Quando trafelato arrivai di corsa davanti alla bacheca dei
programmi di reparto, il turno della settimana successiva era stato già affisso
in maniera luterana e sembrava una sentenza inappellabile: 14-22 sabato
compreso. Ed io, fatti i miei conti e debiti scongiuri, anelavo proprio a quel
giorno. Una disdetta, un vaticinio. Biascicai qualcosa senza farmi notare e
oggettivamente non erano parole contenute in libri sacri. Superata la prima
fase d'ira non mi persi d’animo e incominciai con perizia diplomatica a
chiedere a quasi tutti i colleghi che man mano incrociavo lungo i corridoi
dell’azienda se gentilmente potevano invertire con me la turnazione ma pareva
che quel maledetto sabato 5 giugno tutti fossero occupati a farsi giustamente i
cazzi loro, ma cazzi grossi evidentemente, perché sondato il possibile non ci
fu niente da fare. Bene, restava quindi un'unica condizione, un pochino
vigliacca a dire il vero eppure indispensabile: darsi malato. E’ così quella
mattina, in maniera "fantozziana", pur senza accenti svedesi o conche
di rame, chiamai in ufficio esalando un filo di voce da oltretomba nella
classica menzogna da mutuato: “scusate, non mi sento bene stasera non posso
venire, mi dispiace spero di farcela per lunedì, eventualmente richiamo”.
Tuttavia c’era un altro problema a stretto giro di vite. E si mi avessero
visto? sospensione o licenziamento a quel punto avrebbero penzolato come una
spada di Damocle sulla mia testa e le probabilità di essere notato da qualche
"untore" bastardo erano terribilmente alte perché dove avevo
intenzione di andare non era un eremo aggrappato ai boschi dell’alta Val di
Merse o un crinale spazzato dal vento della Val d’Orcia bensì in un Palasport
pieno zeppo di oltre 6000 persone. Insomma all’appuntamento con la storia, io, tifoso
della Mens Sana dai tempi corruschi di George Bucci e Brett Vroman, non potevo
mancare: Mens Sana Siena – Fortitudo Bologna gara 3 della serie finale per lo
scudetto con match point incorporato. C’era stato un brutto ascensore con la
freccia verso il basso negli anni ‘80, poi nel 1990 finalmente (o almeno) ecco
il ritorno in A/2 con in panchina quell'omone livornese tutto d'un pezzo:
“Dado” Lombardi. Oh, i novanta si aprirono con un uggioso “Up and Down” fra
piano di sopra e piano di sotto, poi, dagli spogliatoi vedemmo uscire roba di
qualità sublime tipo "limone" Lampley, autentica ombra sotto le
plance, avemmo persino l'allucinazione collettiva di vedere in panca il troppo
cartesiano Valerio Bianchini, poi il cerbiatto di Boston, Darren Daye e quel virginiano,
consigliato al GM Minucci dall’allora procuratore Federico Buffa, di nome
Sherron Mills, che disputò un ottima annata pur senza fare sfracelli e tutto
sommato quelli timidi che in campo scaricavano adrenalina mi piacevano perché
un pochino caratterialmente mi assomigliavano. Le cose si stabilizzarono fino a
un crescendo che ci vide perdere, con recriminazioni, una finale di Coppa
Italia con la Virtus Bologna targata Kinder a Forlì e vincere un
indimenticabile Saporta a Lione nel 2002 con una squadra geniale guidata da un
turco attualmente piuttosto famoso e in campo da stantuffi come il capitano
Roberto Chiachig da Cividale del Friuli (a proposito giochicchia ancora), e dai
due macedoni Vrbica Stefanov, educatissimo play, e il cecchino "Pete"
Naumoski autentico talismano di Ataman quando lo scoglio spigoloso del Pamesa
Valencia chiuse bene l'area. Trasferta clamorosa, in cui la squadra fu
accompagnata da migliaia di tifosi, va detto abbastanza increduli di giocarsi
improvvisamente una coppa europea, che avevano raggiunto il Palasport della
città francese con i mezzi più disparati, io a bordo di un pulmino a 8 posti
preso a noleggio da onorevole ditta e, ahinoi, riportato non in perfette
condizioni al punto che il proprietario della concessionaria ci fece pagare un
supplemento ma cosa vuoi, fummo ben lieti di tirar fuori qualche soldo in più
tanto eravamo ancora carichi a molla da capirci poco e la bandierina
biancoverde che avevo con me dall’ inizio del viaggio al ritorno adesso è
amorevolmente rimpiegata in quattro dentro un cassetto di casa e lì sta perchè
le reliquie si adorano ma non si toccano. E le Ramblas di Barcellona nel 2003?
Altra seratina ragguardevole, altra ingroppata di chilometri, altri -“mi, oh te?
e giù abbracci, seppure un quarto d’avvio tremendo congiunto all’esperienza di
Treviso (e qualche piedino poco educato alla riga) fermarono ogni velleità.
