giovedì 1 ottobre 2020

SAI COSA VUOL DIRE CIAO

 


- Ciao, sai cosa vuol dire ciao?
 
-E adesso dimmi il motivo di aprire una conversazione telefonica con questa canzone di Vasco? non decifro, spiegati Giulio, mica ho capito, e poi se devi dirmi dell’ennesimo cuore infranto alla ragazza di turno non è il caso perché sai benissimo che ho il telefono in corridoio accanto alla porta della cucina e non posso risponderti in libertà.
 
Era il 1993 di maggio, un maggio di sole, di gerani ai balconi, di nonni a giocare a carte sotto al fresco dei tigli, di gite al mare con lo stereo a palla e pensieri leggeri come le nuvole rade e bianchissime sopra di noi. 
 
- Ciao, nel senso che me ne vado. 
 
-Te ne vai dove, scusa? 
 
- A Torino, mi hanno preso in uno stabilimento Fiat, buffo no? 
 
Un paio di secondi di accademica quiete. 
 
- Non lo so se è buffo, non so nemmeno se mi prendi in giro, facciamo una cosa vediamoci dopo cena e andiamo al solito posto, ah (a bassa voce) compra un pacchetto di sigarette.
 
Giulio era un tipo normolineo, un cespuglio di ricci in testa, uno di quei giovani definiti “difficili”, ventun’anni appena compiuti, una famiglia spezzata, piena di silenzi e assenze, un padre che improvvisamente ha abbandonato la baracca, una mamma incapace di riempire le domande di un ragazzo divorato da una certa incomunicabilità e da una pulsione di rivolta sociale addosso. Noi però ci capivamo al volo, in fondo era un nucleo familiare non così diverso da tanti altri. Ognuno ha i suoi buchi neri, ognuno le sue strade divelte, ognuno un passato da sistemare con calma senza uno spazio temporale definito. Lui, che certe robe si divertiva a razzolarle in laboratorio, la definiva una quantità di tempo immisurabile, in astrofisica le chiamano particelle subatomiche, ossia i tachioni, non ancora definiti ma previsti nella teoria della relatività generale, la cui massa è una quantità immaginaria e dunque sono teoricamente capaci di superare la velocità della luce dato che nessuna particella dotata di massa può farlo. Tradotto: la scappatoia matematica ideale per chi, con un astronave, (appunto a tachioni) potrebbe vedere l’alba di due soli e bere una Pepsi nel bar di Star Wars insieme a Han Solo e Ciubecca risolvendo i propri guai semplicemente andando nel culo al resto dell'umanità. Giulio arrivò puntuale con la sua Ford Escort usata dal rumore inconfondibile. 
 
-Dai sali. 
 
Facemmo una serie di chilometri fumandoci un qualcosa che evidentemente conteneva del tabacco ma non solo, in ogni caso ci fermammo a tutti gli stop, poi Giulio accese la radio; c’era Barry White, cambiò stazione e c’era Gloria Gaynor, cambiò ancora è c’era uno schifo di rapper, finché, scocciato, infilò gli U2 (Ultraviolet, light my way). Né polizia, né delinquenza, ne troppa gente in giro a parte il solito traffico di impenitenti mariti e ragazzi in vena di casino lungo un viale in una zona esterna alle mura battuto da prostitute di colore, per il resto calma piatta e filiali di banche, in quegli anni la città sembrava un collegio svizzero. Il solito posto non era altro che il parcheggio di un bar dove l’insegna del locale rendeva crisalidi di luce sul piazzale. Giulio spense la macchina, aprì il finestrino per gettare la cenere e restammo in una penombra di stolta attesa finché prese una busta dal sedile posteriore e me la dette. Dentro c’era la sua vecchia maglia del Torino acquistata dopo la vittoria, ovviamente sofferta, in Coppa Italia.
 
- Te lo confermo, è vera questa storia che vado lassù, sai adesso almeno il mio Toro me lo vedrò dal vivo. 
 
La passione per i granata gliela aveva trasmessa suo zio Ervigo, un omone tutto di un pezzo, con i baffi, di quelli che sapevano cosa significava la fame, il passaggio del fronte e ripartire da zero. Suo zio il Grande Torino lo vide giocare seduto sui gradoni del Filadelfia quando faceva il militare in Piemonte e conobbe la disperazione di Superga che nemmeno quello scudetto conficcato in mezzo agli anni di piombo seppe colmare del tutto. Giulio divenne del Toro da bambino, quando ancora non facevamo le elementari ma gli album Panini si: Castellini, Zaccarelli, Sala, Pulici, Graziani e compagnia bella, una squadra di gentiluomini, di poeti e di briganti per amore, una squadra che, stando ai principi di Giulio, si batteva contro i prepotenti del calcio infilandosi il colbacco di Gustavo Giagnoni e alzando in aria alla stregua di uno stendardo da battaglia la sedia del “Mondo”.
 
- Quando parti? E l’Università, la tua quantistica, la scala cosmica? 
 
