bilancio da rendere alla federazione gestita nell'occasione dal signor Sordillo, e allora occorse dividere Zico in due pezzi. No, no, nemmeno in questo caso alcun “sim sala bin”, figurarsi, i friuliani sono gente intelligente, operosa, e soprattutto pragmatica. Una parte del calciatore venne fatta acquistare da una società che gli avrebbe curato i diritti d’immagine chiamata “Groupings” (rimborsata successivamente) mentre l’Udinese in pratica comprerà la prestazione del giocatore, l’ingaggio da un miliardo giunse dai 300 milioni dalla Agfa Color, 200 da sponsor vari e 500 da esclusive che Dal Cin vendette alle rampanti reti di Berlusconi. Il CONI autorizzerà il trasferimento, ed eccolo Zico, testa strepitosa abile a leggere l’attimo che gli altri vedevano con ritardo imperdonabile. Zico la fidanzata settembrina novella, condannata alla solitudine della prima della classe, sotto l’acqua a scrosci del nord est, in mezzo  a schiene, stinchi e gomiti di difensori ottusi. A guidare quell’Udinese in panchina c'è il corpulento Enzo Ferrari, uno che una volta con la maglia del Palermo segnò una rete all’Olimpico da centrocampo aiutato dal vento di tramontana. E gli addetti ai lavori, seppure con le dovute cautele, non negarono qualcosa di più della salvezza al gruppo bianconero vestito con una maglia inconfondibile a merlo guelfo palindromo. Arrivarono sesti. D’altra parte, la squadra appariva abbastanza completa, insieme a Zico, giocava il suo ferreo compagno di nazionale Edinho, l’ancora spinoso barone Franco Causio e il tamburino sardo Pietro Paolo Virdis. Alla prima giornata in trasferta a Marassi contro il Genoa la realtà parve dar ragione ai sogni. Zico ha già segnato il suo primo goal, quello del due a zero, dopo aver mandato "a spasso" con una finta assassina il suo marcatore, poi una doppietta di Virdis aveva tolto ogni fiducia ai grifoni. Mel finale la partita stava assumendo i ritmi di un allenamento e in campo non si aspetta altro che il triplice fischio, si vivacchia in una specie di "garbage time" tutto cestistico. L'arbitro fischierà invece una punizione dal limite a favore dell'Udinese e in quel momento tutto lo stadio incredibilmente inizierà ad invocare a gran voce: "Zico, Zico"; il brasiliano raccolse l'invito calciando con il consueto garbo la palla sopra la barriera rossoblù, direttamente nel sette della porta di un immobile Martina, fissando il definitivo 0-5 e inaugurando un rituale che si sarebbe ripetuto più volte nell'arco di quella stagione, con i telecronisti che interrompevano i colleghi e s'inserivano in diretta ogni volta che Zico stava per calciare una punizione dal limite, come fosse un calcio di rigore. Ah, la gradinata Nord salutò con un boato di goduria la marcatura. Zico ha attraversato il calcio italiano come una sorta di oggetto affascinante quanto inafferrabile, 19 reti in 24 presenze nella stagione del debutto. Poi arrivarono complicazioni, un brutto stiramento, un’accusa di frode di valuta, in seguito dichiarata infondata, e lentamente Zico se ne andò, sfiorendo grigio, come l’odore di cane randagio, nel baluginio di un istante, quasi d’un lume da Luna Park che si spenga fra una garza di nebbia friulana.




martedì 12 marzo 2024

ULTIMO TANGO A PARIGI

 

È quasi giorno. È l’alba del 29 maggio 1975. Una figura illuminata solo dal bagliore fluorescente dei lampioni cammina lungo lo spartitraffico di una strada parigina. Ha in mano una bottiglia vuota di champagne che tiene stretta al suo fianco come fosse un’inseparabile appendice. L’amica di una notte che ha provato invano a consolarlo. Si chiama Jimmy Armfield, ed è il manager del Leeds United. Non riusciva a dormire. A dire il vero non aveva tentato nemmeno di farlo. Chiudere gli occhi avrebbe significato solo una cosa. Avrebbe rivisto tutto. Di nuovo. E sarebbe stato troppo doloroso. “Non sapevo dove andare, e che cosa fare” – disse qualche tempo dopo. “Non ero nemmeno ubriaco, avevo solo bisogno di stare lontano da tutti, almeno per qualche ora”. 

