domenica 9 giugno 2024

THE GATE OF SHEL'S

 


Diciamolo, ci avete fracassato il cazzo con gli stadi nuovi tutti uguali. Ma qui siccome siamo a livelli straordinari di decadenza occorre partire da un’evocazione: “Wake up Dead Man”. Da Pop (U2) traccia 12.  Si vocifera in via ufficiosa che le prime strofe della canzone mister Paul David Hewson, in arte Bono, le abbia scritte su un tavolino dell’inossidabile Fagan’s nel quartiere dublinese di Drumcondra. Localino di quelli da meditazione, il Fagan’s; intarsi, bauletti in stile isola del tesoro, foto di scrittori, bancone in quercia, divanetti imbottiti, sgabelli con la seduta in pelle fissata da chiodi d’ottone, luci soffuse, pavimento a lisca di pesce e qualche delicata moquette nei punti giusti. Non ci sono i vetri istoriati e qualcosina di troppo moderno c’è, ma, oddio, alla fine sono peccati veniali e poi basta non farci troppo caso perché, quando ti arriva una Smithwicks e una fumante zuppa di funghi ti rianimi e a quel punto va preso per buono l’incipit. Dovrei parlare del gran momento dello Shelbourne FC ma siccome il suo amato Tolka Park è incastrato a Drumcondra dove anche Joyce si soffermò a fissare la vita che passava nei pressi del Royal Canal qualche divagazione stuzzica. In fondo di curiosità ce ne sarebbero, per esempio il fatto che una “stand” del vicino Croke Park è stata eretta con le macerie prodotte dai cannoni inglesi durante l’insurrezione del 1919. Va detto che lo Shelbourne, fondato nel 1895 nella zona di Ringsend da un certo James Rowan, senza peccare in fantasia prese il nome dalla Shelbourne House dove era stata allestita una raccolta fondi per consentire al club di acquistare l’equipaggiamento e pagare la quota di affiliazione alla lega. Squadra di spessore lo Shelbourne, la prima ad aver cucito i tre castelli cittadini sulla maglia e la seconda in fatto di trofei vinti in patria dietro solo allo Shamrock Rovers con cui ha condiviso lo stadio per diverso tempo. Il Tolka Park attuale è uno di quegli impianti a cui non è servito un minimo di lifting per nascondere la lanugine dell’età ed ogni gradone corroso può raccontare una storia. Al Tolka se dovete correre in bagno ce ne uno all’angolo con la scritta "Toilet" incisa a stampo sul legno e dentro troverete il "gabinetto" alla turca o con i piedoni, fate voi, e durante l’evacuazione fuori dalla piccola finestra sgangherata potrete notare ( se alzate la testa ) enormi gabbiani sui tetti degli edifici adiacenti allo stadio accompagnati dal vento salino mentre in un casotto annerito da un incendio hanno ricavato un serraglio di club shop chiuso da una saracinesca modello officina. Eppure qui hanno giocato la prima partita sotto i riflettori in terra irlandese e il Tolka ha avuto un ruolo ben oltre quello di calciare un pallone, vive nei cuori delle persone, è sempre stato un impianto che ha collegato le famiglie della zona attraverso generazioni, un luogo che ha anche un anima come si usa dire, qualcosa più di un terreno erboso e cemento, è una comunità. Insomma, non puoi non voler bene a qualcosa di così fatiscente e ingenuo, aspro se volete, eppure è proprio questo suo anacronismo deliberato a renderlo poetico. Mi pare chiaro sia nata anche un’associazione per salvarlo dalle insidie dei tremendi piani regolatori, il “Save The Tolka”. Negli anni ’60, sotto Gerry Doyle, lo Shelbourne costruì una delle squadre migliori di sempre andando a disputare gare di assoluto prestigio a livello europeo contro Barcellona, Atletico Madrid e Sporting Lisbona. In quel gruppo c’erano Tony Dunne (che vinse una Coppa dei Campioni con il Manchester United), Freddie Strahan, Christy Doyle e Tommy Carroll. Altro lustro da menzionare è quello dei ‘90 con in campo la leggenda Tony Sheridan detto “shero”, seguito dal gradito ritorno del ragazzo di Crumlin, Pat Scully, ingaggiato giovanissimo niente meno che dall’Arsenal di George Graham anche se non giocò mai in prima squadra e durante tutto il suo lungo periodo inglese finì per conquistare soltanto un trofeo minore a Wembley indossando la maglia dell’Huddersfield. Nel 2000 Scully firmerà per lo Shelbourne vincendo da capitano 3 Coppe d’Irlanda e un titolo nazionale insieme al cugino di Robbie Kean, Jason Byrne, Owen Heary e Wes Hoolahan che in seguito diventerà protagonista di un intero decennio del Norwich City. Finalmente, dopo anni di purgatorio, chissà per quale strana combinazione astrale le "Shel’s" sono in testa al campionato di Premier Divison e sicuramente qualcuno, aprendo le pagine sportive dell’Irish Indipendent, forse non ci crederà tornando a farsi una pinta schiumosa di Murphy’s, ma poi, camminando verso il cinereo cimitero monumentale di Glasnevin probabilmente gli tornerà in mente qualcosa di misterico e finalmente si lascerà convincere che "per tutti i diavoli" quel giornalista stavolta ha ragione, perché Seán Boyd e William Jarvis stanno davvero trascinando i "rossi" di Drumcondra verso un titolo che manca da ventidue anni. Alla prossima il nostro uomo dovrà comprare un biglietto per una delle quattro tribune, una più curiosa e diversa dell'altra.