- Per adesso mollo, ti lascio alle tue compagnie preferite, a Kant e Hegel, dai che te arrivi fino in fondo, comunque me ne vado fra un paio di giorni. Ho il fatto il colloquio un mese fa, una stravaccata di seconda classe per salire e tornare, ti dissi che andavo a trovare dei parenti ma non era così, temevo di fare il viaggio a vuoto, invece una settimana fa è arrivata la lettera di convocazione, il tempo di fare le valigie e lunedì prossimo timbro il cartellino. Mia mamma e mia sorella si trasferiscono con me, abbiamo trovato un appartamento in affitto, sai è un posto da impiegato, anche se forse per un breve periodo potrei essere messo alla catena di montaggio ad avvitare specchietti a quelle cazzo di Uno diesel.
 
- Oh, insomma stai per diventare un borghesuccio, ho capito, e finirai per tifare la squadra del padrone.
 
Giulio mi guardò di sottecchi increspando la fronte.
 
- Eh no merda, ti sbagli di grosso, io rimango lo stesso, rimango quello che saliva sulla scala per issare le bandiere rosse alla festa dell’Unità, rimango quello che a 12 anni ha pianto in sezione durante i funerali di Enrico Berlinguer, perché Berlinguer quando parlava non ti faceva la lezioncina come i politici d'oggi, spiegava le sue ragioni, non parlava contorto, capivi subito tutto quello che diceva ed eri felice perché sentivi di far parte di una comunità che il mondo lo voleva cambiare davvero, adesso mi fa schifo tutto questo ciarpame uscito dalla svolta della Bolognina, mi fa schifo Occhetto, il PDS, mi fa schifo il suo seguito di coppieri incartapecoriti e mi fa schifo Bertinotti in cachemire, io resto uno di lotta mica di concertazione. 
 
- Eh, comunque Berlinguer non accendeva mica la miccia, restava un burocrate, l'eurocomunismo.., mi sa ti restano gli anarchici di Carrara..
 
Rise, ma trattenne a stento un incipit di pianto. Non si scordano facilmente vent’anni passati uno a fianco dell’altro, vent’anni sono tanti DioCristo, i primi calci al pallone, le fughe bastarde da scuola, i concerti, le prime ragazzine, i primi tornaconti sul sesso, le prime sigarette aspirate di fretta, qualche grammo di fumo nascosto avvolto nella stagnola, i tornei di calciobalilla, le mani a sfiorare il panno del biliardo alla maniera degli aruspici per misurare presagi e distanze dal boccino tenendo uno spago in tensione sotto il trittico verdastro dei neon, i ragguardevoli sabato in discoteca al sapore di vodka alla pesca, i cinquantini truccati, le videocassette dai dozzinali titoli goderecci, le domeniche pomeriggio a seguire la partite alla radio con l’antenna continuamente piegata alla ricerca di una ricezione migliore, le docili onde dell’Argentario nelle notti d’estate al campeggio, le serate piovose e fin troppe colte passate in libreria a scambiarci opinioni sulle “Spighe” Garzanti o i “Meridiani” Mondadori, oppure su, a casa di “Dimo”, un personaggio stravagante, un bulgaro che affermava di aver girato mezza Europa con un circo dal quale era scappato e ora viveva in un paio di stanze malmesse in paese, arrangiandosi, facendo quello che la stagione proponeva, dalla vendemmia alla raccolta delle olive al taglio della legna, si Dimo era un mito per noi, in realtà si chiamava Dimitar Milev, calvo per economia, cortese, corretto, con un sacco di aneddoti veri o presunti che ci incollavano alle seggiole, cominciava ad avere quasi sessant’anni ma fisicamente restava una roccia, parlava bene italiano e nei giorni di festa indossava una giacca beige con le cuciture a vista e il simbolo stinto della Bulgaria socialista sul taschino: 
 
“Questa giacca- raccontava- risale ai tempi delle Olimpiadi di Helsinki me la regalò un atleta della nostra comitiva, mi va sempre bene solo sta per diventare un pochino stretta”. 
 
Cercai di innalzare gli argini degli occhi divenuti ormai un precipizio di lacrime su un punto di non ritorno quando senti il pomo che ti si caccia in gola e non riesci a strozzarlo.
 
- Ci sentiremo al telefono, o quando torni, oppure vengo io a trovarti.
 
Si, ma si capiva che era un addio non un arrivederci.
 
-E tu non vai in Inghilterra fra poco?
 
- Per un mesetto, vorrei imparare un po’ meglio la lingua, vado a stare da una famiglia a Londra, abitano a Barnet nella periferia nord, mi hanno mandato delle foto sembra un bel posto. 
 
- Ascolta Simo ti ricordi quella cosa che ti dissi sul Toro? I tifosi del Torino piangono e ridono anche quando vincono. Vincere è talmente insensato per le troppe delusioni subite che se capita un successo di quelli importanti non sappiamo esattamente qual’ è il sentimento più corretto da esternare. 
 
- Vero, mi ricordo ma adesso?
 
- Adesso ci beviamo una birra e torniamo.
 
– Ok.
 
Fu un addio, lo avevamo capito entrambi, quando si è stati amici inseparabili il paradosso migliore è separarsi, segare i lucchetti, senza un motivo, senza una litigata, senza un atteggiamento, affinché gli anni, quegli anni invadenti e prepotenti, saliti sulla giostra della fisica rendesse la nostra gioventù una bolla inscalfibile sospesa a galleggiare sulle nostre vite e su questa maglia del Toro, così, ogni volta che la guardo sorrido, sorrido e piango, e non so bene perché ma avevi ragione.
 

 

 

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