La causa sono i postumi della sera precedente, i momenti che gli hanno fatto male, divisi fra errori, ingiustizie e sfortuna. Prima di uscire ha lasciato un sacchetto sul tavolo della camera d’albergo. Dentro ci sono attorcigliate come serpenti velenosi, una ventina di medaglie d’argento che nessuno quella sera volle accettare serenamente. “Se non fosse stato per me” – racconta, “sarebbero rimaste tutte sulle panche dello spogliatoio del Parco dei Principi; poi nei giorni successivi con più calma le ho riconsegnate alla squadra”. 

A Leeds, dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima, ebbene a Leeds il sogno di diventare campioni d’Europa era finito paradossalmente in una mite serata francese di primavera inoltrata, dopo due schiaffi rimediati dai tedeschi del Bayern, per niente ammaliati dalle maglie bianche con la rosa dello Yorkshire. 

E come se non bastasse l’umiliazione della sconfitta, ci pensarono i tifosi a rovinare ancora di più quella partita. Certo, non tutti i 15.000 sostenitori giunti dallo Yorkshire si rivelarono protagonisti di nefandezze. Solo una piccola parte maniacale di loro. Ma fu sufficiente per seminare il panico, durante e dopo l’incontro. La prima finale europea macchiata da gravi disordini. Inutile girarci attorno. Il Leeds diventò così il primo club inglese a essere processato e condannato per il comportamento violento dei propri fans, con la conseguente sentenza che prevedeva l’esclusione dei bianchi di Elland Road dalle competizioni continentali per cinque lunghi anni. Ci sarebbero anche delle attenuanti a essere sinceri.. 

Ma accampare scuse per questo comportamento non avrebbe molto senso o significato. Certo è, comunque, che l’arbitro della finale, un certo Michel Kitabdjian e i suoi collaboratori ci misero del loro per scaldare animi già fin troppo eccitati. Non era previsto che finisse in quel modo. Avrebbe dovuto essere il giorno più bello nella storia del Leeds United. Il riconoscimento, il coronamento di dodici anni di protagonismo ad alto livello dopo 87 partite di calcio europeo. Tuttavia il più famoso dei “runners-up” inglesi, sarebbe ancora una volta stato destinato al ruolo di damigella d’onore. A Leeds la stagione 1974/75 era cominciata con le abbondanti piogge di sempre e con la razionalizzazione dell’energia elettrica voluta dalla severa austerity del Partito Conservatore. Ma tra i tagli energetici e le lotte sindacali, il football avrebbe dovuto essere il solito gradito diversivo, soprattutto per la comunità di minatori della contea che non se la passava esattamente bene.

Innanzitutto, fu l’anno dell’addio di Don Revie. Colui che condusse i “Peacocks” a un invidiabile striscia di successi. Nell’estate del 1974 fu convocato dai vertici della federazione per assumere il ruolo di allenatore della nazionale inglese. Gli articoli sul candidato alla successione dominarono la stampa sportiva. Poi quando il nome di Brian Clough rimbombò per Kirgate e The Calls diventando certezza, la notizia scioccherà un po’ tutti. Adesso non ci soffermeremo troppo su quei famosi 44 giorni. Basterà dire, solo per rinfrescare qualche memoria, che Clough arrivava dal Derby County dove aveva avuto grande successo, ma dove troppo spesso si era lasciato andare a critiche pesanti sullo stile intransigente del Leeds, tant’è che non appena arrivato pronunciò il celebre discorso in cui invitava tutti i giocatori che avevano vinto qualcosa con Revie a rinunciare a quegli allori perché prodotti da vittorie ingiuste. 

