mercoledì 30 settembre 2020

IL CAVOLO SOTTO L'OROLOGIO




L'io narrante presenta il piccolo borgo olandese di Vondervotteimis. Un vecchio villaggio situato in una valle sperduta, sul quale è inutile indagare l’etimologia del nome perché in tanti ci hanno provato e in altrettanti rinunciato. Nessun abitante lo ho mai lasciato, nella convinzione che niente esista oltre le colline da cui è circondato. A Vondervotteimittiss, tutto deve restare uguale. I consiglieri comunali hanno deliberato che nulla debba cambiare e che gli orologi e i cavoli della cittadina costituiscano tutto ciò cui rimanere fedeli. Le case della borgata sono tra loro indistinguibili sia all'esterno che all'interno, e su di esse sono rappresentati un orologio e un cavolo. Tic-toc, tic -toc, e così via, senza soluzione di continuità. Eccola a nudo, nel “il Diavolo nel Campanile”, romanzo lisergico di Edgar Allan Poe, quell’Arancia Meccanica dai calcetti sincronizzati e perfetti, totalizzanti nel loro ego ipertrofico. Ma se Stanley Kubrik stupì il mondo con il suo film del 1971 cogliendo il pubblico impreparato davanti alla capacità di controllare tutte le fasi del processo creativo attraverso un funambolico esercizio di stile dove il tutto si incastra a perfezione, quell’Olanda ci provò e il tic-toc ammaliò le folle, solo che alla fine restarono i cavoli. Tuttavia nessuno fu più bello di loro, libertini, folli, rivoluzionari privi di epos, un autentica erboristeria del Corso dedita al calcio a tempi persi, rivestiti da quella febbre arancione, quel colore immaginifico, residuo della casata d’Orange. Cosa vuoi l’Ajax stava dominando l’Europa e tutti si sdrusciavano al ritmo di Let i Be, ma il mondo ha aspetti più crudeli che ludici, il mondo è dispotico, geloso, e gli aspettava in Germania per recidere sul nascere lo sboccio compiuto del tulipano in amore. Fu Marinus Michels (ma si, Rinus), a scompigliare i tarocchi del cartomante inventando uno stile dove ogni giocatore doveva fare altri ruoli, prendere quello del compagno scoperto, con la consapevolezza un pò freak di non modificare impostazioni e perdersi in perimetri sconosciuti. Tic-toc. Tic-toc. Proprio come la lancetta onirica dell’orologio di Vondervotteimittiss. Scambi ravvicinati, mentre il cronometro girava. Pressing? A che serve? Gegenpressing? bah... La Germania, quella federale, quella Germania battuta sorprendentemente dai vicini democratici seppur murati nell'animo, in una partita simbolo del girone eliminatorio, esiste, ma non si muove. Tic-toc,Tic-toc. L’orologio scandisce, l’odore di cavolo per il momento ristagna negli orti attorno ai canali. Dolcezza. Perché la meccanica olandese ti consente di capire il concetto di tolleranza. Una parola della quale tutti dovremmo tornare a riscoprire il significato. Un orologio non funzionerebbe se non ci fossero le tolleranze che consentono a una serie di organi di stare assieme. Vive perché́ ogni singola parte tollera quella che gli sta vicino e che per lavorare ha bisogno dei suoi spazi. Un perno di una ruota in un foro troppo preciso non funzionerebbe, perché́ ha bisogno di un seppur minimo gioco. Con l’Olanda di Michels, l’orologio è arrivato ad avvicinarsi al concetto di assoluta precisione. Toh, la sincronia appare perfetta, cadenzata, da una maglia arancione all’altra. Poi, d’improvviso, il lampo. Parte palla al piede l’ultimo uomo. Che in una squadra normale sarebbe un difensore. Ma non parliamo di una squadra normale. E l’ultimo uomo ha la maglia numero 14 e si chiama Johan Cruijff. Che in quel lustro risulta il miglior calciatore del globo, anticipa, ti spezza il fiato, se ne va, poi magari ritorna sui suoi passi e decide di metterti a sedere solo perché gli piace, come quelle maledette sigarette fumate nel dopo partita. Fa ciò che lo galvanizza e allora va a prendersi il pallone a centrocampo. Accelera, punta Berti Vogts, l’errante coscritto da guerra dei trent’anni, uno che di norma, se non smarrito su sentieri di sbronza, gli restano un paio di possibilità: provare a fare il terzino destro oppure il fabbro, due mestieri straniti dal non possedere comune sindacato. Nel piano tattico di Helmut Schön, Vogts, prova a francobollare Cruijff in ogni zona del campo. Per informazioni chiedere al povero Jan Olsson che giusto diciotto giorni dopo Olanda-Svezia lo stava ancora cercando sull’erba di Düsseldorf. Il 14 aumenta il passo, finta, Berti saluta. Ah, dimenticavo in quella partita l’arbitro è Jack Taylor, un inglese che gestisce una macelleria a Wolverhampton. Un quarto d’ora prima della partita entra per un controllo e inizia a guardare circospetto il terreno di gioco, poi, abbastanza compiaciuto, chiama un inserviente:

“Eh, certo, bravi voi tedeschi organizzazione perfetta, gran mondiale, però se potete farmi il piacere di mettere le bandierine sui corner vi ringrazierei molto”

