Nevica.
Nevica forte. Bologna si rannicchia sotto i suoi portici, i fiocchi
scendono grandi e lenti, taluni appaiano perfino smarriti, brancolano
indietro, su verso le due torri sfumate dal grigio del cielo, finché,
sferzati dalla bufera, si volgono e ridiscendono posandosi a terra con
gli altri e man mano, tutti insieme, immobilizzano la città,
imprigionandola in una coltre bianchissima. Si ravviva il fuoco nelle
stufe e nei caminetti, i lampioni agli angoli delle strade restano
accesi, i bottegai hanno il loro bel daffare a spalare continuamente
l’ingresso, pochi tram sferragliano in centro, i bambini alle finestre
delle scuole guardano attraverso la condensa dei vetri quello che da lì
al suono della campanella diventerà un paradiso di slitte e pupazzi.
Alla trattoria Graccioli, in via Altabella, Otello sta salutando i primi
clienti che si stanno sistemando ai tavoli perché ormai è ora di pranzo
e i suoi rinomati tortellini in brodo sono quasi pronti per essere
serviti fra i fumi delle pentole in acciaio inox che stanno per mandare
in pensione quelle in ferro smaltato e alluminio. Otello aveva rilevato
una mescita di vino una decina d’anni addietro in un locale sporto su
Piazza di Porta Ravegnana, un posticino lungo e stretto dove se per caso
qualcuno dimenticava qualcosa era costretto per forza a rifare la fila.
Poi il podestà fascista decise di farlo sgomberare in quanto ebbe
menzione fosse ritrovo di sovversivi ma nessuno, sinceramente, accusava
Otello di idee politiche avverse al regime. Il lavoro lo impegnava a
tempo pieno e, caso mai, se c’era spazio per fare due parole con i
commensali, parlava di calcio e del Bologna. E difatti dovette essere
andata proprio così perché Otello non si perse d’animo e trovò alla
svelta un'altra sistemazione. Quel sabato 1 febbraio 1936, mentre la
neve continuava a cadere e le ombre di lambrusco si sprecavano, il
Bologna stava lottando per il terzo scudetto dopo quello dei “colpi di
pistola” del ‘25 e quello del ’29, ambedue vinti con in panchina il
viennese Hermann Felsner, uomo austero, colto, con un paio di
occhialetti rotondi e il farfallino di seta al posto della cravatta.
Felsner lasciò i rossoblù nel 1931 e ora al posto di Lajos Kovács era
sopraggiunto un altro ungherese, un altro genio della scuola danubiana,
Árpád Weisz, e il Bologna, manco a dirlo, era partito fortissimo. Il
giorno dopo allo stadio Littoriale sarebbe arrivata la Fiorentina, una
gran partita, meteo permettendo. Otello si rimboccò le maniche sugli
avambracci e si sbottonò un lembo della blusa cercando di sbirciare i
titoli del Resto del Carlino posato su un tavolo da un avventore e a un
tratto pensò che una bella radio poggiata su una mensola ci sarebbe
stata bene; magari una radio modello “Savigliano” di quelle in radica
fabbricate a Torino. Così, oltre al via vai di ragazzi in bicicletta che
passavano suonando il campanello quando il Bologna vinceva, avrebbe
potuto ascoltare la musica diffusa dall’EIAR, i Quattro Moschettieri di
Nizza e Morbelli, e i risultati in diretta delle partite. Solo nel
pomeriggio inoltrato smise di nevicare e una Bologna ghiacciata e
infreddolita si preparò a mettere il “prete” sotto le coperte dei letti.
Quella notte qualcuno sognò cose che non si possono dire, Otello sognò
la sua nuova radio da cui usciva uno smagliante “Violino Tzigano”
cantato da Beniamino Gigli. Árpád Weisz, invece, sognò il Bologna
campione d’Italia. Bologna in quel periodo era un paesone turrito di
circa duecentomila abitanti e visto il momento delicato ci si azzardava
poco a esprimere giudizi e opinioni, eppure quel Weisz, taciturno,
riservato, ebreo meticoloso, con il cappello a borsalino perennemente
calato sulla fronte, stava sulla bocca di tutti perché portava aria di
novità solo per il fatto che agli allenamenti si presentava in
pantaloncini e maglietta, correndo con i giocatori e provando
minuziosamente quello schema da settimana enigmistica: il WM, meglio
conosciuto come il sistema. Un sistema che aveva naturalmente alcuni
punti di forza su cui fare leva a partire dall’esperto portiere pisano
Marco Gianni, scattante, agile, dall’ eccellente colpo d'occhio, tanto
da essere ribattezzato “gatto magico”, oppure il veneziano Mario
Montesanto, discreta tecnica e stacco autorevole; si era trovato la
soluzione casereccia alla partenza di Monzeglio per Roma, Dino Fiorini,
un ventenne di incredibili doti fisiche e atletiche, diventato famoso
per la pubblicità della brillantina Bourjois ma che non arriverà mai a
vestire la maglia azzurra, si dice, per la sua vita al di fuori del
campo considerata non appropriata per un atleta. In mezzo l’uruguagio
Miguel Andreolo, centrocampista di qualità, dal bicchierino di whisky
forse un po’ troppo facile, con un destro micidiale nei calci di
punizione ma in totale avaria dal dischetto del rigore dove spesso si
bloccava in quanto si diceva patisse l'emozione dell’eccessiva
responsabilità. Su tutti pendeva Angelo Schiavio. Angelo, sesto figlio
di lombardi scesi in Emilia per aprire una ditta di abbigliamento,
doveva la vita a un luminare della medicina bolognese, il professor
Bartolo Nigrisoli, che nell’aprile 1906, accorse di notte
nell’abitazione della famiglia in via Toscana perché il piccolo non dava
