giovedì 1 ottobre 2020

LA MAGLIA DEL BOLOGNA

                               

 

Nevica. Nevica forte. Bologna si rannicchia sotto i suoi portici, i fiocchi scendono grandi e lenti, taluni appaiano perfino smarriti, brancolano indietro, su verso le due torri sfumate dal grigio del cielo, finché, sferzati dalla bufera, si volgono e ridiscendono posandosi a terra con gli altri e man mano, tutti insieme, immobilizzano la città, imprigionandola in una coltre bianchissima. Si ravviva il fuoco nelle stufe e nei caminetti, i lampioni agli angoli delle strade restano accesi, i bottegai hanno il loro bel daffare a spalare continuamente l’ingresso, pochi tram sferragliano in centro, i bambini alle finestre delle scuole guardano attraverso la condensa dei vetri quello che da lì al suono della campanella diventerà un paradiso di slitte e pupazzi. Alla trattoria Graccioli, in via Altabella, Otello sta salutando i primi clienti che si stanno sistemando ai tavoli perché ormai è ora di pranzo e i suoi rinomati tortellini in brodo sono quasi pronti per essere serviti fra i fumi delle pentole in acciaio inox che stanno per mandare in pensione quelle in ferro smaltato e alluminio. Otello aveva rilevato una mescita di vino una decina d’anni addietro in un locale sporto su Piazza di Porta Ravegnana, un posticino lungo e stretto dove se per caso qualcuno dimenticava qualcosa era costretto per forza a rifare la fila. Poi il podestà fascista decise di farlo sgomberare in quanto ebbe menzione fosse ritrovo di sovversivi ma nessuno, sinceramente, accusava Otello di idee politiche avverse al regime. Il lavoro lo impegnava a tempo pieno e, caso mai, se c’era spazio per fare due parole con i commensali, parlava di calcio e del Bologna. E difatti dovette essere andata proprio così perché Otello non si perse d’animo e trovò alla svelta un'altra sistemazione. Quel sabato 1 febbraio 1936, mentre la neve continuava a cadere e le ombre di lambrusco si sprecavano, il Bologna stava lottando per il terzo scudetto dopo quello dei “colpi di pistola” del ‘25 e quello del ’29, ambedue vinti con in panchina il viennese Hermann Felsner, uomo austero, colto, con un paio di occhialetti rotondi e il farfallino di seta al posto della cravatta. Felsner lasciò i rossoblù nel 1931 e ora al posto di Lajos Kovács era sopraggiunto un altro ungherese, un altro genio della scuola danubiana, Árpád Weisz, e il Bologna, manco a dirlo, era partito fortissimo. Il giorno dopo allo stadio Littoriale sarebbe arrivata la Fiorentina, una gran partita, meteo permettendo. Otello si rimboccò le maniche sugli avambracci e si sbottonò un lembo della blusa cercando di sbirciare i titoli del Resto del Carlino posato su un tavolo da un avventore e a un tratto pensò che una bella radio poggiata su una mensola ci sarebbe stata bene; magari una radio modello “Savigliano” di quelle in radica fabbricate a Torino. Così, oltre al via vai di ragazzi in bicicletta che passavano suonando il campanello quando il Bologna vinceva, avrebbe potuto ascoltare la musica diffusa dall’EIAR, i Quattro Moschettieri di Nizza e Morbelli, e i risultati in diretta delle partite. Solo nel pomeriggio inoltrato smise di nevicare e una Bologna ghiacciata e infreddolita si preparò a mettere il “prete” sotto le coperte dei letti. Quella notte qualcuno sognò cose che non si possono dire, Otello sognò la sua nuova radio da cui usciva uno smagliante “Violino Tzigano” cantato da Beniamino Gigli. Árpád Weisz, invece, sognò il Bologna campione d’Italia. Bologna in quel periodo era un paesone turrito di circa duecentomila abitanti e visto il momento delicato ci si azzardava poco a esprimere giudizi e opinioni, eppure quel Weisz, taciturno, riservato, ebreo meticoloso, con il cappello a borsalino perennemente calato sulla fronte, stava sulla bocca di tutti perché portava aria di novità solo per il fatto che agli allenamenti si presentava in pantaloncini e maglietta, correndo con i giocatori e provando minuziosamente quello schema da settimana enigmistica: il WM, meglio conosciuto come il sistema. Un sistema che aveva naturalmente alcuni punti di forza su cui fare leva a partire dall’esperto portiere pisano Marco Gianni, scattante, agile, dall’ eccellente colpo d'occhio, tanto da essere ribattezzato “gatto magico”, oppure il veneziano Mario Montesanto, discreta tecnica e stacco autorevole; si era trovato la soluzione casereccia alla partenza di Monzeglio per Roma, Dino Fiorini, un ventenne di incredibili doti fisiche e atletiche, diventato famoso per la pubblicità della brillantina Bourjois ma che non arriverà mai a vestire la maglia azzurra, si dice, per la sua vita al di fuori del campo considerata non appropriata per un atleta. In mezzo l’uruguagio Miguel Andreolo, centrocampista di qualità, dal bicchierino di whisky forse un po’ troppo facile, con un destro micidiale nei calci di punizione ma in totale avaria dal dischetto del rigore dove spesso si bloccava in quanto si diceva patisse l'emozione dell’eccessiva responsabilità. Su tutti pendeva Angelo Schiavio. Angelo, sesto figlio di lombardi scesi in Emilia per aprire una ditta di abbigliamento, doveva la vita a un luminare della medicina bolognese, il professor Bartolo Nigrisoli, che nell’aprile 1906, accorse di notte