giovedì 23 gennaio 2025

"OXBRIDGE" THE BOAT RACE

 


 

La luce giallognola della candela rischiarava a stento il motto latino inscritto sul grande architrave in legno della camerata. Il silenzio era rotto solo da brevi passi avvolti dal cuoio indurito delle calzature. Un gruppo di studenti stampigliavano le loro ombre sui muri macigni del Merton College di Oxford. Fuori dallo stretto portale di un’uscita secondaria a sesto acuto, li accolse qualche goccia di pioggia finissima che la mattina seguente avrebbe reso lucidi i pinnacoli gotici della città. La strada ammantata dal buio era spennellata da rari lumi vacillanti. Si incappucciarono, accesero una torcia, schivarono un paio di armigeri sonnecchianti che bevevano sidro e giocavano a dadi appoggiati a un riparo dal tetto di paglia pressata, poi si diressero giù, verso una strada di ciottolo, serpeggiante, immersa ai lati dalla vegetazione, che lentamente si riduceva in prossimità dello scorrere sommesso del Tamigi, o “Thamesis”, nel punto ridotto a canale e abbreviato familiarmente in Isis. Ad attenderli, in piedi su una canoa, la figura nera di un barcaiolo pronto a portarli via. Durante il periodo sassone questa zona veniva chiamata "Oxenaforda", ovvero "ford of the ox", il guado del bue. Non distraiamoci, questi vogliono scappare. Oddio, scappare, converrebbe dire allontanarsi dall’ Ateneo e fondarne un altro, ecco, detto così appare consono, risanando dal peccato di una fuga vigliacca dovuta alle troppe punizioni, del rigore eccessivo, dell’oppressione dei professori. Si, funesta Oxford dalle sognanti guglie, adesso noi, noi felici pochi, oramai, di fatto e di principio suoi ex studenti, nell’anno del Signore 1209 decidiamo di andarcene e gettare le fondamenta di un’altra Università, in quel di Cambridge, e già immaginiamo la nostra ode per i secoli a venire: "Hinc Lucem et pocula sacra". Due università, due città accarezzate dallo stesso fiume, dalla stessa acqua, eppure divise su tutto, e quando si dice tutto significa dibattere e contorcersi nella rivalità, declinando, da menti eccelse, a un luogo ove sfidarsi, cingersi d’alloro ed eleggersi superiori. Basta non ricorrere alla ruvidità del sangue privo del gentil fioretto, più adatto alla collera isterica della plebe. Insomma, non sporcarsi le mani per darsele di santa ragione alla stregua di una insulsa zuffa da pub per volgari cinque penny scommessi su un paio di galletti nervosi. Eh no, occorre competere avvalendosi di metodi fini, raziocinanti, eleganti. D’altro canto, dalle nostre stanze escono geni, inventori, benefattori dell’umanità, rampolli dell’alta società, perfino Re, ministri, arcivescovi e cardinali, e, va ammesso, parlando con franchezza, anche qualche rinnegato, oltre a strani ciarlatani venditori di pozioni miracolose, ma in fondo è una lieve debolezza che ha il colore del cielo quando tuona. E allora l’accrocco lessicale “Oxbridge”, in Inghilterra farà presto a diventare sinonimo di una dicotomia, di duello. Uno sfidarsi in qualunque attività fisica, sì i posteri balzani useranno il vocabolo sport per identificare sulla via della modernità questo baluginare di occhiatacce, questa voglia matta di sfidarsi in giorni prestabiliti decisi da un calendario d’avvento tutto loro, noi e “gli altri”, per l’onore dell’emblema, per il mestiere della sagacia, per la supremazia intellettuale. “Town and gown” (città e toga) certo, ma credetemi, ci sono momenti dove bisogna mostrare i muscoli e tenere nascosti i cervelli: spingi e conta. Vediamole le contendenti, sbirciamole da un cortile, magari nascosti da un dedalo di siepi. Oxford da subito l’impressione di essere più caotica, più contrattante, seppure fra le antiche Balliol e Merton il silenzio e la quiete che regna nei chiostri e negli androni è una sensazione simile a quella che si prova visitando un seminario o un convento e perfino l’erba è tenuta in modo maniacale. A Cambridge tutto pare più a misura d’uomo con le sue polverose librerie e i mercatini che fingono una vivacità più formale che sincera perché Cambridge è luogo pigro, quasi indolente, dove lo scorrere del tempo sembra empaticamente legato al defluire placido del fiume. Quando vedrete un “punt”, un tipico barchino a pertica, scivolare dolcemente lungo le acque del Cam, la conduzione potrebbe apparirvi semplice. Ma fate attenzione, il corrispettivo britannico della gondola veneziana è molto più difficile da controllare di quanto possa apparire. A sentirne la descrizione, il “punting” potrebbe assomigliare a un innocuo diletto domenicale. A vedere il praticante locale medio sembra una rilassante gita sul fiume. Il problema è che non si apprezza il peso del famoso palo, e il fatto che il natante (privo di timone) tende a ruotare furiosamente su sé stesso. Stop, bando alle ciance. Otto secoli, poi il futuro. Oxford si tinge di blu scuro, Cambridge di azzurro listato di bianco come l’alba di talune mattine quando il sole impatta sulla facciata del King’s College. Quindi attenti alle date che collimano con lo sboccio della primavera perché è in quel periodo che l’anno accademico in Gran Bretagna muta in consapevolezza da confronto e gli orari non sono scanditi dal sovrapporsi bibliografico delle materie (più o meno oscure) o da probanti sessioni d’esame, bensì dalla rivalità sportiva: “Oxford for arts, Cambridge for science”, dice un vecchio proverbio inglese. Da una parte l’umanesimo, dall’altra la scienza: un adagio che tuttavia i vertici degli atenei non riconoscono affatto, impegnati senza soluzione di continuità ad assicurarsi i migliori studenti indigeni e planetari in entrambi gli ambiti, sfornando da secoli il pugno duro della classe dirigente di buona parte del globo. Intendiamoci, questi gareggiano a qualunque cosa, dagli scacchi all’ Hockey su ghiaccio, dopo tutto non è stato il Duca di Wellington a dire che abbia appreso su un campo da cricket come arrestare l’avanzata di Napoleone? Ah, ovviamente il nobilissimo Rugby si gioca dentro il tempio della palla ovale, a Twickenham, un “classico”, parafrasando un’accezione guasta e fin troppo insulare, meglio, molto meglio chiamarlo nella forma etimologicamente corretta, ossia Varsity match. Ora non si offendano i valorosi pacchetti di mischia, ma comprenderanno che la disciplina più sentita, la disfida più famosa, resta quella sul Tamigi: la Boat Race. Diciassette minuti circa di vogate senza indugio. La gara ha una data di partenza fissata in un carteggio del 1829, anche se a spulciare bene va detto che ininterrottamente si va avanti dal 1856. A proporla furono due amici di Cambridge, Charles Merivale e Charles Wodsworth (nipote del poeta William Wodsworth). E così il 12 marzo del suddetto 1829, l’Università di Cambridge lanciò il guanto di sfida ad Oxford e l’esordio della Boat Race avverrà il successivo 10 giugno nella graziosa cittadina di Henley, nell’ Oxfordshire, segnando fra le altre quisquilie la nascita del canottaggio agonistico per dilettanti. Due Imbarcazioni, due equipaggi, otto rematori e un timoniere, il Cox. Davanti a loro si staglia un pezzo di ferreo Tamigi, per l’esattezza 6.799 metri (4 miglia e 374 yard) e il dipanarsi di uno sforzo fisico altamente impegnativo, atto al mulinare correttamente le pale dei remi, dark blue per Oxford, light blue per Cambridge, sulle rispettive Isis (Oxford) e Goldie, (Cambridge). Partenza e arrivo sono contrassegnati dalle vistose “stones” (pietre) collocate sulle sponde. Pensate, la barca di Cambridge affondò nel 1859 e 1978, quella di Oxford nel 1925 e nel 1951; entrambe andarono a picco nel 1912 quando la regata fu colta dall’imperversare di una tempesta. Il più recente affondamento risale invece al 1984, allorché lo scafo di Cambridge andò a sbattere con violenza contro una chiatta ormeggiata poco dopo la partenza; nessun problema, anzi, i resti sono fieramente esposti in un pub cittadino e riportano le firme dei membri del suo equipaggio. Nel 1981, alla storia della prestigiosa competizione, prese parte una donna, tale Sue Brown, che al timone condusse Oxford alla vittoria in due occasioni consecutive. Partiamo quindi. I presidenti dei rispettivi boat club lanciano in aria una vecchia moneta aurea (una sovrana coniata naturalmente nel 1829, ma per i patiti della numismatica aggiungiamo che l’emissione addirittura sfoca indietro fino al 1489 sotto il regno di Enrico VII). La fortuna nel lancio può valere parecchio, soprattutto a seconda delle condizioni atmosferiche in quanto concede il diritto di scegliere da che parte del fiume remare e conseguentemente in che maniera gestire ritmo e tipo di percorso. La stazione nord (Middlesex) presenta il vantaggio nella prima piegata e delle ultime curve, mentre il sud (Surrey), aiuta lungo l’enorme curva di mezzo. Siamo a Putney Bridge, piuttosto lontano dalla linea d’ombra emozionale di Joseph Conrad annidata sull’estuario e, pace all’anima dello scrittore polacco, non si riflette a lungo sugli stati d’animo ma si concentra