Apriti cielo. Il suo tentativo messianico andò fallito e dopo un solo successo in sette partite se ne andò, restando per la statistica uno dei peggiori allenatori della storia di questo club. Ed ecco allora arrivare al suo posto Jimmy Armfield. Con lui le cose in campionato non furono comunque eccelse. Non scordiamoci che il Leeds partiva da campione in carica. Alla fine, si trattò di archiviare un nono posto, frutto di sedici vittorie, tredici pareggi e altrettante sconfitte. In FA Cup invece il cammino dei bianchi si interruppe a un passo dalle semifinali, dopo tre estenuanti partite contro l’Ipswich Town terminate nell’ultima drammatica gara giocata al Filbert Street di Leicester, dove i Tractor Boys si imposero per 3-2. Il cammino europeo sembrò potesse riservare però gradite sorprese al gruppo di Armfield. I primi tre ostacoli (nell’ordine Zurigo, Ujpest, e Anderlecht) furono spazzati via con disarmante facilità, anche grazie alla particolare vena realizzativa delle due forbici da cucito Allan Clarke e Peter Lorimer. 

A fine torneo il loro tabellino personale parlerà di quattro centri a testa. L’ostacolo più complicato si materializzò senza dubbio in semifinale, vale a dire il Barcellona dei tulipani Johan Cruijff e Johan Neeskens. Il 9 aprile 1975 si giocò la prima partita a Elland Road davanti a oltre 50.000 spettatori. Il giorno precedente la gara, i residenti di Thackley, pugno di case a nord est di Bradford, dove il Barcellona aveva stabilito la sede del ritiro, restarono incuriositi e affascinati dai metodi di Rinus Michels, allenatore olandese dei blaugrana, che guidò una sessione di allenamento di “calcio totale” della squadra catalana. Una squadra che fino a quel momento non aveva concesso un solo goal agli avversari nella competizione. A infrangere il record ci pensò il capitano di mille battaglie Billy Bremner che dopo aver ricevuto un pallone invitante dalla testa di Jordan sparò un autentico missile alle spalle di Salvador Sadurnì per la gioia incontenibile del pubblico di casa. Abbiamo nominato Jordan, all’anagrafe Joseph Jordan. Qualche tifoso italiano di una certa età non può dimenticarlo. Scozzese di Cleland, altissimo, sgraziato, a lui verrà associato uno dei soprannomi più icastici della storia del calcio: “lo squalo”. Fu coniato dopo una partita giocata con le riserve del Leeds dove, in uno scontro di gioco perse i due incisivi superiori. Naturalmente gli vennero applicate delle protesi, ma per motivi di sicurezza le lasciava in spogliatoio. In tal modo, questa menomazione, sul campo gli conferiva un aspetto poco rassicurante e ancora più goffo del normale, in quella che in lui sembrava un’eterna lotta più con l’equilibrio che con il pallone. Ad ogni modo un centravanti del suo tempo, con una discreta media realizzativa, rispettato e temuto dalle difese avversarie. 

Il Barcellona sotto di uno provò a reagire e i loro sforzi furono premiati nel secondo tempo quando, su una punizione dal limite dell’area Crijuff toccherà magistralmente la palla per Manuel Asensi che infilò la sfera a fil di palo beffando il portiere David Stewart non che riuscirà ad arrivarci: 1-1.  Quella notte si percepiva che il Leeds avrebbe vinto, c’era qualcosa nell’aria, qualcosa di magico. E chi meglio di “mister Leeds” avrebbe potuto realizzare l’impresa? Mister Leeds è Allan Clarke, detto anche “sniffer” per essere riuscito nella sua prima stagione ad annusare e siglare la bellezza di 26 reti. A undici minuti dal termine, in una mischia sotto porta, con la complicità del compagno Paul Reaney realizzerà il punto del 2-1. Una vittoria, certo, solo che a conti fatti in Spagna sarebbe stata complicata da difendere, quindi meglio attaccare, colpire appena possibile. E il cuscino su cui adagiarsi con una certa serenità lo troverà Peter Lorimer sfruttando un lancio del centrocampo per incunearsi in maniera letale nell’area di rigore del Barcellona. Non finirà lì, ci sarà ancora da soffrire e anche tanto. Parigi val bene una Messa diceva Enrico IV. Gli ultimi 20 minuti saranno snervanti. Pareggia di Manolo, poi Gordon McQueen verrà espulso e Bremner salverà sulla linea un tiro di Neeskens. Al triplice fischio fu un’autentica liberazione. 

