lunedì 6 gennaio 2025

"LOOIE" E ST. JOHN'S


Nei gialli di Agata Christie, il suo personaggio immaginario di professione investigatore soleva ripetere che una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono due coincidenze ma tre coincidenze fanno una prova. Quindi, nel nostro caso, se diciamo nato a New York nel 1925, origini italiane, aggiungendoci College Basketball, probabilmente ogni indizio porta a un nome che ci ha lasciato un paio di mesi di fa: Lou Carnesecca. I natali in un palazzone d'arenaria scura nella Grande Mela, le radici a Pontremoli, alta Toscana quella con mezzo piede in Liguria, e la NCCA posta al centro della società e della cultura sportiva americana, in cui i giocatori ci transitano mentre gli allenatori tendono a restare, anche per decenni, sulla stessa panchina, diventando in tal modo dei personaggi, e in alcuni casi autentiche leggende. Lou Carnesecca, scomparso il 30 novembre 2024 a 99 anni (diamine a un mese circa da spegnere le candeline di un secolo di vita), è stata una di queste fino all’ultimo secondo della sua vita ancora munito di una memoria di ferro e di una lucidità invidiabile. Associarlo a icona indiscussa di St. John’s, università cattolica del Queens, è praticamente inevitabile. Quest’uomo che potremo definire senza dubbio d’altri tempi ha guidato la squadra di basket maschile dei Red Storm per ventiquattro stagioni, lasciando un taglio sulla tela della storia di questo college talmente importante ed incisivo da vedersi intitolata da vent'anni l’Alumni Hall, divenuta Carnesecca Arena, palasport da 5600 posti nel campus del quartiere Jamaica. E nel 2021 è apparsa anche una statua che lo ritrae con il pugno chiuso e le classiche maniche rimboccate nell’imitazione atta a rievocare la grinta che sfoderava a bordo campo durante ogni partita. Lou Carnesecca detto "Looie" se vogliamo è stato il classico allenatore di college vecchio stampo, tutto casa, chiesa e palestra. Magrolino, occhi e bocca particolarmente piccoli, il naso adunco, i capelli con la riga laterale da anonimo ragioniere nascondevano un uomo forte, carismatico, generoso e dalla parlantina vibrante, con quella voce rauca che non lasciava ammettere dubbi nei suoi concetti. Nascosto dall'esuberanza fisica dei suoi ragazzi durante i time out era in grado di farsi sentire e rispettare grazie a un carisma e una ironia di fondo unita al brillante intuito. E poi c'era quel pizzico di stravaganza che lo portava a vestirsi con dei maglioni discutibili, talmente colorati e vivaci che forse si farebbe fatica a indossare pure alla vigilia di Natale. In carriera ha vinto centinaia di partite, tuttavia, amava ripetere che il successo più gratificante per lui fu un match che in teoria non contava praticamente niente: un’amichevole con la nazionale Sovietica del colonnello Alekandr Gomelsky, disputata il 21 novembre 1977 in piena guerra fredda. Si giocò nel palazzo di St. John’s con arbitri americani e fu decisa (72-70) da una dubbia chiamata a favore dei collegiali per presunta invasione nel pitturato su un tiro libero. Alla fine, Carnesecca andò dal collega russo e gli disse, spiazzandolo e strappandogli un sorriso: “Pensi che se avessimo giocato a Mosca, avremmo vinto noi?”. Lou Carnesecca ha lasciato a St. John’s un’impronta indelebile, soprattutto un’enorme legacy. Nessun titolo nazionale, ma alla fine poco importa. Pare ci siano abituati a New York. Tanto il basket lo seguono lo stesso, perché resta comunque il City Game. St. John’s è un college molto amato in città. Soprattutto nel Queens è davvero una passione, sincera e popolare, lontana dalle luci di Manhattan. L’ateneo dei mitici Wonder Five degli anni ’20. L’unico programma sopravvissuto ad alti livelli dopo lo scandalo scommesse del 1951 che travolse il basket universitario newyorkese i cui atenei, all’epoca, ne costituivano una prestigiosa componente. Ogni tanto, i Red Storm – fino al 1995 Redmen, dopodichè il cambio per questioni di politically correct verso i nativi – che poi per tutti sono semplicemente i Johnnies, si prendono il lusso di giocare qualche incontro sentito o importante di regular season fra i muri del Madison Square Garden. E sono, o almeno erano, capaci di riempirlo, soprattutto in occasione degli scontri con le classiche rivali Georgetown e Villanova nella Big East Conference. Fu lì dentro, nel 1942, che il diciassettenne Lou assistette per la prima volta a una partita di quella che diventerà la sua squadra dell'anima, innamorandosi di quelle canotte rosse e dando inizio a un rapporto che nel giro di un anno lo avrebbe portato a giocare per loro. Carnesecca è entrato nel cuore dei newyorchesi con qualità umane, senso dell’umorismo e storia personale. “Le cose succedono. Io ho avuto la fortuna di essere nel posto giusto al momento giusto”. Con moltissimi giocatori usciti da St. John’s ha mantenuto forti legami: “Le vittorie, le