su corrente e profondità. Roba da “Coxes”, che devono essere abili a trattare mezzi e uomini nei punti dove il flusso cambia repentinamente, dove si sa, per esperienza e percezione, che si annida una corrente maggiormente rapida e questa viene contesa ai rivali attraverso epici scontri di lame e conseguenti, roventi, rimbrotti arbitrali. La scena è così solenne che opprime il cuore e dà un senso di angoscia: un colpo di cannone, le sirene dei vapori e l’urlo della folla che si diffonde come una fiammata lungo le due rive accompagnano lo slancio d’avvio dei vogatori. Andare in testa può rendere estremamente difficile il recupero per l’equipaggio avversario almeno fino a metà gara, poi contano resistenza e volontà. Le serafiche sponde del Tamigi, quel giorno, non si presentano così tranquille, imballate da un numero stimato in oltre 400mila persone, più milioni di inglesi davanti alla tv: ogni ex alunno o docente non può esimersi dal guardare la Boat Race infilandosi obbligatoriamente la divisa del suo ateneo. È gli altri pezzi d’Inghilterra si dividono, scegliendo chi sostenere. Si parte, come detto, da Putney, e prestate attenzione, si rema controcorrente, con l’insidia di spiacevoli inconvenienti nel caso cominciasse a tirare un ventaccio cattivo da ovest capace di portare modeste ma insidiose ondate di marea. Dopo Putney si oltrepassa la “Black Buoy” (la boa nera) tuttavia, siccome l’acqua non è, diciamo cristallina (a dire il vero assomiglia a una tinta simile ad argento sporco) per evitare collisioni ultimamente è stata ridipinta di un paglierino vivace. Successivamente il fiume scorre accanto al “Craven Cottage”, il meraviglioso stadio “edoardiano” del Fulham, tecnicamente un passaggio ampio, fatto di acque poco profonde e non impegnative. Giunti a un miglio dalla partenza si innalza il monumento detto “Mile Post”, punto ancora sostanzialmente semplice, l’acqua si schiarisce allentando ancora la pressione contraria. Nella sezione seguente sulle rive si possono notare molti spettatori con in mano una schiumosa pinta, siamo infatti al Crabtree Reach e questo significa che poco sopra c’è il legnaceo, rude, Crabtree Tavern dove spillano Birra ininterrottamente dal 1849. Ora attenzione, nei pressi di Harrods, il fiume si concede alla prima ostica curva e nei minuti seguenti chi è partito dalla posizione “Surrey” tende a recuperare o bontà sua ad allungare. Ad Hammersmith Bridge in genere può verificarsi una svolta importante della gara, occorre vogare forte e bilanciare l’equipaggio, Oxford e Cambridge in genere qui appaiono entrambe instabili, incerte, poi all’altezza della cattedrale di Saint Paul, il beato intercede e pone la grazia sugli atleti facendoli tornare a un andamento meno forsennato. È tempo di Chiswick Eyot, un tratto con un piccolo isolotto in cui il fiume corre bello rettilineo e l’acqua è profonda, nera, insondabile nel suo letto d’ossa e antichi relitti. Appena visibile sul lato sinistro la Birreria Fuller, zona animata spesso da una leggera brezza che scompiglia le acque in bizzosi ghirigori. A Chiswick Pier siamo esattamente a 2,87 miglia dalla partenza e si incomincia a prepararsi al Crossing stazione da “Via Crucis”, dove occorre riprendere posizione, fiato, e beccare la corrente migliore prima dell’ingresso del velocissimo Bandstand, e stavolta si dice meglio per quelli partiti da Middlesex. Ora sta per spuntare, in epica da miraggio, il Barnes Bridge Railway, con le imbarcazioni già spossate. I due equipaggi devono passare attraverso il centro dell’arco. Secondo gli almanacchi il 95% di coloro che lo superano in testa riportano la vittoria. Solo una barca, nel 1945, ha vinto salutando dalla seconda posizione questo ponte. Se capita (e capita) che gli equipaggi siano vicini i Coxes qui possono spintonarsi a vicenda per guadagnare il centro presentandosi agli ultimi 300 metri del Brewery Mortlake che anticipano la linea di traguardo posta al Chiswick Bridge. Sono le ultime tremende vogate dentro la storia di un duello infinito. Ed è in quest’attimo, magicamente, che tutto si confonde, si sospende, presente, passato, tempo, uomini. Un po’ come se al fianco del fiore della studiosa gioventù attuale si profilassero figure evanescenti di profili noti: Adam Smith, John Fowles e John Donne dalla parte di Oxford, oppure Christopher Marlowe, Oliver Cromwell e Isaac Newton da quella di Cambridge. Comunque, non preoccupatevi troppo, sono visioni, sogni e illusioni, degne di “Oxbridge”.

