“Mancava poco alle 4 di mattina quando Zdovc è venuto nella
mia stanza in albergo e mi ha detto, quasi in lacrime, che da Lubiana gli
proibivano di giocare. Se l’avesse fatto, l’avrebbero considerato un traditore
del popolo sloveno. Io continuo a considerarlo un mio giocatore, uno
jugoslavo”. Ma il mondo sta cambiando sotto i loro piedi: da un giorno
all’altro, “Jure” non è più uno jugoslavo, è uno sloveno di Maribor. “Politics
is one thing, sport is another. Our team is like a family”, dice Kukoc solcata dall'emotività ai
giornalisti presenti. Ma per Zdovc la medaglia d’oro, che, come da previsioni, arriverà
pochi giorni dopo in finale contro l’Italia, non ci sarà. Ci sarà solo un
pericoloso ritorno a casa nei giorni più duri nella storia della sua gente. Con
un matrimonio mandato a monte dalla guerra, senza più una patria, senza più una
famiglia costruita sui campi da basket.
Il Fax da Belgrado arrivò nel tardo
pomeriggio del 26 giugno. Il giorno prima la Slovenia aveva dichiarato
l’indipendenza. Quella sera la Jugoslavia aveva battuto la Bulgaria per 89-68 nell’ultima
partita del girone eliminatorio degli europei di Roma 1991. Jure Zdovc, detto Jure, playmaker dell’Olimpija
Lubiana aveva indossato senza rendersene conto a pieno ma sicuramente con mille
dubbi in testa la canotta dei plavi per l’ultima volta. Il giorno precedente si
era svegliato nel ritiro romano della nazionale molto presto rispetto al resto
del gruppo e aveva chiamato la sua famiglia. Erano tutti a casa, a Lubiana, la
linea non era sempre disponibile, tendeva a saltare, ogni due ore alzava la
cornetta per cercare di capire quale fosse la situazione. E il frangente, per
lui e anche per i suoi compagni di squadra, era tutt'altro che normale. Le voci
sull’inizio della disintegrazione della Jugoslavia dilagavano e la crisi
politica e sociale si stava improvvisamente intensificando. Sarebbe finita in
una guerra civile, ma mancavano ancora alcune settimane prima che scoccasse la
scintilla del disastro totale. Poche dopo, mentre faceva colazione, ricevette lesse
il fax della federazione. Il Ministro dello Sport lo chiamò comunicandogli che
non avrebbe potuto più giocare per la Jugoslavia. Il suo paese aveva ormai dichiarato
l'indipendenza e, di conseguenza, non possedeva più la nazionalità con cui stava
giocando l'EuroBasket al Palaeur. Le semifinali e la finale erano davanti a lui
eppure senza di lui. Zdovc, confuso, iniziò a piangere. Nella sua mente avrebbe
voluto terminare quel torneo perché non c’era nessun dubbio che la “Jugo”
avrebbe vinto la medaglia d’oro, capitanata da Toni Kukoc. Erano stati campioni
del mondo un anno prima in Argentina e due anni prima ancora nel continente, in
patria, a Zagabria. "I miei genitori stanno bene, ma faccio fatica a
concentrarmi sul basket ", disse alla stampa uscendo dall’albergo con lo
sguardo nascosto dagli occhiali da sole. La guerra in Slovenia non fu cruenta,
qualche colpo di cannone per una decina giorni, tutto sommato un conflitto di
minore entità rispetto al bagno di sangue che sarebbe accaduto in altre zone. Euro
Basket Roma ’91, stava offrendo uno spettacolo sportivo importante. L’idea di
affidare l’intera organizzazione (non solo la sponsorizzazione) a un privato,
che nel caso specifico era il Gruppo Ferruzzi, già proprietario della maggiore
squadra di basket romana, la Virtus Messaggero, risultò vincente in termini di
spettacolarità e di partecipazione di pubblico. Nel “di più” che venne offerto
fu compresa anche la bella medaglia conquistata dalla Nazionale azzurra,
ciliegina sulla torta che – con mille recriminazioni – ci era mancata nelle
precedenti occasioni. L’unico fastidio fu quello di dover accettare l’assenza
dell’URSS, sempre protagonista e sempre sul podio (con 14 ori) nelle ventuno
edizioni alle quali aveva preso parte. Quell’aria di cambiamento che si faceva
sentire da qualche anno si era appena trasformata in vampata di autodeterminazione
nelle terre dell’Unione Sovietica: Lituania e Georgia avevano già dichiarato la
loro indipendenza, presto seguite da Lettonia ed Estonia. In attesa che la
geografia politica dell’Europa cambiasse radicalmente volto, frammentandosi in
stati e staterelli. Eppure, sopra le crepe le cose a livello economico stavano
andando benino, alla Čajevac di Banja Luka, ad esempio, nel 1989, si erano accordati
per l'assemblaggio di un televisore con il governo giapponese. I giapponesi
fornirono la maggior parte dei componenti, in Jugoslavia produssero il resto,
lo assemblarono e quel piccolo miracolo tecnologico con una diagonale di 50 cm
e un involucro bianco fu un successo. E in molti videro gli europei del 1991 su
quel televisore, tifando e bevendo caffè e discutendo di politica negli intervalli.