Adesso andrebbe fatta una doverosa digressione perché il fatidico anno seguente
c’era stato un antipasto, a Tel Aviv, Mens Sana e Fortitudo dettero vita a
quella che la stessa Eurolega definì “one of the best games in “European
basketball history”, una delle migliori partite nella storia del basket
europeo, ovvero la semifinale delle Final Fuor fra le due squadre che poi si
sarebbero giocate il tricolore. Beh, anche lì andò male, ed era la seconda
consecutiva.., un canestro su tiro libero di Carlos Delfino sancì il 103 a 102
dopo un entusiasmante testa a testa. Insomma quel 5 giugno del 2004, in qualche
modo doveva rappresentare anche una sana vendetta. Fu una giornata calda,
decisamente estiva, di quelle che se ne fregano altamente della cautela del
calendario di Barbanera o di Frate Indovino e non rispettano le previsioni del
buon agronomo. Decisi di lasciare la macchina un pochino distante da Viale
Sclavo e farmi a piedi un paio di chilometri seminascosto da una sciarpa in
acrilico (brutte come tutte quelle in acrilico) e da un paio di Ray-Ban che mi
conferivano un aspetto più goliardico che truce. Considerai di aspettare
facendo due passi in centro, fra le lastre, fra il sogno gotico della Piazza e
quello ancora più bizzoso del Duomo, tanto, a pensarci bene, - mi dicevo- questa è una città talmente piccola che
paradossalmente ti sa nascondere meglio di una metropoli se conosci i suoi
vicoli vespertini dove infilarti ma alla fine rinunciai. A due ore dalla palla
a due c’erano già lunghe file ai botteghini, tant’è che furono costretti ad
anticipare e gli sportelletti verdi si aprirono, fra il sollievo generale, come tanti angusti confessionali ma da quel punto di
vista ero tranquillo poiché in settimana un amico fidato e ritrovato alla
"Fred Uhlman" mi aveva fatto il biglietto tramite uno scambio di
messaggi inviati dal fedele Nokia 3310, mitico come quel canestro vincente di
Matteo Anchisi segnato da metà campo a Milano un decennio prima al 3, 2, 1, 0
sirena. All’epoca fumavo qualche sigaretta, non troppe per fortuna, ma la sensazione
emancipata del pacchetto delle Camel morbide in tasca restava refolo
adolescenziale intatto e decisi di accendermi una paglia leggendo qualcosa,
probabilmente un giornale locale di quelli che una volta buttato o chiuso ti
accorgevi inesorabilmente di avere i polpastrelli delle mani tinti d’inchiostro
nero. Tornando al basket giocato i miei calcoli si rivelarono fortunatamente
corretti. La Mens Sana si trovava in vantaggio 2-0 nella serie e quel
pomeriggio poteva laurearsi campione d’Italia. C’era un elettricità nell’aria
da prenderci la scossa. Eravamo tutti lì, avevamo pianto, gioito, ci eravamo
incazzati, festeggiato promozioni, ma lo scudetto, accidenti, lo scudetto, vuoi
mettere? Va detto che la Mens Sana sponsorizzata "Montepaschi" (l’addizione
provoca una salsa agrodolce in bocca, nei postumi di ciò che successe in
seguito ma è discorso lungo e assai contorto poiché sfortunatamente le
monarchie che funzionano non si preoccupano troppo della felicità dei sudditi
quanto di vedere nuovi sogni in leasing) e ognuno, amici cari, sogna in proprio
e le visioni sono private. In gara 1 pagammo lo scotto della debuttante e ci
facemmo mettere immediatamente in soggezione dalla Fortitudo “Skipper” di
Repesa, tuttavia la tranquillità mantenuta nel corso della partita fu l'arma in
più del gruppo di Charlie Recalcati che, nel terzo periodo, con un parziale di
21-8 grazie ad una difesa mostruosa, chiuse il match. Due giorni dopo in un
rovente PalaDozza, il capolavoro. La Mens Sana sorprese i biancoblu con una
partenza fulminea nel segno di Bootsy Thornton, uno di quelli che una volta
andata in trance agonistica decideva in un amen se fosse stato il gioco ad
andare da lui o lui andare al gioco, e a quel punto si potevano sciogliere le
corde alle campane. La Skipper si affidò al talento di Basile e Pozzecco per
ribaltare il punteggio ma quando nel clima non da educande spuntarono le mani
da pianista di Stefanov, i muscoli di Andersen e l’inesauribile, imprendibile
Thornton, arrivò un mortifero 14-0 a rappresentare non solo il punto del 2-0 ma
quasi una consacrazione anticipata. Guardai l’orologio e mancava mezz’ora alla
palla a due di quella benedetta gara 3 e il clima era da bomboniera, il riscaldamento
fu un countdown di stati d’animo, di attesa tormentosa, di preghiere
sussurrate, di anni rivisti al rallentatore, di volti conosciuti su quelle
tribune, alcuni dei quali purtroppo stavano guardando quell’angolo periferico
di Siena da qualche nuvolone e un paio di lacrimoni scesero zigzagando alla
pari di uno Stefano Vidili versione ‘93/94. La Verbena più che un canto fu un
inno di guerra, un urlo collettivo senza precedenti. Poi finalmente la partita
incominciò, e si sa, in una gara decisiva puoi fare tutti i taglia fuori che ti
pare, tutti i pick and roll scarabocchiati da ottobre sulla lavagnetta, puoi
scombinare i numeri di qualunque zona ma la porti a casa solo se i nervi
collaborano con lo spessore dell’evento. Nel basket c’è un momento, un punto della
gara, nel quale sai che hai vinto. Nessuno te lo garantisce o lo scrive sul
tabellone però dopo un determinato canestro tu e tutti gli altri col cuore in
gola al tuo fianco, lo sanno. Il referto conclusivo disse: Stefanov 12,
Zukauskas 6, Vukcevic 4, Vanterpool 8, Galanda 5, Thornton 30 (con un dito
rotto), Andersen 20, Chiacig 4, Sambugaro 3. Punteggio da Cassazione: Siena 92
- Fortitudo 63, con i minuti finali privi di senso dove la sirena suonò a vuoto
nel delirio perché l’apoteosi era completa. Al lunedì temevo una convocazione
in qualche ufficio importante o il badge disattivato all'ingresso,
fortunatamente tutto filò liscio, d’altra parte ci sono cose nella vita di un
appassionato che hanno la precedenza e qualche dio del basket deve pur proteggerti.