mercoledì 22 gennaio 2025

IL CANTO DELLA CICOGNA

 






Il Den Haag me lo ritrovai improvvisamente sulle pagine internazionali del Guerin Sportivo dove venivano riassunti in maniera rigida e minimalista i principali campionati esteri. Il nome, che qui da noi assomigliava a una nota marca di bevanda decaffeinata, apparteneva a una squadra olandese la cui contrazione linguistica ho scoperto in seguito significhi “il bosco del Conte”, sostanzialmente L’Aja, un metro e mezzo sul livello del mare, oltre a diverse faccende burocratiche su cui è meglio glissare. Negli anni ’80 per identificare colori, giocatori e stadio di una squadra del genere bisognava necessitare di un pochina di fortuna, diciamo un sorteggio europeo con una nostra rappresentante, qualche fotografia ( accontendantosi spesso del bianco e nero ) oppure c’era la soluzione più semplice al di là di prendere un costosissimo volo KLM per l’Olanda, ossia verificare il catalogo Subbuteo, autentica Stele di Rosetta per decifrare il ritrovato. Ed effettivamente al numero “civico” 400 albergava appunto il Den Haag, maglia bellissima gialloverde unita ad una cicogna bianca come simbolo. La denominazione completa va copiata con procedimento amanuense per non correre il rischio di scrivere strafalcioni: Haaglandse Football Club Alles Door Oefening Den Haag, per gli amici ADO Den Haag, fondato il 1° febbraio del 1905 presso il caffè (curioso eh) Het Hof Van Berlijn che dopo una serie di calci senza fissa dimora si trasferì nel 1925 allo Zuiderpark Stadion. Ecco, sullo Zuiderpark andrebbero spese un paio di parole perché questo impianto ha significato non solo una cartolina perfetta del periodo con quattro tribune strambe, ribassate, curve, cupe e contorte preda di molto vento, molto umido, poco sole ma è stato anche covo di un hooliganismo violento e corrusco che ha accompagnato per osmosi quantomeno ventennale le sorti del club rimpinzandosi di birre, anfetamine e dosi di “ero” a basso costo mentre fra Molenstraat e Oude Molestraat, le due principali vie cittadine, la vita sembrava scorrere tranquillamente. Un tifoso del Den Haag intervistato da una televisione locale disse che Den Haag era come una partita a scacchi per strada, procede lenta finché non ti sorprende alle spalle. Rivendicazioni, sottoculture, pura voglia di ballare sul filo letterale del rasoio, porteranno i sostenitori del Den Haag a essere considerati fra i più pericolosi al punto che un giorno del 1982 dopo una partita con l'Haarlem decideranno di bruciare una vecchia stand in legno e alcuni anni dopo, nel 1987, sempre nell'ingabbiato piccolo catino ribollente di Zuiderpark, la partita tra i padroni di casa e l'Ajax sarà interrotta a causa di una furibonda rissa sugli spalti. Una cinquantina di feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni, determineranno il primo pugno di ferro delle autorità: l'ingresso del pubblico al settore Nord dello stadio Zuiderpark verrà bandito per un lungo periodo. Eppure, a ripensarci bene alle volte quell’isteria collettiva, prepotente, e aggressiva mi alimenta una strana sensazione di vita rispetto a tanti teatrini di plastica odierni tutti