I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’orrore di una nuova amarezza pronta a dispiegarsi nell’aria, qualcosa che pareva esitare in attesa del pronunciarsi tassativo del destino. Caduto il sole del debole pomeriggio su Fiesole, lesto alla pari della mano di un complice, il silenzio fu pieno, del pubblico restò solo ombra nell'ombra. Non restava che aspettare, purgatoriamente seduti, uno a ridosso dell’altro. Poltiglia di sillabe e mezze imprecazioni, frantumi di suoni. Poi tutti abbassammo mestamente la fronte accennando alla solita trita e ritrita maledizione, con orbite spente, fuochi fatui di un cimitero abbandonato come quello delle "Ballodole" alla Chiesa di Careggi. 7 febbraio 1999: Fiorentina Milan. Iniziò a dire il vero con una speranza, per inciso l'attimo in cui il lancio in profondità per Gabriel Omar Batistuta, con la partita inchiodata sullo 0-0, sembrò lasciar presagire l’arrivo di un’emozione decisiva, agognata. L’argentino appariva lontano dalla porta ma trovò campo aperto davanti a sé per scatenarsi in velocità. Corse Batistuta, corse nonostante accusasse dolore dopo lo scontro con l’altero tedesco Oliver Bierhoff avvenuto pochi minuti prima. Eppure, ogni alternativa pareva bandita. Rallentare, mollare, significava vanificare lo sforzo di una carriera intera, vissuta con l’unico obiettivo di riportare a Firenze uno scudetto che mancava da trent’anni esatti. Allora Batistuta, sospinto dal vento uggioso di Campo di Marte che gli scuoteva i capelli, tirò dritto verso quel pallone, la mente già proiettata in area di rigore. Pochi passi però, e il ginocchio cedette, crak, lasciando spazio alle sue urla disperate, le urla di uno che non solo provava dolore ma che aveva già capito tutto. La folla si strinse nelle giacche, nell’assenza di voci, le tribune costipate del Franchi in disarmo. Un ingistizia, anche pensando al fatto che a quell’età ogni fibra la crediamo persuasa d’essere immortale, e invece no, sono solo promesse di una franchigia mai ottenuta. Gabriel Batistuta, questo Re forestiero (e nemmeno troppo) ormai seduto da quasi 10 anni sui marmi di Giotto e di Michelangelo al quale ogni domenica cedevamo una libbra di carne della nostra passione uscì inerme, le mani penzolanti verso terra, sdraiato su una barella arancione. Zero a Zero. Tornammo a casa delusi dal nostro magro bottino di nuvole che correvano veloci la valle dell’Arno, ci sembrò piuttosto pane rubato, la razione del pellegrino quasi giunto alla sua meta ma improvvisamente costretto, pervaso, dall’interrompere il cammino fra dileggio e pena. La Fiorentina aveva conquistato il titolo d’inverno, vincendo l’ultima gara del girone d’andata della Serie A 1998/99 in casa contro il Cagliari per 4-2. Quel risultato, unito allo scivolone del Parma contro la Lazio, permise agli uomini di Trapattoni di conquistare il platonico titolo a quota 35 punti. Già, Giovanni Trapattoni, “giuanin” figlio della guerra, occhi azzurri come due spilli che ti scrutano e poi si allontanano indefinitamente. Pare risuonare ancora nel nostro calcio l’eco del suo fischio inconfondibile. Fischiava il "Trap", le dita incrociate sulle labbra, lo aveva imparato da bambino copiando suo padre operaio che - in una sequenza da film neorealista - lo faceva quando tornava a casa alla sera annunciandosi alla famiglia. Un fischio secco, perentorio, da capotreno, a richiamare un difensore distratto o semplicemente una nota stridula lanciata lì, nel concerto della partita, a marcare un’identità o un bel ragionamento, seguendo un filo logico importante per lui. Alla Fiorentina lo porterà Vittorio Cecchi Gori, “Il Trap” al telefono quasi non ci credeva. “Presidente ma è sicuro?”