Dušan, “Duda”, Ivković era il coach della
Jugoslavia, un mezzo sergente di ferro, poche parole molti fatti, ripeteva
costantemente che ci doveva essere ordine, non solo nello spogliatoio e in
campo, ma anche nella vita. Negli ultimi anni, lo infastidiva il fatto che la
gente si fosse allontanata dalle tradizioni, che la gente partecipasse alla
festa di San Slava come se fosse al mercato. Slava in Jugoslavia è il santo
patrono delle famiglie, le scuole chiudono, si beve vino e si mangia carne di
maiale grigliata, una volta con i parenti, una volta con gli amici e una
volta con i vicini. Ivković d’altro canto era cresciuto in queste modalità, lui
il quartogenito di una famiglia originaria di Kordun. Un soldato del basket, con
una rara e forte autorità, che alcuni ammiravano, altri storcevano un po' la
bocca ma senza guardarlo in faccia. Tuttavia, dietro quello sguardo d'acciaio
c'era un uomo di sangue e carne, e persino di lacrime. Piangeva ogni volta che
parlava di due cose: il difficile destino di suo padre Petar e la più grande
ingiustizia nella storia dello sport, quando, gli avevano impedito di
partecipare alle Olimpiadi di Barcellona del 1992. La casa di famiglia si
trovava nella zona di Ustanička
di fronte al palasport del Radnički di Belgrado, dal cui parquet si sentiva
distintamente anche all’esterno il suono della palla rimbalzare costantemente. Laureatosi
alla Facoltà di Scienze Minerarie e Geologiche di Belgrado si innamorò del
basket con il fratello maggiore Slobodan (detto Piva), in un'epoca in cui si
giocava ancora sulla terra battuta. Come Slobodan iniziò a giocare a basket nel
1958 per poi muovere i primi passi da allenatore al Radnički dieci anni più
tardi. Quando si trova ad allenare la Jugoslavia,
per tutti quella squadra era il "White Dream Team": Dražen Petrović,
Aleksandar Đorđević, Predrag Danilović, Toni Kuković, Žarko Paspalj, Dino Radja,
Vlade Divac... tre medaglie d'oro (due europee e una mondiale) e una d'argento
(olimpica). Ho nominato Petrović, all’epoca ai New Jersey Nets. Non volle saperne
di essere convocato. L’estate precedente ai mondiali in Argentina gli Jugoslavi
sconfissero in semifinale il team USA e in finale l’Unione Sovietica. Qualcosa
già però stava scivolando lungo i sentieri dell’odio e del rigurgito
nazionalista in patria, l’aria cominciò a farsi pesante. Nei festeggiamenti del
dopo gara a Buenos Aires sul campo spunta una bandiera croata, Divac la strapperà
di mano al tifoso gettandola a terra cercando di difendere lo spirito
“jugoslavista” e forse anche l’unità della squadra. Petrović non ci sta prende,
più o meno direttamente, le distanze dal compagno, anzi congela i rapporti con
la nazionale prendendo posizione per la causa croata senza mezze parole e con
l’orgoglio e l’ostinazione che lo ha sempre contraddistinto dirà: “Non sono
jugoslavo, sono croato”. Pur privi del loro campione a Roma la Jugoslavia
giungerà comunque con una squadra composta ancora da diverse etnie ma dalla stessa,
solita, scuola cestistica, fatta di tecnica sopraffina, di iniziative
individuali “uno contro uno” o “penetra e scarica”, ma sempre nel rispetto
della semplicità (e quindi della spettacolarità) del gioco. In attacco, la palla si muoveva
incredibilmente velocemente, in difesa, ruotavano efficacemente. La loro
capacità di soffocare gli avversari non dipendeva dall'essere più forti o più
veloci, ma dalla disciplina e dalla fiducia reciproca. Il basket slavo è in bilico tra
individualismo e collettivismo. Cinque giocatori in squadra sono sufficienti
per un gioco di squadra complesso, e sono così pochi che un singolo giocatore può
avere un'influenza decisiva sull'esito di una partita o di una stagione. Vigeva
ad ogni modo la regola aurea: tutti insieme, appassionatamente, per l’ultima
volta. Nonostante lo “shock” e nonostante la difficoltà di convocarli tutti
insieme per timore di ritorsioni, i “Plavi” saliranno sul gradino più alto del
podio, battendo nella finale l’Italia di Sandro Gamba per 88 a 73. In
un'intervista rilasciata a un giornale serbo il "Nezavisne novine", Antonello
Riva dichiarò che era impossibile battere quella squadra per chiunque. “Erano
troppo forti, probabilmente la migliore squadra nazionale in Europa di tutti i
tempi. Abbiamo provato qualunque cosa in nostro possesso in quella partita per
metterli in difficoltà, solo più scorreva il tempo più ci rendevamo conto di
avere di fronte un avversario fuori portata, sinceramente in carriera non mi
ero mai ritrovato a giocare contro un avversario di questo genere”. Ogni
giocatore della Jugoslavia aveva delle caratteristiche peculiari, per esempio,
Vlade Divac era forte quanto molti centri, un ottimo passatore ma tecnicamente aveva
qualcosa in più soprattutto nel comprendere gli sviluppi dell’azione e la cosa
giusta da fare. Toni Kukoč, l’Airone, fu
stato nominato MVP degli europei.
Zoran Sretenović (Spalato), Velimir Perasović
(Spalato), Toni Kukoc (Spalato), Zoran Savić (Spalato), Arijan Komazec (Zadar),
Aleksandar Đorđević (Partizan), Predrag Danilović (Partizan), Žarko Paspalj
(Partizan), Zoran Jovanović (Stella Rossa Belgrado), Jure Zdovc (Olimpija), Dino
Radja (Virtus Roma), Vlade Divac (Los Angeles Lakers).
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