Il Leeds andrà a giocarsi la finale della Coppa dei Campioni per la prima volta nella sua storia contro i tedeschi del Bayern Monaco detentori del trofeo. La squadra di Armfield ebbe un mese per preparare al meglio la partita più importante della loro vita. La First Division si era conclusa il 29 aprile. Dal canto loro i tedeschi invece dovettero correre fino al 14 giugno data dell’ultima giornata della Bundesliga. Era un vantaggio? Arrugginirsi in amichevoli con gli under 23 della Scozia e i modesti pedatori del Walsall, mentre i rossi di baviera tenevano un ritmo serrato? In più il Bayern era una signora squadra e molti dei loro giocatori freschi campioni del mondo. Qualche nome: Sepp Maier, Hans Schwarzenbeck, Franz Beckenbauer, Gerd Muller e Uli Hoeness. La sera del 28 maggio 1975 la voce chiara e calda di Alan Parry portò nelle case inglesi le emozioni del Parco dei Principi. “Questa è la notte del Leeds United, nella spettacolare cornice di uno degli stadi più moderni del mondo, la più grande notte per i club inglesi dal 1968”. La partita incomincerà mentre si alzavano nitidi i cori della gente arrivata dallo Yorkshire. Privo dello squalificato McQueen, Armfield decide di spostare in difesa il versatile Paul Madeley al fianco di Norman Hunter. 

Sarà una partita maschia, a tratti perfino eccessivamente dura. Il Leeds provò a prendere in mano il pallino del gioco, e dopo sette minuti Clarke viene steso da Beckenbauer in area di rigore. Sembrava un fallo piuttosto netto ma l’arbitro francese non fu dello stesso avviso e lasciò correre. Uno di quegli episodi che poteva non solo cambiare il volto alla partita, ma che contribuì ad alimentare le prime preoccupazioni sugli spalti. Alla fine del primo tempo il c.t. tedesco Dettmar Kramer poteva considerarsi un uomo felice, visto che, nei giorni precedenti la finale aveva più volte sottolineato il fatto, che se il Bayern avesse passato indenne la prima parte di gara poi le speranze di vittoria per i suoi, sarebbero cresciute in maniera esponenziale. Fu buon profeta ma ancora una volta la terna arbitrale ci mise del suo. Al 67′ Lorimer batte Maier con un tiro al volo, ma la rete è annullata per la posizione di fuorigioco di un giocatore del Leeds ritenuta attiva ai fini dell’azione. Polemiche, furiose, ma inutili. E qui praticamente il match si chiude e le gradinate in subbuglio sono vigilate da agenti antisommossa. Il Leeds aveva dominato per quasi settanta minuti e la beffa ovviamente era nell’aria. Prima Roth in contropiede porterà in vantaggio i bavaresi, poi a dieci dal termine Muller anticiperà la sbilanciata difesa dei bianchi depositando in rete un traversone rasoterra di Kappelmann. Fra i due goal, un’interruzione per cercare di placare la rabbia dei tifosi inglesi. Ma ormai la coppa "dalle grandi orecchie" aveva già preso la strada di Monaco. 

Una brutta sconfitta. La fine di un’epoca. Una farsa e una tragedia. E da contorno le sirene della polizia che squarciavano la notte di Parigi.



LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...