. Dall’altra parte, “Vittorione”, uomo da balaustra, viziacci e passerelle, aveva scelto: dopo le innovazioni di Malesani, passato in estate sulla panchina del Parma, Firenze aveva bisogno di un allenatore pragmatico, vincente, in grado di trascinare la squadra verso una consacrazione. Un entusiasmo condiviso soltanto a metà dalla città, divisa più o meno equamente tra entusiasti e scettici, fra guelfi e ghibellini, fra bianchi e neri. Trapattoni, d’altra parte, era stato l’allenatore della Juventus, di quella Juventus, la Juventus che nell’ultima giornata del campionato 1981/82 aveva spento il sogno del terzo tricolore in un pomeriggio folle, indignato, nella pena del ronzio di una modulazione di frequenza fra Cagliari e Catanzaro e quel giorno tutta Firenze sembrò morire un pezzettino per volta tipo l'"angolo della sfinge", il quadratino dei giochi inserito nei quotidiani di allora. Quel che rimase fu un soffio, una brezza leggera, un poco d’aria remota, stantia, come quella portata da Pazzino de' Pazzi, il fiorentino che secondo la tradizione, fu il primo ad innalzare l'insegna cristiana sulle mura di Gerusalemme e in riconoscenza ebbe tre frammenti della pietra del Santo Sepolcro. Le pietre furono portate in città e conservate attualmente nella Chiesa dei Santissimi Apostoli. Eppure, il Trap si proclamò scevro di qualsiasi colpa e nessuno ebbe voglia di correggerlo, tanto più che parve sedersi con la solita caparbietà sulla panchina viola. Le discussioni intorno allo storico Bar "Marisa" e alla Gelateria "Fuorigioco" di proprietà di Aldo Agroppi, apparivano infinite ma per una volta la barca remava dalla stessa parte. In quella squadra insieme a Batistuta si muoveva la disinvolta eleganza barocca di Manuel Rui Costa, scapigliato e generoso asso portoghese. Ma croce e delizia fu Edmundo, fuoriclasse assoluto, attaccante brasiliano dai tratti carioca, abilissimo con la palla fra i piedi. Tuttavia c’era in ogni suo atto, bello o brutto, una sollecitudine irosa come se avesse dimenticato un oggetto in un luogo lontano mentre l’alba invece stava nascendo qui. Lui volle partire, il Carnevale a Rio, la tragicomica clausola sul contratto, inutile provare a fermarlo, questo figlio del samba e di buona donna. Batistuta dopo quell'episodio non intrattenne più buoni rapporti con lui: "Fino all' infortunio al ginocchio eravamo molto, quando seppi che sarebbe partito lo chiamai subito a casa e gli dissi: Dai resta qui a Firenze, caricati la squadra sulle spalle per questo periodo, lascia perdere il Carnevale, ci andrai il prossimo anno"... Mi rispose: "Capitano, per me è troppo importante, devo andare, cerca di capirmi". A quella risposta Batistuta gli riattaccò il telefono in faccia, chiamò il Trap e si sfogò: "Mister non voglio più vedere a Firenze quella testa di cazzo, io ho sempre lottato e dato tutto per far felici i miei tifosi. In fondo era il capitano, doveva dare un segnale forte alla squadra. Non poteva permettere che un deficiente, seppure di grande talento, abbandonasse così la squadra, in un frangente delicatissimo per andare a fare i suoi sporchi comodi. Tempo dopo, Edmundo lo chiamerà chiedendogli scusa... ma la risposta fu che delle scuse non ci faceva nulla... lo aveva tradito nel momento del bisogno, e da quel giorno pare non l'abbia più sentito e rivisto dal vivo. Il resto della squadra aveva altre perle niente male. Francesco Toldo, uno alloggiato a difesa dei pali quasi per caso. Dopo aver provato diversi ruoli tra le fila dell’Usma Caselle, solo una giornata innevata e la voglia di tuffarsi per parare sul manto bianco convinsero il ragazzo a tentare di presidiare la rete della sua squadra. Il passo fu breve, dalle pedalate in bici verso il campo vicino casa nel padovano fino alla prima rampa di lancio nella Primavera del Milan. Francesco Toldo, però, sarà un portiere che guadagnerà i suoi tanti trofei – molti dei quali vinti peraltro dall’altra parte dei Navigli – facendosi le ossa e intraprendendo una vera e propria gavetta in tutte le serie. Esordirà in B con la Fiorentina dove militerà per 9 indimenticabili anni. C’erano Guillermo Amor, Tomáš Repka, Moreno Torricelli, Jörg Heinrich, Luìs Oliveira, un gruppo che però dopo il blackout Batistuta/Edmundo ci proverà senza costrutto, sembrava avessero schioppi finti, e infatti nel girone di ritorno spararono a salve seppur con generosità. Si mosse l’erba intorno alle loro scarpe, non s’udiva più nulla, i tifosi alzarono il capo alla stregua di disperati. Era finita, dentro i rimpianti dell’ennesimo epos perduto.