sabato 10 ottobre 2020

BOCA DE MI VIDA


Le ultime note di un Bandoneón risuonano nella piccola sala semi-deserta del Tortoni, l’antico Cafè sul Caminito. Sono le tre del mattino e un irriducibile gruppo di “afectionados” tende l’orecchio all’emozione che ogni “lettra de tango” racconta agli occhi e al cuore. Sigarette accese e candele consumate tengono compagnia a chi è ancora seduto sulle sedie del locale. Forse aspettano ancora di invitare oppure di essere invitati. Suggestionati dalla musica, smarriti nel ricordo di donne perdute, di amori improbabili, nella fatica esistenziale di un percettibile malessere popolare. Sonnambuli della danza. Smettere è impossibile perché il Tango ti cattura, ti seduce e ti offre l’opportunità di rimetterti in gioco ogni volta che l’incantesimo si consuma. Che cosa succederà? si chiedono le donne, che cosa creerò insieme a lei si domandano gli uomini. Occhi chiusi e abbracci illeciti degni del primo scricchiolante confessionale. C’è n’era uno, laicissimo a dire il vero, eppure nella bottega di Silvino, barbiere di fiducia in Calle Brandsen, i peccati venivano fuori come i serpenti nella bella stagione. Lui sapeva tutto di tutti. Lui sapeva persino il vero risultato dell'amichevole d'esordio disputata dal Boca Juniors su cui ancora oggi molti appassionati si dividono. Per qualcuno quella contro il Mariano Moreno nel giugno del 1905 fu un successo timbrato 4-0, altri riportano un 3-1 sempre a favore del Boca. Silvino si è voluto tenere il segreto per sé portandoselo dietro, lassù, nel suo angolo privato di paradiso rivestito di coriandoli gialloblu.

Nessun posto nel mondo ha i colori di Caminito, la strada del quartiere La Boca a Baires: case variopinte costruite con materiale economico e senza balconi, tetti di lamiera e legno umido, spennellate da ciò che resta delle vernici usate per tinteggiare le barche. Le abitazioni emergono rispetto al fondo stradale per evitare le inondazioni dovute alla vicinanza con il fiume, sporco e fangoso, che vi scorre affianco cercando la foce. Un quartiere, anzi un’isola dentro la città. La zona portuale piena di immigrati, sinonimo di povertà, di proletariato, di contrasti umorali quotidiani, un ossimoro di lacrime e allegria. Questa è La Boca: la Bocca, il vecchio porto pronto ad accogliere travi, assi, fragranze e uomini provenienti da luoghi lontanissimi. A essere sinceri adesso la Boca non è più una rada portuale, oggi ci sono i nuovi scali di Puerto Madero, le navi che sostano sul porto servono più da delizioso sfondo per le foto ricordo dei turisti ergendosi a quinte emendate di ballerini o, spesso, per adirate rivendicazioni sociali. La ricchezza, diciamocelo francamente, sono solo quei due colori marcati ovunque. Sui muri, nelle bandiere appese alle finestre, tatuati sulla pelle, impressi, soprattutto, nell’anima. Giallo e Blu. Il sole e il cielo. Dove il blu è così luminoso da diventare quasi argento come quello cercato dagli spagnoli sulle rive della Plata che poi ha dato il nome alla nazione. I colori ti fissano, ti accarezzano, ti accompagnano fra gli edifici, attraverso contrazioni ritmiche, fino al parossismo di un orgasmo, fino a che gli occhi si riempiono di eterno e lei appare. E allora, solo allora, ti accorgi che venire qui almeno una volta nella vita è stato uno di quei giorni per cui è valsa la pena di esserci: la Bombonera. Lo stadio in cui mezza città si riversa ogni volta che gioca la squadra Xeneize. La Bombonera pulsa, la Bombonera si accende, la Bombonera è fuoco e orgoglio. Xeneizes: genovesi. Si, ma la storia è particolare. Ed è la storia più difficile, poiché è la storia di un club fra i più amati del globo. Dove attenzione, la parola amore non sta per mera quantità di sostenitori ma intesa nell’accezione del parametro di sangue in ebollizione a causa di un simbolo. Allora indietro, foto in bianco e nero, lampo al magnesio e partiamo.