belli e ordinati. Diceva Nietzsche che serve il caos per creare una stella danzante, beh forse è da incoscienti associarlo alla brutalità, o forse non del tutto. Ora, ci stiamo dimenticando che Deen Haag è stata squadra di calcio, due volte campione dei Paesi Bassi addirtittura durante la Seconda guerra mondiale e due volte ha alzato la KNVB Beker o Coppa D’Olanda, nel 1968 e nel 1975. E su questi ultimi due trionfi ci sono le mani di due tecnici all’epoca emergenti: Ernst Happel e Vujadin Boskov. Ernst Happel viennese purosangue, uno perennemente da Café Ritter, dove discutere di calcio, bere un bicchiere di cognac e fumarsi interi pacchetti di sigarette. Nel 1962 arriverà al Den Haag che impassibilmente lottava costantemente per non retrocedere portando la squadra a un ottimo quarto posto. Nel ‘68 gli farà mettere in bacheca la loro prima Coppa d’Olanda contro il più quotato Ajax grazie alle reti di Alex "Lex" Schoenmaker e Kees Aarts. Qui Happel metterà in luce l’importanza della preparazione atletica. Un giorno i giocatori del Den Haag si ammutinarono alla stregua del Bounty rifiutandosi di allenarsi sotto la pioggia battente. Ernst Happel allora prese una lattina, la posizionò sopra la parte superiore della traversa, si allontanò con enorme disinvoltura e la colpì al primo tentativo con un calcio preciso, lanciando una sorta di guanto di sfida ai suoi giocatori: chi la faceva cadere poteva andare in spogliatoio, chi sbagliava restava ad allenarsi. Quel giorno continuarono tutti l’allenamento. Boskov si sedette sulla panca dello Zuiderpark a metà circa degli anni Settanta. Come giocatore aveva una discreta reputazione (Vojvodina, Sampdoria, Young Boys, Nazionale jugoslava), come tecnico il Den Haag fu per lui l'inizio di una carriera che sarebbe stata altrettanto buona. Per Boskov tutto doveva lasciare il posto al risultato, unica modalità riconosciuta nella sua personale evangelizzazione. Niente poteva essere lasciato al caso, la preparazione, l'impegno e la prestazione dovevano essere sempre al cento per cento. Boskov ha saputo spremere il limone gialloverde fino all'ultima goccia. La squadra che vincerà la coppa del 1975 era prevalentemente giovane (Martin Jol, futuro capitano, Tscheu-la Ling, Boudewijn de Geer e Joop Korevaar, Simon van Vliet, Aad Kila, Hans Bres e Rob Ouwehand) con alcuni veterani come il portiere Ton Thie e e Aad Mansveld. Con sé porterà Dojcin Perazic dal Vojvodina e così aveva anche qualcuno con sé con cui conversare nella sua lingua madre. Quando durante la preparazione apparve evidente che l'attacco mancava di capacità decise di acquistare Henk van Leeuwen dal Roda JC, (capocannoniere della Prima Divisione). Quell'acquisto si è rivelato un successo. La squadra raggiunse la finale contro il favorito Twente ma un'acrobazia di Henk van Leeuwen siglerà la rete decisiva sugli sviluppi di un calcio di punizione. Poi l’anonimato, ascensori fra categorie e un’ultima finale del trofeo domestico, quella che mi incuriosì nel ormai lontano 1987, solo che davanti si trovarono l’Ajax di un certo Marco Van Basten e il cigno ebbe la meglio sulle cicogne ormai in estinzione sportiva.