più segni di vita a causa di un enfisema al polmone destro. Il dottore
appoggiò il bimbo bocconi sul tavolo di marmo della cucina e, incisagli
la schiena senza anestesia gli tolse una costola sotto la scapola destra
lasciando aperta la ferita a scopo di drenaggio (si sarebbe chiusa
definitivamente quattro anni dopo). Cose da predestinato, alla stregua
del suo amore per la maglia del Bologna: “avrei pagato di tasca mia per
giocarci” –raccontava- e per certo versi fu esattamente così visto che
per qualche stagione non incassò una lira, allenandosi, giocando e
segnando per il puro piacere di sentire sulla pelle i colori rossoblù
che mandavano in delirio la folla dello “Sterlino” e successivamente del
Littoriale. Diventerà il massimo bomber dei suoi tempi, 348 partite e
241 gol, tutti in A, tutti, soprattutto, realizzati con il Bologna. Di
buon ora, e con la grazia di un timido sole, il diciottenne Franco
Basetti detto “os”, berretto e sciarpone di lana, arriva a piedi allo
stadio da San Lazzaro di Savena, 10 km fra andare a tornare. Lo chiamano
“os” per via della gracilità tuttavia nessuno si permette di prenderlo
troppo in giro un po’ perché a Franco non si può additare mancanza
d’impegno un po’ perché assunto al Littoriale direttamente dal
presidente, commendatore, Renato Dall’Ara. In verità parte del merito
dell’assunzione lo doveva a suo padre Gualtiero, tornato dal fronte con
una medaglia al merito ma senza un braccio, che ebbe la fama di aver
giocato insieme ad Arrigo Gradi, (primo capitano della storia del
Bologna) in Piazza d’Arme quando quell’embrione di società indossava
ancora la maglia con i colori inquartati del collegio svizzero Schönberg
di Rossbach, l’ateneo di provenienza del fondatore Luois Rauch. Franco
si emoziona ogni volta quando entra nel corpo dello stadio, si sente
protagonista al pari dei giocatori, e con estrema cura alla fine delle
partite raccoglie tutte le maglie in una cesta, controlla se ci sia da
ricucire qualche numero o qualche strappo dopodiché le consegna alla
sarta e alla donna del bucato che in genere è la stessa persona. “Os” ha
un cassetto della camera pieno di foto con dedica di parecchi
giocatori, la più insolita forse è quella dell’attaccante Carlo
Reguzzoni che contrariamente agli altri, fotografati in tenuta da
calciatore, si mostrava in sella a una bici da corsa conseguentemente
alla sua passione innata per il ciclismo. La neve ha coperto l’intero
manto erboso, un manto talmente candido che è quasi brutto tirar via,
però cosa vuoi, fra meno di otto ore si gioca e bisogna darsi da fare.
Sono in cinque più il Basetti e qualche volontario a spalare, altri
salgono sulle tribune a ripulire i gradoni e a spazzolare anche il
testone di Mussolini. Si avete capito bene. L’architetto Luigi Arpinati
nel progetto (diventato realtà nel 1924), oltre a tutti quei deliziosi
mattoncini rossi e le finestre ad arco, pensò di collocare dentro la
nicchia della torre di Maratona una statua equestre del Duce. Per
carità, è venuto fuori uno stadio davvero bello, vagamente neoclassico,
con un acustica notevole, perfino commovente quando la palla centra il
legno della traversa e questa continua a vibrare lungamente tipo
diapason. “Os”, in leggero ritardo sulla tabella del pranzo, entra
all’Osteria di Otello bello zuppo e affamato, si strizza il berretto e
si mette seduto sullo sgabello del bancone, sa che Otello è un gran
tifoso del Bologna e per farsi perdonare gli ha portato il calendarietto
del campionato sponsorizzato dall’ottica Pungetti di Piazza Mercanzia. I
tortellini sono finiti ma è rimasto il bollito, un piatto da
intenditori dice Otello, strizzando l’occhio a “os”, tagli di carne di
manzo, maiale e vitello, verdure, spezie ed erbe aromatiche il tutto
cucinato a fuoco lento, e se il bollito non è misto, sia chiaro, non è
bolognese. Due lire alla cassa e di corsa allo stadio, Franco o “os” può
permettersi il lusso di vedere la partita dall’ingresso degli
spogliatoi. Per la cronaca, Bologna-Fiorentina si giocò con i mucchi di
neve accatastata ai bordi del terreno e l’arbitro Barlassina concesse un
rigore ai padroni di casa. Il pubblico cominciò a gridare “Andreolo,
Andreolo!”. Spinti da quell’ovazione i compagni di squadra, nonostante
fossero bene a conoscenza della sua incertezza su quel fondamentale, lo
convinsero a battere. Andreolo prese una breve rincorsa e la palla uscì
abbondantemente fuori fra la delusione dei presenti. Per fortuna a
segnare ci pensò un suo connazionale, Raffaele Sansone, e il derby
dell’appennino se lo aggiudicò il Bologna 1-0. Verrà la primavera sui
colli bolognesi, verrà lo Scudetto, verranno successi internazionali,
verrà pure la radio nella trattoria di Otello. Poi, all’improvviso, il
livido all’orizzonte: le leggi razziali, la guerra, i sorrisi spenti,
gli sguardi bassi, il disprezzo. La ruminazione della “midrash” non era
più tollerata, fu tempo di andare per la famiglia Weisz, di non tornare.
In un attimo la felicità divenne un ricordo lontano, sbiadito, deposto
per sempre nel filo spinato di Auschwitz, eppure il suo Bologna aveva
davvero entusiasmato una città e fatto “tremare il mondo”.
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