Carosello. Entra in scena un personaggio inatteso. Uli Hoeness, mancinaccio che di mestiere fa l’attaccante nel Bayern. Cosa ci fa al limite della sua area? Sarà la contingenza astrale dell’allineamento di pianeti dovuta all’influsso del calcio totale, o la conseguenza del cervellotico tic toc? In quel punto del campo non è assolutamente in grado di discernere. E se usasse il fioretto? (No fallirebbe e Dumas (padre) pace all’anima sua, potrebbe risentirne). Allora magari potrebbe stare fermo ma cosa vuoi, quando davanti si profila il fronte l’adrenalina è tanta e dall’armeria lui tira giù la roncola. Cruijff finisce faccia a terra quasi sulla linea di fondo nonostante il duello al OK Corral dell’Olympiastadion sia avvenuto al limite dell’area. Rigore. C’è chi non è d’accordo. E' uno scompigliato tedesco, leggermente stempiato, con la faccia da bravo ragazzo del coro, il numero cinque sulle spalle e la fascia da capitano al braccio. Sembrava stufo di perdere Mondiali. Franz Beckenbauer era a Wembley nel 1966 a cercare di metabolizzare un pallone mai entrato e ha passato 120 minuti sul prato dell’Azteca in condizioni diciamo complicate in quel 4-3 contro l’Italia da neorealismo felliniano. E ora, dopo sessanta secondi, già si vede sotto a causa di un penalty non del tutto chiaro. Intendiamoci, il fallo c’èra, tuttavia la gamba di Hoeness che atterra Cruijff pareva fuori area. No, si batte, inutili le proteste, la palla è sul dischetto. Si presenta un altro Johan. L’altro. Neeskens, lo scudiero, capello da front man, una cinquantina di camicie a fiori nell’armadio della sua mansarda di Amsterdam, un paio di polmoni inesauribili, ottimo controllo di palla e soprattutto infallibile dagli undici metri. Breve rincorsa e rete, centrale, secca. Sepp Maier è agile ma non fa parte della categoria degli estremi difensori che provano a restare fermi. Lui si infila guanti bianchi e in fondo è un circense nell’anima, deve muoversi. Monaco tace. L’Olanda è in vantaggio. Si ma l’Olanda a orologeria si inceppa. Si ostina a compiacersi delle sue trame, nella sua sfrontatezza. Manca la rabbia, la voglia di sorprendere e di spaccare definitivamente quel mondo di conservatori. Di colpo, la squadra di Michels diventa Narciso, si avvicina all’acqua un po’ troppo pericolosamente, ma attenti non badate alle ninfe, attenti alla vita, al mondo, sempre lui, il mondaccio crudele; il mito di Narciso ve lo hanno spiegato male. Narciso muore annegato perchè per la prima volta, specchiandosi nel laghetto, si accorge che esiste e il suo vedersi nella vita lo deprime fino agli esiti estremi. L’uomo uscito dal nulla è Bernd Hölzenbein. Scatta, dribblando una difesa olandese arenata come i battelli della compagnia delle Indie al porto di Maracaibo, e i piedi di Hölzenbein e di Wim Jansen si scontrano, anche se l’impressione è che sia il tedesco a cercare il contatto. Taylor cerca di sfogliare con la mente ogni pagina polverosa delle Rules di Sheffield, ma alla fine propende per un nuovo calcio di rigore. Oh, il secondo in venticinque minuti, un record. Sul pallone i baffi anarchici e le basette incolte sotto il cespuglio di Paul Breitner. Di fronte ha uno spettacolo altrettanto particolare. Un portiere vestito con un’improbabile divisa giallo canarino contrassegnata dal numero 8: Jan Jongbloed, il tabaccaio, che gioca da dilettante in una squadretta quasi dopolavorista. Però con i piedi sembra Pelè e a Michels serviva un tipo così. Breitner sceglie un angolo, ci azzecca: 1-1. Accade che l’orologio si è davvero fermato lassù a Vondervotteimittiss e l’odore di cavolo nelle pentole adesso si avverte nell’aria tumida della Baviera. Cruijff non corre più, Krol gira a vuoto, Johnny Rep, l’Apollo, non ammalia più nessuno: seratina? Qualcuno sospetta. E la partita gira, chiaro. Gira alla stregua di Gerd Müller, piccolo, sgraziato, con due piedi non esattamente educati ma nei pressi della porta puntuale come la morte.  Bonhof, crossa rasoterra al centro dell’area. Müller c’è. La palla ha un breve effetto e gli finisce dietro, eppure si gira bene, inatteso, imbacuccato nel saio perfetto. A Jongbloed non serve l’attenuante di non essere portiere patinato. Der Bomber esulta, tutto lo stadio, esulta, apparte quella chiazza arancione che ancora vedeva le tracce dei panzer tedeschi sul fango di Utrecht e Arnhem. Non siamo neanche all’intervallo, tuttavia, signori, la partita finisce qui. Cruijff si becca un giallo per proteste. Di quel giorno di luglio del '74 non c’è nulla da ricordare, da tener caro. Ci sarà tempo e modo per riprovarci, ma il risultato sarà sempre quello. Un palo listato a lutto, nero, sfortunato, impedisce a Rensenbrink di decidere il mondiale del 1978. Nella memoria collettiva resterà la Grande Olanda, ma anche l’odore di cavolo di chi, appunto, non vincerà un cavolo. E finirà suicida nel suo distorcere le forme al pari della notte stellata di Van Gogh, dove il naturale è trasfigurato, finendo colpito dall’ultima crisi nervosa in mezzo ai campi di grano.

 



 

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