lunedì 6 gennaio 2025

"LOOIE" E ST. JOHN'S


Nei gialli di Agata Christie, il suo personaggio immaginario di professione investigatore soleva ripetere che una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono due coincidenze ma tre coincidenze fanno una prova. Quindi, nel nostro caso, se diciamo nato a New York nel 1925, origini italiane, aggiungendoci College Basketball, probabilmente ogni indizio porta a un nome che ci ha lasciato un paio di mesi di fa: Lou Carnesecca. I natali in un palazzone d'arenaria scura nella Grande Mela, le radici a Pontremoli, alta Toscana quella con mezzo piede in Liguria, e la NCCA posta al centro della società e della cultura sportiva americana, in cui i giocatori ci transitano mentre gli allenatori tendono a restare, anche per decenni, sulla stessa panchina, diventando in tal modo dei personaggi, e in alcuni casi autentiche leggende. Lou Carnesecca, scomparso il 30 novembre 2024 a 99 anni (diamine a un mese circa da spegnere le candeline di un secolo di vita), è stata una di queste fino all’ultimo secondo della sua vita ancora munito di una memoria di ferro e di una lucidità invidiabile. Associarlo a icona indiscussa di St. John’s, università cattolica del Queens, è praticamente inevitabile. Quest’uomo che potremo definire senza dubbio d’altri tempi ha guidato la squadra di basket maschile dei Red Storm per ventiquattro stagioni, lasciando un taglio sulla tela della storia di questo college talmente importante ed incisivo da vedersi intitolata da vent'anni l’Alumni Hall, divenuta Carnesecca Arena, palasport da 5600 posti nel campus del quartiere Jamaica. E nel 2021 è apparsa anche una statua che lo ritrae con il pugno chiuso e le classiche maniche rimboccate nell’imitazione atta a rievocare la grinta che sfoderava a bordo campo durante ogni partita. Lou Carnesecca detto "Looie" se vogliamo è stato il classico allenatore di college vecchio stampo, tutto casa, chiesa e palestra. Magrolino, occhi e bocca particolarmente piccoli, il naso adunco, i capelli con la riga laterale da anonimo ragioniere nascondevano un uomo forte, carismatico, generoso e dalla parlantina vibrante, con quella voce rauca che non lasciava ammettere dubbi nei suoi concetti. Nascosto dall'esuberanza fisica dei suoi ragazzi durante i time out era in grado di farsi sentire e rispettare grazie a un carisma e una ironia di fondo unita al brillante intuito. E poi c'era quel pizzico di stravaganza che lo portava a vestirsi con dei maglioni discutibili, talmente colorati e vivaci che forse si farebbe fatica a indossare pure alla vigilia di Natale. In carriera ha vinto centinaia di partite, tuttavia, amava ripetere che il successo più gratificante per lui fu un match che in teoria non contava praticamente niente: un’amichevole con la nazionale Sovietica del colonnello Alekandr Gomelsky, disputata il 21 novembre 1977 in piena guerra fredda. Si giocò nel palazzo di St. John’s con arbitri americani e fu decisa (72-70) da una dubbia chiamata a favore dei collegiali per presunta invasione nel pitturato su un tiro libero. Alla fine, Carnesecca andò dal collega russo e gli disse, spiazzandolo e strappandogli un sorriso: “Pensi che se avessimo giocato a Mosca, avremmo vinto noi?”