nell’abitazione della famiglia in via Toscana perché il piccolo non dava più segni di vita a causa di un enfisema al polmone destro. Il dottore appoggiò il bimbo bocconi sul tavolo di marmo della cucina e, incisagli la schiena senza anestesia gli tolse una costola sotto la scapola destra lasciando aperta la ferita a scopo di drenaggio (si sarebbe chiusa definitivamente quattro anni dopo). Cose da predestinato, alla stregua del suo amore per la maglia del Bologna: “avrei pagato di tasca mia per giocarci” –raccontava- e per certo versi fu esattamente così visto che per qualche stagione non incassò una lira, allenandosi, giocando e segnando per il puro piacere di sentire sulla pelle i colori rossoblù che mandavano in delirio la folla dello “Sterlino” e successivamente del Littoriale. Diventerà il massimo bomber dei suoi tempi, 348 partite e 241 gol, tutti in A, tutti, soprattutto, realizzati con il Bologna. Di buon ora, e con la grazia di un timido sole, il diciottenne Franco Basetti detto “os”, berretto e sciarpone di lana, arriva a piedi allo stadio da San Lazzaro di Savena, 10 km fra andare a tornare. Lo chiamano “os” per via della gracilità tuttavia nessuno si permette di prenderlo troppo in giro un po’ perché a Franco non si può additare mancanza d’impegno un po’ perché assunto al Littoriale direttamente dal presidente, commendatore, Renato Dall’Ara. In verità parte del merito dell’assunzione lo doveva a suo padre Gualtiero, tornato dal fronte con una medaglia al merito ma senza un braccio, che ebbe la fama di aver giocato insieme ad Arrigo Gradi, (primo capitano della storia del Bologna) in Piazza d’Arme quando quell’embrione di società indossava ancora la maglia con i colori inquartati del collegio svizzero Schönberg di Rossbach, l’ateneo di provenienza del fondatore Luois Rauch. Franco si emoziona ogni volta quando entra nel corpo dello stadio, si sente protagonista al pari dei giocatori, e con estrema cura alla fine delle partite raccoglie tutte le maglie in una cesta, controlla se ci sia da ricucire qualche numero o qualche strappo dopodiché le consegna alla sarta e alla donna del bucato che in genere è la stessa persona. “Os” ha un cassetto della camera pieno di foto con dedica di parecchi giocatori, la più insolita forse è quella dell’attaccante Carlo Reguzzoni che contrariamente agli altri, fotografati in tenuta da calciatore, si mostrava in sella a una bici da corsa conseguentemente alla sua passione innata per il ciclismo. La neve ha coperto l’intero manto erboso, un manto talmente candido che è quasi brutto tirar via, però cosa vuoi, fra meno di otto ore si gioca e bisogna darsi da fare. Sono in cinque più il Basetti e qualche volontario a spalare, altri salgono sulle tribune a ripulire i gradoni e a spazzolare anche il testone di Mussolini. Si avete capito bene. L’architetto Luigi Arpinati nel progetto (diventato realtà nel 1924), oltre a tutti quei deliziosi mattoncini rossi e le finestre ad arco, pensò di collocare dentro la nicchia della torre di Maratona una statua equestre del Duce. Per carità, è venuto fuori uno stadio davvero bello, vagamente neoclassico, con un acustica notevole, perfino commovente quando la palla centra il legno della traversa e questa continua a vibrare lungamente tipo diapason. “Os”, in leggero ritardo sulla tabella del pranzo, entra all’Osteria di Otello bello zuppo e affamato, si strizza il berretto e si mette seduto sullo sgabello del bancone, sa che Otello è un gran tifoso del Bologna e per farsi perdonare gli ha portato il calendarietto del campionato sponsorizzato dall’ottica Pungetti di Piazza Mercanzia. I tortellini sono finiti ma è rimasto il bollito, un piatto da intenditori dice Otello, strizzando l’occhio a “os”, tagli di carne di manzo, maiale e vitello, verdure, spezie ed erbe aromatiche il tutto cucinato a fuoco lento, e se il bollito non è misto, sia chiaro, non è bolognese. Due lire alla cassa e di corsa allo stadio, Franco o “os” può permettersi il lusso di vedere la partita dall’ingresso degli spogliatoi. Per la cronaca, Bologna-Fiorentina si giocò con i mucchi di neve accatastata ai bordi del terreno e l’arbitro Barlassina concesse un rigore ai padroni di casa. Il pubblico cominciò a gridare “Andreolo, Andreolo!”. Spinti da quell’ovazione i compagni di squadra, nonostante fossero bene a conoscenza della sua incertezza su quel fondamentale, lo convinsero a battere. Andreolo prese una breve rincorsa e la palla uscì abbondantemente fuori fra la delusione dei presenti. Per fortuna a segnare ci pensò un suo connazionale, Raffaele Sansone, e il derby dell’appennino se lo aggiudicò il Bologna 1-0. Verrà la primavera sui colli bolognesi, verrà lo Scudetto, verranno successi internazionali, verrà pure la radio nella trattoria di Otello. Poi, all’improvviso, il livido all’orizzonte: le leggi razziali, la guerra, i sorrisi spenti, gli sguardi bassi, il disprezzo. La ruminazione della “midrash” non era più tollerata, fu tempo di andare per la famiglia Weisz, di non tornare. In un attimo la felicità divenne un ricordo lontano, sbiadito, deposto per sempre nel filo spinato di Auschwitz, eppure il suo Bologna aveva davvero entusiasmato una città e fatto “tremare il mondo”.

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