martedì 4 giugno 2024

VENT'ANNI DOPO

 


Quando trafelato arrivai di corsa davanti alla bacheca dei programmi di reparto, il turno della settimana successiva era stato già affisso in maniera luterana e sembrava una sentenza inappellabile: 14-22 sabato compreso. Ed io, fatti i miei conti e debiti scongiuri, anelavo proprio a quel giorno. Una disdetta, un vaticinio. Biascicai qualcosa senza farmi notare e oggettivamente non erano parole contenute in libri sacri. Superata la prima fase d'ira non mi persi d’animo e incominciai con perizia diplomatica a chiedere a quasi tutti i colleghi che man mano incrociavo lungo i corridoi dell’azienda se gentilmente potevano invertire con me la turnazione ma pareva che quel maledetto sabato 5 giugno tutti fossero occupati a farsi giustamente i cazzi loro, ma cazzi grossi evidentemente, perché sondato il possibile non ci fu niente da fare. Bene, restava quindi un'unica condizione, un pochino vigliacca a dire il vero eppure indispensabile: darsi malato. E’ così quella mattina, in maniera "fantozziana", pur senza accenti svedesi o conche di rame, chiamai in ufficio esalando un filo di voce da oltretomba nella classica menzogna da mutuato: “scusate, non mi sento bene stasera non posso venire, mi dispiace spero di farcela per lunedì, eventualmente richiamo”. Tuttavia c’era un altro problema a stretto giro di vite. E si mi avessero visto? sospensione o licenziamento a quel punto avrebbero penzolato come una spada di Damocle sulla mia testa e le probabilità di essere notato da qualche "untore" bastardo erano terribilmente alte perché dove avevo intenzione di andare non era un eremo aggrappato ai boschi dell’alta Val di Merse o un crinale spazzato dal vento della Val d’Orcia bensì in un Palasport pieno zeppo di oltre 6000 persone. Insomma all’appuntamento con la storia, io, tifoso della Mens Sana dai tempi corruschi di George Bucci e Brett Vroman, non potevo mancare: Mens Sana Siena – Fortitudo Bologna gara 3 della serie finale per lo scudetto con match point incorporato. C’era stato un brutto ascensore con la freccia verso il basso negli anni ‘80, poi nel 1990 finalmente (o almeno) ecco il ritorno in A/2 con in panchina quell'omone livornese tutto d'un pezzo: “Dado” Lombardi. Oh, i novanta si aprirono con un uggioso “Up and Down” fra piano di sopra e piano di sotto, poi, dagli spogliatoi vedemmo uscire roba di qualità sublime tipo "limone" Lampley, autentica ombra sotto le plance, avemmo persino l'allucinazione collettiva di vedere in panca il troppo cartesiano Valerio Bianchini, poi il cerbiatto di Boston, Darren Daye e quel virginiano, consigliato al GM Minucci dall’allora procuratore Federico Buffa, di nome Sherron Mills, che disputò un ottima annata pur senza fare sfracelli e tutto sommato quelli timidi che in campo scaricavano adrenalina mi piacevano perché un pochino caratterialmente mi assomigliavano. Le cose si stabilizzarono fino a un crescendo che ci vide perdere, con recriminazioni, una finale di Coppa Italia con la Virtus Bologna targata Kinder a Forlì e vincere un indimenticabile Saporta a Lione nel 2002 con una squadra geniale guidata da un turco attualmente piuttosto famoso e in campo da stantuffi come il capitano Roberto Chiachig da Cividale del Friuli (a proposito giochicchia ancora), e dai due macedoni Vrbica Stefanov, educatissimo play, e il cecchino "Pete" Naumoski autentico talismano di Ataman quando lo scoglio spigoloso del Pamesa Valencia chiuse bene l'area. Trasferta clamorosa, in cui la