. Lou Carnesecca ha lasciato a St. John’s un’impronta indelebile, soprattutto un’enorme legacy. Nessun titolo nazionale, ma alla fine poco importa. Pare ci siano abituati a New York. Tanto il basket lo seguono lo stesso, perché resta comunque il City Game. St. John’s è un college molto amato in città. Soprattutto nel Queens è davvero una passione, sincera e popolare, lontana dalle luci di Manhattan. L’ateneo dei mitici Wonder Five degli anni ’20. L’unico programma sopravvissuto ad alti livelli dopo lo scandalo scommesse del 1951 che travolse il basket universitario newyorkese i cui atenei, all’epoca, ne costituivano una prestigiosa componente. Ogni tanto, i Red Storm – fino al 1995 Redmen, dopodichè il cambio per questioni di politically correct verso i nativi – che poi per tutti sono semplicemente i Johnnies, si prendono il lusso di giocare qualche incontro sentito o importante di regular season fra i muri del Madison Square Garden. E sono, o almeno erano, capaci di riempirlo, soprattutto in occasione degli scontri con le classiche rivali Georgetown e Villanova nella Big East Conference. Fu lì dentro, nel 1942, che il diciassettenne Lou assistette per la prima volta a una partita di quella che diventerà la sua squadra dell'anima, innamorandosi di quelle canotte rosse e dando inizio a un rapporto che nel giro di un anno lo avrebbe portato a giocare per loro. Carnesecca è entrato nel cuore dei newyorchesi con qualità umane, senso dell’umorismo e storia personale. “Le cose succedono. Io ho avuto la fortuna di essere nel posto giusto al momento giusto”. Con moltissimi giocatori usciti da St. John’s ha mantenuto forti legami: “Le vittorie, le sconfitte, saranno presto dimenticate. Invece le relazioni che costruisci con le persone con cui vieni a contatto dureranno una vita. Il basket è importante, ma è solo una piccola parte di quello che siamo”. Coach Carnesecca guiderà St. John’s dal 1965 al 1970 e dal 1973 al 1992, dopo esserne stato assistente dal 1958 al 1965. In mezzo, un intervallo di tre anni in ABA ai New York Nets. Qui allenerà Rick Barry perdendo le finali 1972 contro gli Indiana Pacers. Ma questa esperienza l’ha sempre deruribricata a momentanea follia: il suo mondo restava il college con bilancio sulla panchina dell’università del Queens che reciterà 526 vittorie e 200 sconfitte in 24 stagioni. Numeri che collocano la squadra biancorossa nella top ten di ogni epoca per numero di vittorie in NCAA Division I. Una filosofia capace di mantenersi ai vertici, pur prediligendo un essenziale reclutamento sul territorio, che difficilmente si spingeva oltre il New Jersey o le prime propaggini della Pennsylvania. Carnesecca porterà ogni anno i Redmen nella postseason con un record vincente. Non solo. Per 18 anni su 24 accederà al torneo NCAA con due approdi alle Elite 8 (1979 1991) e il punto più alto fu la Final Four del 1985. Squadra straordinaria, da Mark Jackson, a Chris Mullin, Walter Berry, Bill Wennington, Ron Rowan, Shelton Jones, e Willie Glass, squadra che perderà in semifinale con la Georgetown del nemico giurato John Thompson. Tre volte coach dell’anno della Big East (1983, 1985 e 1986), Carnesecca ha collezionato anche due Henry Iba Award (1983 e 1985), premio destinato al miglior coach universitario dell’anno. In bacheca anche un NIT nel 1989. Tra i suoi giocatori degli ultimi anni spiccano Jayson