sconfitte, saranno presto dimenticate. Invece le relazioni che costruisci con le persone con cui vieni a contatto dureranno una vita. Il basket è importante, ma è solo una piccola parte di quello che siamo”. Coach Carnesecca guiderà St. John’s dal 1965 al 1970 e dal 1973 al 1992, dopo esserne stato assistente dal 1958 al 1965. In mezzo, un intervallo di tre anni in ABA ai New York Nets. Qui allenerà Rick Barry perdendo le finali 1972 contro gli Indiana Pacers. Ma questa esperienza l’ha sempre deruribricata a momentanea follia: il suo mondo restava il college con bilancio sulla panchina dell’università del Queens che reciterà 526 vittorie e 200 sconfitte in 24 stagioni. Numeri che collocano la squadra biancorossa nella top ten di ogni epoca per numero di vittorie in NCAA Division I. Una filosofia capace di mantenersi ai vertici, pur prediligendo un essenziale reclutamento sul territorio, che difficilmente si spingeva oltre il New Jersey o le prime propaggini della Pennsylvania. Carnesecca porterà ogni anno i Redmen nella postseason con un record vincente. Non solo. Per 18 anni su 24 accederà al torneo NCAA con due approdi alle Elite 8 (1979 1991) e il punto più alto fu la Final Four del 1985. Squadra straordinaria, da Mark Jackson, a Chris Mullin, Walter Berry, Bill Wennington, Ron Rowan, Shelton Jones, e Willie Glass, squadra che perderà in semifinale con la Georgetown del nemico giurato John Thompson. Tre volte coach dell’anno della Big East (1983, 1985 e 1986), Carnesecca ha collezionato anche due Henry Iba Award (1983 e 1985), premio destinato al miglior coach universitario dell’anno. In bacheca anche un NIT nel 1989. Tra i suoi giocatori degli ultimi anni spiccano Jayson Williams, problematico futuro centro dei New Jersey Nets e Malik Sealy, che andrà incontro a un triste destino, morendo in un incidente stradale quando giocava nei Minnesota Timberwolves. Carnesecca ha allenato anche un italiano, Marco Baldi, a St. John’s nell’ultimo anno di Walter Berry. Si ritira nel 1992, dopo un’uscita al primo turno con Tulane. Speciale, e sempre signorile, era il suo rapporto con i suoi grandi avversari in panchina, Oltre a Thompson, c’erano Rollie Massimino, Bill Raftery, Joe Mullaney, Dom Perno, Jim Boeheim. Racconta Carnesecca: “Una volta giocavamo contro Seton Hall, entrava ogni tiro, eravamo sopra di 40 nel secondo tempo e stavo facendo entrare tutti. Sento un colpetto sulla mia spalla. Era uno dei manager di Seton Hall che mi dà un pezzo di carta. Disse che Raftery voleva che io lo leggessi. C’era scritto: “Mi arrendo. Se vuoi lavorare un po’ contro la zona, la farò”. L’avventura con St. John’s finirà nel 1992, Lou aveva già 67 anni. Il coach commentò così il suo addio: “Pochi possono dire basta quando vogliono, io ho avuto questa fortuna. Smetto adesso che sono ancora in gamba, che ho ancora il palato dolce. L’unico rimpianto è non aver mai vinto un titolo. Ma, come si dice qui, non tutti possono diventare presidente. E allora penso alle centinaia di partite vinte, a tutti i paesi che il basket mi ha fatto vedere, a tutti i ragazzi che ancora oggi vengono a trovarmi”. I suoi numerosi clinic estivi negli anni ’60 in Italia, il paese dei genitori di cui conosceva la lingua, sono stati fondamentali per introdurre concetti come l’aiuto difensivo e la difesa a zona pressing secondo linee diagonali con raddoppi in punti strategici del campo. Gli allenamenti a St. John’s non duravano mai più di due ore. Lou era profondamente consapevole dell’importanza del tempo da dedicare allo studio. Sosteneva che i dollari stavano rovinando l’università. Ed era orgoglioso che un’elevata percentuale dei suoi allievi riuscisse a laurearsi: "È stata una lotta farli studiare, ma non me ne pento. Questi giovani vengono al college per ricevere un’istruzione ed è giusto che si lasci loro il tempo di preparare gli esami. Anche se mi rendo conto che è sempre più difficile. La gente paga il biglietto per vedere una partita, non gliene frega nulla di assistere a un esperimento scientifico”. Le sedute in palestra di Lou Carnesecca erano perciò programmate nel segno dell’efficienza, con estrema attenzione ai dettagli. Ogni esercizio aveva una durata predefinita e l’intensità cresceva in progressione. I suoi interventi decisi ma pacati, con un tono di voce persuasivo in netto contrasto con la sua frenetica gestualità in partita, dove consumava le suole delle scarpe macinando chilometri lungo la linea laterale, sedendosi e alzandosi continuamente, parlando senza sosta con tutti, arbitri, allenatori avversari inclusi, persino con il pubblico, tuttavia mai con maleducazione. Perché considerava la vittoria sempre il suo ultimo faro: “Porterò sempre con me la ferita dell’ultima partita persa: la sconfitta è come un pugnale, un’agonia, e solo con un’altra vittoria si può guarire”.

 

 

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