Da dove? Da Muro Lucano provincia di Potenza. Nel 1848 vi nasce Francesco Pablo Farenga arrivato in Argentina nel 1870 con le ondate di emigranti fuggite dalla miseria alla ricerca angosciata di un tozzo di pane e di un lume acceso sul futuro dentro una terra straniera e sconosciuta. Quando gli italiani scesero a la Boca furono genericamente chiamati “genovesi” in quanto la maggior parte delle navi che lì trasportava partivano proprio dal capoluogo ligure e in breve la comunità di stanza al porto restò veramente un enclave genovese. Francesco, che all'anagrafe diventerà Francisco, conosce Livia Vallega una ragazza nata a pochi chilometri dalla Lanterna. Si sposeranno nel 1879 e dal matrimonio nasceranno cinque figli: Manuela Angela, Juan Antonio, Josè Maria, Teodoro Esteban e Enrique. Francisco è un falegname, abita in Calle Pinzon al civico 267. La sua casa diventerà la prima empirica segreteria del Club Atletico Boca Juniors e dalla sua bottega usciranno le quattro bandierine del calcio d’angolo, le tavole per la tribuna e naturalmente i legni delle porte. Calma, ci arriviamo, servono gli inglesi, sempre loro. I marinai britannici scendono un pallone e danno empiriche lezioni del gioco praticandolo negli spiazzi di carico e scarico del porto della capitale e sui terreni limitrofi alle ferrovie, naturalmente in loro appalto, che cominciano ad unire le città più importanti del paese. Il corto circuito scoppierà fatidico nel 1867. Nasce un club gestito da britannici chiamato Buenos Aires Football Club e dopo un breve lasso di tempo le scuole introducono questa disciplina nelle ore dedicate all’educazione fisica degli studenti. Gli argentini osservano, assimilano e subito imitano, anzi no, impongono la propria scrittura di scena facendo tornare il foglio bianco, cancellando il testo per riproporlo a piacere, secondo sovrastrutture mentali concepite dal quel crogiolo di umanità mista. Nel 1904 la fama del calcio ha già incominciato a echeggiare nelle polverose strade di Baires, lo si vede su campetti improvvisati delimitati da perimetri fatti con un gessetto sottratto furbescamente al maestro di turno. Alla Boca ci sono alcuni ragazzi davvero bravi. Otto italiani, in pratica una manciata di panni sporchi che parlano per lo più in dialetto e corrono come pazzi dietro a un pallone di cartone pressato e sanno addomesticarlo: Esteban Baglietto, Santiago Sana, Alfredo Scarpatti, Amedeo Gelsi, Alberto Talent, Pedro e Teodoro Moltedo, Josè e Juan Antonio Farenga.

Si, loro. I figli di Francesco, il falegname di Muro Lucano. Gli otto hanno un occasione. Nella primavera del 1905 vengono convocati dalla squadra dell’Independencia Sur per una partita. C’è un problema non considerato: vengono sconfitti. E non ci stanno, non accettano il verdetto. Si sentono forti e quella società la ritengono ridicola, non adatta. Si intestardiscono al punto da volerne crearne alla svelta una propria. Passa un mese e si riuniscono in una stamberga di Plaza Solis dove prenderà forma l’embrione del Boca Juniors. Boca il luogo, chiaro, mentre all’associazione con il suffisso Juniors ci pensò un marinaio inglese dopo un paio di pinte di birra. Era nata una ragione di vita, l’oratoria sul DNA, la cicatrice del Barrio. Con sei pesos al mese affittano i terreni, la Bombonera arrivò più tardi, nel 1940, disegnata da un architetto sloveno naturalizzato argentino: Viktor Sulcic. Ma il soprannome che nasconde la denominazione ufficiale dell' “Estadio Alberto Jacinto Armando”, si deve al tempestivo commento di un collaboratore di Sulcic, tale Josè Delpini, che a impianto terminato lo paragonò a una scatola di bombones, ossia cioccolatini, esattamente come quella che aveva ricevuto in regalo nel giorno dell’inaugurazione.
 
Fermi. La favola deve ancora compiersi nel suo prodigio. Al club mancavano i colori. E’ vero, qualche incontro lo avevano giocato con delle divise biancastre raccattate da scarti di merceria e comunque ormai logore. Adesso il Club Atletico Boca Juniors aveva bisogno di una sua tinta speciale. Ma quale? L’autunno del 1905 portò consiglio. L’autunno australe, girandola di luci ed emozioni, prisma di sfumature calde che si rifrangono fino alla Patagonia, laggiù, verso la fine di tutto. Giovanni Juan Brichetto di mestiere guardiano del faro guardò verso l’orizzonte e partorisce una sentenza. Curiosa, accettata e messa in atto: “Anemmo a o porto a vedde a primma nave ch’a passa. A seu bandea saian i colori de noiatri“. E la nave passò. Un bastimento svedese chiamato “Drottling Sophia”, croce orizzontale gialla in campo blu. Fatto, i colori del Boca sono pronti ad essere cuciti e indossati per sempre.