squadra fu accompagnata da migliaia di tifosi, va detto abbastanza increduli di giocarsi improvvisamente una coppa europea, che avevano raggiunto il Palasport della città francese con i mezzi più disparati, io a bordo di un pulmino a 8 posti preso a noleggio da onorevole ditta e, ahinoi, riportato non in perfette condizioni al punto che il proprietario della concessionaria ci fece pagare un supplemento ma cosa vuoi, fummo ben lieti di tirar fuori qualche soldo in più tanto eravamo ancora carichi a molla da capirci poco e la bandierina biancoverde che avevo con me dall’ inizio del viaggio al ritorno adesso è amorevolmente rimpiegata in quattro dentro un cassetto di casa e lì sta perchè le reliquie si adorano ma non si toccano. E le Ramblas di Barcellona nel 2003? Altra seratina ragguardevole, altra ingroppata di chilometri, altri -“mi, oh te? e giù abbracci, seppure un quarto d’avvio tremendo congiunto all’esperienza di Treviso (e qualche piedino poco educato alla riga) fermarono ogni velleità. Adesso andrebbe fatta una doverosa digressione perché il fatidico anno seguente c’era stato un antipasto, a Tel Aviv, Mens Sana e Fortitudo dettero vita a quella che la stessa Eurolega definì “one of the best games in “European basketball history”, una delle migliori partite nella storia del basket europeo, ovvero la semifinale delle Final Fuor fra le due squadre che poi si sarebbero giocate il tricolore. Beh, anche lì andò male, ed era la seconda consecutiva.., un canestro su tiro libero di Carlos Delfino sancì il 103 a 102 dopo un entusiasmante testa a testa. Insomma quel 5 giugno del 2004, in qualche modo doveva rappresentare anche una sana vendetta. Fu una giornata calda, decisamente estiva, di quelle che se ne fregano altamente della cautela del calendario di Barbanera o di Frate Indovino e non rispettano le previsioni del buon agronomo. Decisi di lasciare la macchina un pochino distante da Viale Sclavo e farmi a piedi un paio di chilometri seminascosto da una sciarpa in acrilico (brutte come tutte quelle in acrilico) e da un paio di Ray-Ban che mi conferivano un aspetto più goliardico che truce. Considerai di aspettare facendo due passi in centro, fra le lastre, fra il sogno gotico della Piazza e quello ancora più bizzoso del Duomo, tanto, a pensarci bene, - mi dicevo-  questa è una città talmente piccola che paradossalmente ti sa nascondere meglio di una metropoli se conosci i suoi vicoli vespertini dove infilarti ma alla fine rinunciai. A due ore dalla palla a due c’erano già lunghe file ai botteghini, tant’è che furono costretti ad anticipare e gli sportelletti verdi si aprirono, fra il sollievo generale, come tanti angusti confessionali ma da quel punto di vista ero tranquillo poiché in settimana un amico fidato e ritrovato alla "Fred Uhlman" mi aveva fatto il biglietto tramite uno scambio di messaggi inviati dal fedele Nokia 3310, mitico come quel canestro vincente di Matteo Anchisi segnato da metà campo a Milano un decennio prima al 3, 2, 1, 0 sirena. All’epoca fumavo qualche sigaretta, non troppe per fortuna, ma la sensazione emancipata del pacchetto delle Camel morbide in tasca restava refolo adolescenziale intatto e decisi di accendermi una paglia leggendo qualcosa, probabilmente un giornale locale di quelli che una volta buttato o chiuso ti accorgevi inesorabilmente di avere i polpastrelli delle mani tinti d’inchiostro nero. Tornando al basket giocato i miei calcoli si rivelarono fortunatamente corretti. La Mens Sana si trovava in vantaggio 