Verrebbe da maledire l’inchiesta detta “Calciopoli” e voi,
sbirciando la foto, vi starete certamente chiedendo cosa c’entri quella roba
con un Colligiana-Poggibonsi degli anni ’50. E invece c’entra, perché se quel
funambolo prestato al pallone chiamato Zlatan Ibrahimović non fosse passato
dalla Juventus all’Inter in seguito alla defenestrazione della “Signora” in
serie B nell’estate pruriginosa e stuzzicante del 2006, lo svedese senza sangue
svedese forse non avrebbe consentito ai nerazzurri di inanellare una striscia
formidabile di 17 vittorie consecutive che gli portò ad eguagliare un record
che nel calcio italiano dei tabellini ufficiali apparteneva alla squadra di
Colle di Val D’Elsa, non Colle Val d’Elsa, occhio, qui occorre essere precisi
nei toponimi, in queste strade fatte di viti e olivi, di terra dissodata,
silenzio e principi di alabastro, se vogliamo ancora una mezza periferia di
Medioevo, dove in una serata fosca di nebbia potreste scorgere una compagnia di
soldati di ventura intenti a cercare asilo e lauti ingaggi. In realtà esistono
due “colli”: Colle alta e Colle bassa, la prima è più antica e panoramica, un
prezioso presepe con un groviglio di vie che sbucano inaspettate sulla cinta
muraria da cui si può godere il paesaggio delle colline; la seconda, invece, si
allunga verso sud e merita attenzione in quanto sede del Museo del Cristallo
che qui nel Novecento ha fatto fortuna, fama e stipendi. Da secoli, al ponte di
San Marziale, il fiume Elsa incontra la cosiddetta "steccaia", ovvero
lo sbarramento che serve a trattenere l'acqua per deviarla nelle
"gore" grazie ad un sistema di chiuse mobili che ha favorito
l’artigianato colligiano e la lavorazione del vetro. Colle, inoltre, resta
cittadina di confine fisico e sentimentale, abitata da gente un po’arcigna,
verace e impetuosa, insomma i soliti toscanacci degni eredi di Dante, Cecco e
Cacciaguida, assopita fra il respiro della grande matrona fiorentina e la
piccola perla senese; qui non a caso si combatté nel 1269 una delle battaglie decisive
in cui il partito Guelfo rialzò i vessilli, raccolse i cocci di Monteaperti e
si riprese l’egemonia della zona sconfiggendo i Ghibellini di Salvani. La
Colligiana del calcio era nata nel 1922 e almeno fino alla costruzione del
nuovo impianto sportivo giocava le proprie partite interne nel campo di
Sant’Agostino, un campo acerbo incastrato fra le vecchie case con alle spalle
degli spogliatoi il campanile della Chiesa e accanto la ciminiera scura della
“Fabbrichina”. Quel campo sterrato, piccolo, di polvere e erbetta stenta,
conteneva una fetta di passato glorioso. Nella stagione 1957-58 la Colligiana,
sotto la presidenza dell’ingegnere Giustino Gallanti con Gino Manni allenatore
(a lui sarà dedicato lo stadio attuale), visse una pagina bellissima e
struggente in quel periodo empirico degli anni Cinquanta, intriso di
neorealismo, di lambrette, di saggezza contadina, di donne e uomini che non
andavano in palestra, di briscole e “madonne”, di sagrestie e vespro, e di
tanti Peppone e Don Camillo. Accadde che la Colligiana balzerà sulle cronache
giornalistiche nazionali ottenendo il record italiano ed europeo di 17 successi
consecutivi, vincendo il campionato di Prima Divisione, giusto in quel campo
ormai dimenticato dove un tempo si giocava anche il mitico torneo dei Bar, fra
Sant’Agostino, Fontibona e La Buca. Su tutti il portiere Bruchi e il capitano
Panti, poi Gnoato, Nencetti, Vergani, Polese, Lotti, Soldi, Pacchierotti,
Carmignani e Malandrini, tutte facce da pane e salame della nostra perduta
fragile innocenza, stretti e vitrei, invischiati di speranza in quel cono di
luce apparso fra il dopoguerra e il duemila: l'Italia "degli americani che
proprio ieri sono andati via", come canta Amedeo Minghi nella sua
romantica "Serenella".
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