Williams, problematico futuro centro dei New Jersey Nets e Malik Sealy, che andrà incontro a un triste destino, morendo in un incidente stradale quando giocava nei Minnesota Timberwolves. Carnesecca ha allenato anche un italiano, Marco Baldi, a St. John’s nell’ultimo anno di Walter Berry. Si ritira nel 1992, dopo un’uscita al primo turno con Tulane. Speciale, e sempre signorile, era il suo rapporto con i suoi grandi avversari in panchina, Oltre a Thompson, c’erano Rollie Massimino, Bill Raftery, Joe Mullaney, Dom Perno, Jim Boeheim. Racconta Carnesecca: “Una volta giocavamo contro Seton Hall, entrava ogni tiro, eravamo sopra di 40 nel secondo tempo e stavo facendo entrare tutti. Sento un colpetto sulla mia spalla. Era uno dei manager di Seton Hall che mi dà un pezzo di carta. Disse che Raftery voleva che io lo leggessi. C’era scritto: “Mi arrendo. Se vuoi lavorare un po’ contro la zona, la farò”. L’avventura con St. John’s finirà nel 1992, Lou aveva già 67 anni. Il coach commentò così il suo addio: “Pochi possono dire basta quando vogliono, io ho avuto questa fortuna. Smetto adesso che sono ancora in gamba, che ho ancora il palato dolce. L’unico rimpianto è non aver mai vinto un titolo. Ma, come si dice qui, non tutti possono diventare presidente. E allora penso alle centinaia di partite vinte, a tutti i paesi che il basket mi ha fatto vedere, a tutti i ragazzi che ancora oggi vengono a trovarmi”. I suoi numerosi clinic estivi negli anni ’60 in Italia, il paese dei genitori di cui conosceva la lingua, sono stati fondamentali per introdurre concetti come l’aiuto difensivo e la difesa a zona pressing secondo linee diagonali con raddoppi in punti strategici del campo. Gli allenamenti a St. John’s non duravano mai più di due ore. Lou era profondamente consapevole dell’importanza del tempo da dedicare allo studio. Sosteneva che i dollari stavano rovinando l’università. Ed era orgoglioso che un’elevata percentuale dei suoi allievi riuscisse a laurearsi: "È stata una lotta farli studiare, ma non me ne pento. Questi giovani vengono al college per ricevere un’istruzione ed è giusto che si lasci loro il tempo di preparare gli esami. Anche se mi rendo conto che è sempre più difficile. La gente paga il biglietto per vedere una partita, non gliene frega nulla di assistere a un esperimento scientifico”. Le sedute in palestra di Lou Carnesecca erano perciò programmate nel segno dell’efficienza, con estrema attenzione ai dettagli. Ogni esercizio aveva una durata predefinita e l’intensità cresceva in progressione. I suoi interventi decisi ma pacati, con un tono di voce persuasivo in netto contrasto con la sua frenetica gestualità in partita, dove consumava le suole delle scarpe macinando chilometri lungo la linea laterale, sedendosi e alzandosi continuamente, parlando senza sosta con tutti, arbitri, allenatori avversari inclusi, persino con il pubblico, tuttavia mai con maleducazione. Perché considerava la vittoria sempre il suo ultimo faro: “Porterò sempre con me la ferita dell’ultima partita persa: la sconfitta è come un pugnale, un’agonia, e solo con un’altra vittoria si può guarire”.

 

 

IL CASO MO JOHNSTON

  Quartiere di Govan, esterno giorno. Luce tenue della mattina, asfalto bagnato, un chiosco di chips e hot dog infradiciato dalla pioggia ap...