Il Boca Juniors ha vinto sei edizioni della coppa Libertadores. Sembrano tante ma fino al 1977 quel trofeo è stato una vera ossessione. Dopo 6 anni senza successi, sulla panchina azul y oro arrivò Juan Carlos Toto Lorenzo, protagonista di un notevole ciclo di vittorie nazionali e internazionali, e la squadra nel 1976 conquista sia il campionato Metropolitano che quello Nacional battendo in finale gli odiati rivali del River Plate il 22 dicembre nello stadio del Racing Club de Avellaneda, con goal su calcio di punizione di Rubén José Suñé. Pensate solamente una cosa. Fino alla metà del secolo scorso era tacitamente proibito sposarsi fra donne e uomini di fede cittadina calcistica differente in nome del sacro dualismo che sorregge la storia del calcio bonaerense. Quattro anni anteriori alla nascita del Boca Juniors, nello stesso quartiere di Baires, germinava infatti l’antitesi del Boca: il River Plate. Anche loro frutto di “genovesi” come ricorda bene la tinta che riprende la croce rossa in campo bianco esibita sulla bandiera di San Giorgio, simbolo di Genova. Entrambe le squadre in origine giocavano entrambe alla Boca. Poi negli anni cinquanta il River vende Omar Sivori e Alfredo Di Stefano e grazie a quei soldi si trasferirà più a nord, a Nunez, nel Barrio Palermo. Un quartiere ricco, benestante, dove viene costruito l’imponente Monumental, lo stadio dei “Millionarios”, oppure se volete apostrofarli alla stregua dei tifosi del Boca, delle “gallinas”, le galline.

Fatto sta che nel 1977 dopo 14 anni il Boca raggiunge la sua seconda finale di Libertadores. Ad aspettarlo una brasiliana, il Cruzeiro campione in carica. Dopo tre estenuanti match, con l’ultima partita giocata in campo neutro a Montevideo e risolta solo ai calci di rigore il Boca Juniors diventò per la prima volta Campione del Sudamerica. Il tormento era finito. Quella era la squadra del portiere indio Hugo Gatti, che si era permesso in gioventù di vestire la maglia del River, e allora all’inizio ogni volta che si piazzava in porta gli tiravano di tutto finché un pomeriggio cadde dagli spalti in area di rigore una scopa. Lui non fa una piega, la prende e invece di gettarla a bordo campo si mise a scherzosamente a spazzare. Fine degli insulti: Idolo. Con lui l’inossidabile Roberto Mouzo, quindici anni filati al servizio del club con quasi quattrocento presenze. Nella litania ecco Vicente Pernia, José Luis Tesáre, Alberto Tarantini, Jorge José Benítez Jorge Ribolzi Ruben Sune, Mario Zanabria; Mastrángelo Ernesto Carlos Veglio e Darío Felman. Alla Bombonera il Boca vinse 1-0 con rete di Veglio. A Belo Horizonte i locali prevalsero con lo stesso punteggio servendosi di una zampata del temutissimo Nelinho. A Montevideo la pioggia insistente minacciò di rinviare l’incontro decisivo. Il sorteggio per decidere quale delle due compagini avrebbe indossato la casacca principale vide prevalere il Cruzeiro e il Boca optò per una maglia completamente bianca forse per ingraziarsi qualche tifoso del Nacional o forse per non rindossare la divisa sfortunata di Belo Horizonte. La partita si protrasse nel fango per centoventi minuti e il risultato non si sbloccò. I rigori decisero. E sarà l’ultimo tiro dal dischetto battuto dal Cruzeiro che svelerà l’arcano. Vanderley colpisce piuttosto bene la sfera ma Gatti intercetta. Fra un coro di angeli, preghiere balbettate e mani abbarbicate su facce traballanti, la Libertadores sbarcò alla Boca.

Tuttavia non possiamo chiudere così, dobbiamo chiudere con un sorso di buon Mate, dobbiamo prendere una piccola tazza simile a un uovo, con una lunga cannuccia di metallo conficcata all’interno, dobbiamo avvicinarci incuriositi e notare che qui, oltre a foglie verdi sminuzzate, che emanano un odore intrigante e molto intenso, c’è anche un pallone e un uomo che lo bacia. Lo baciava ogni santa volta che doveva battere un calcio di punizione, lo coccolava leggermente con la suola e infine lo omaggiava disegnando capolavori immortalati sotto l’incrocio dei pali. Il Boca Juniors, in fondo, è stato anche Juan Roman Riquelme. Il poeta, l’ultimo romantico. Con gli xeneizes ottiene le vittorie più importanti e belle, ereditando la Diez dal più grande dei Diez: Diego Armando Maradona. L’epopea di Roman “El Mudo” si apre nel 1998. Eredita la casacca pesante di Diego, il suo ruolo in campo, i suoi colpi, diventando altra iconografia di culto. Il tabernacolo del piccolo moretto taciturno, timido, dai piedi di velluto compare sopra la credenza di ogni casa, in ogni banco dei negozi lungo il Caminito; sotto il suo poster c’è una luce sempre accesa. E se Riquelme inventa e fa miracoli, Palermo finalizza, Samuel ringhia, Cordoba ci mette una pezza, Schelotto corre sulla fascia, e il tecnico Carlos Bianchi, ieratico come un vecchio monaco cluniacense, detta lo schema. Una banda, che presto si spargerà ai quattro venti, lasciando l’odore agrodolce del ricordo su un fazzoletto intriso di pianto deposto su una sedia davanti al mare. Boca mi vida, es la alegría, perché scriveva Borges: l’argentino è un individuo, non un cittadino, lo stato è un inconcepibile astrazione, lo stato è impersonale, l’argentino concepisce solo un’unica, fatidica, disperata, relazione personale.


 

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