2-0 nella serie e quel pomeriggio poteva laurearsi campione d’Italia. C’era un elettricità nell’aria da prenderci la scossa. Eravamo tutti lì, avevamo pianto, gioito, ci eravamo incazzati, festeggiato promozioni, ma lo scudetto, accidenti, lo scudetto, vuoi mettere? Va detto che la Mens Sana sponsorizzata "Montepaschi" (l’addizione provoca una salsa agrodolce in bocca, nei postumi di ciò che successe in seguito ma è discorso lungo e assai contorto poiché sfortunatamente le monarchie che funzionano non si preoccupano troppo della felicità dei sudditi quanto di vedere nuovi sogni in leasing) e ognuno, amici cari, sogna in proprio e le visioni sono private. In gara 1 pagammo lo scotto della debuttante e ci facemmo mettere immediatamente in soggezione dalla Fortitudo “Skipper” di Repesa, tuttavia la tranquillità mantenuta nel corso della partita fu l'arma in più del gruppo di Charlie Recalcati che, nel terzo periodo, con un parziale di 21-8 grazie ad una difesa mostruosa, chiuse il match. Due giorni dopo in un rovente PalaDozza, il capolavoro. La Mens Sana sorprese i biancoblu con una partenza fulminea nel segno di Bootsy Thornton, uno di quelli che una volta andata in trance agonistica decideva in un amen se fosse stato il gioco ad andare da lui o lui andare al gioco, e a quel punto si potevano sciogliere le corde alle campane. La Skipper si affidò al talento di Basile e Pozzecco per ribaltare il punteggio ma quando nel clima non da educande spuntarono le mani da pianista di Stefanov, i muscoli di Andersen e l’inesauribile, imprendibile Thornton, arrivò un mortifero 14-0 a rappresentare non solo il punto del 2-0 ma quasi una consacrazione anticipata. Guardai l’orologio e mancava mezz’ora alla palla a due di quella benedetta gara 3 e il clima era da bomboniera, il riscaldamento fu un countdown di stati d’animo, di attesa tormentosa, di preghiere sussurrate, di anni rivisti al rallentatore, di volti conosciuti su quelle tribune, alcuni dei quali purtroppo stavano guardando quell’angolo periferico di Siena da qualche nuvolone e un paio di lacrimoni scesero zigzagando alla pari di uno Stefano Vidili versione ‘93/94. La Verbena più che un canto fu un inno di guerra, un urlo collettivo senza precedenti. Poi finalmente la partita incominciò, e si sa, in una gara decisiva puoi fare tutti i taglia fuori che ti pare, tutti i pick and roll scarabocchiati da ottobre sulla lavagnetta, puoi scombinare i numeri di qualunque zona ma la porti a casa solo se i nervi collaborano con lo spessore dell’evento. Nel basket c’è un momento, un punto della gara, nel quale sai che hai vinto. Nessuno te lo garantisce o lo scrive sul tabellone però dopo un determinato canestro tu e tutti gli altri col cuore in gola al tuo fianco, lo sanno. Il referto conclusivo disse: Stefanov 12, Zukauskas 6, Vukcevic 4, Vanterpool 8, Galanda 5, Thornton 30 (con un dito rotto), Andersen 20, Chiacig 4, Sambugaro 3. Punteggio da Cassazione: Siena 92 - Fortitudo 63, con i minuti finali privi di senso dove la sirena suonò a vuoto nel delirio perché l’apoteosi era completa. Al lunedì temevo una convocazione in qualche ufficio importante o il badge disattivato all'ingresso, fortunatamente tutto filò liscio, d’altra parte ci sono cose nella vita di un appassionato che hanno la precedenza e qualche dio del basket deve pur proteggerti.

LIVING THE DREAM

  “Sto andando a Gretna Green, e se tu non riesci a indovinare  con chi, dovrò considerarti un’ingenua, perc hé c’è un solo uomo al mondo ch...