mercoledì 21 ottobre 2020

UN TE' CON BATISTUTA


Il cancello di ferro cigola sui vecchi cardini rompendo il silenzio bianco privo di suoni. La ghiaia scricchiola sotto i piedi, avanzando nel piccolo ellisse protetto dai cipressi, mentre nell’aria, indefinito, si avverte improvvisamente un profumo di rose. Sono piante che resistono al freddo, tenaci alle intemperie. Le volle piantare qui la poetessa Elizabeth Barrett Browning il cui monumento funebre emerge, decorato dall’immagine di una lira, nell’atmosfera ovattata e onirica. Eppure, poco sotto, esplode la cacofonia di Firenze e dei suoi viali di circonvallazione saturi di veicoli. Ma il cimitero degli inglesi in Piazza Donatello è un’isola, un grumo di pace in mezzo al rumore. Nessuno si preoccupa se è aperto o chiuso, quali sono gli orari per poterlo visitare, soprattutto se ci sono orari. Nessuno forse sa che c’è, nonostante le tombe si vedano molto bene anche da fuori, infisse in una collinetta in stile Spoon River, che d’inverno si perde nel buio e d’autunno nella foschia. Sarà per via che siamo un po’ superstiziosi e abbiamo paura dei morti.

Epitaffio. Quello di Giovanni Trapattoni in conferenza stampa al termine della gara con il Piacenza del 24 ottobre 1999. La sua Fiorentina ha perso la terza partita consecutiva, dopo le disfatte interne patite con Roma e Parma: "Se il problema sono io me ne vado". Il campionato seguente a quello della grande occasione perduta è iniziato male, la Fiorentina si era inceppata; in Champions la faccenda risultava ancora più disperata: vincere a Londra contro l’Arsenal, oppure le porte dell’Europa si sarebbero chiuse in anticipo rispetto alle aspettative. Alla Fiorentina spetterà l’onore di calcare il manto il Wembley. Troppo modesta la capienza di Highbury per le nuove esigenze dei Gunners.

La signorina Barrett abitò per un periodo a Londra prima di trasferirsi a Firenze. Nel 1847 abbandonò l’opulenza georgiana di Wimpole Street, costretta dalle conseguenze di un amore negato. Elizabeth, diseredata dalla famiglia, sposerà in gran segreto, contro la volontà paterna, lo scrittore Robert Browning con il quale si sistemò a “Casa Guidi”, un palazzone ocra dalle persiane pallide situato in Piazza San Felice, diventato successivamente fondamentale punto di ritrovo per la numerosa comunità britannica presente in città.

Vittorio Cecchi Gori congela le dimissioni di Trapattoni e Gabriel Batistuta, circondato dai microfoni, ripetendo per l’ennesima volta il suo mantra costituito dal privilegio di essere allenato dal tecnico di Cusano Milanino; declama una scossa, salvare il salvabile, fare una bella figura in coppa. Bati ha sostituito nei cuori e nei poster delle case fiorentine Roberto Baggio da quasi un decennio. Di più, è andato perfino a vivere con la fidanzata Irina nell’appartamento che era stato del divin codino in via Casamorata, quartiere Poggetto. I suoi vicini di casa, Stefano e Lisetta, gli insegnano l’italiano e la ricetta del bardiccio con i’ cecino rosa. Gabriel era partito da Reconquista, un paesino polveroso dell’entroterra argentino. Lo chiamavano El Gordo, perché piuttosto grassottello ma, d’altra parte, se fai un asado come da quelle parti è difficile mantenere la forma giusta. La sua non è la storia di una passione scoppiata tardi, scoraggiata dalla malignità di qualche finto amico, o dall’offuscamento di maestri disinteressati alle sue doti. Né tanto meno quella del classico bambinello sudamericano dagli occhi tristi stipato nella miseria del Barrio, costretto a trastullarsi per le strade con un pallone pezzato incapace di percepire il capolavoro insito dentro di lui e fortunatamente riconosciuto dal fiuto di uno scout esperto. Non si trattò neppure di un’inversione rispetto a una ferrea disciplina personale: "Devo studiare legge, fare l’avvocato, non posso fare il calciatore".

Batistuta comincierà a giocare a calcio per caso, direi per esclusione, in quanto le locali formazioni di altri sport erano al completo e pare già fornite di gente in gamba. Questo, se vogliamo, resta uno degli aspetti più enigmatici della genesi di Gabriel Omar se non si vuole cedere alla versione più semplice, ossia che Batistuta abbia deciso di dedicarsi al calcio esattamente come si avanza negli studi di giurisprudenza: realizzando progressivamente di essere all’altezza degli esami da espletare. Eppure quella sera, dentro il tempio, all’inizio Gabriel è nervoso, si sente i riflettori puntati addosso, il peso di una stagione sulle sue spalle. Nella prima azione travolge il difensore Lee Dixon e si fa ammonire, beccandosi un cartellino giallo dopo appena due minuti. 

Gli inglesi lo fischiano, impietosi.

Gli stramaledetti inglesi, come si usava definirli durante il regime fascista, riprendendo un termine coniato in tempi precedenti. Il regista Franco Zeffirelli, la cui fede verso la Fiorentina è andata spesso al di là delle semplici frasi di circostanza, ambientò la prima scena del suo “Un tè con Mussolini” proprio nel cimitero degli inglesi di Piazzale Donatello. Lo farà usando un angolo distorto, non centrale, perché, curiosando nelle carte di Savage Landor, un altro artista londinese vissuto a Firenze, lesse che il luogo si presentava attraente in quanto proprio non preciso, apparendo spostato di lato, come se tentasse di specchiarsi simmetricamente con Porta a Pinti, opera di Arnolfo di Cambio, leggermente scampanata rispetto a tutti gli altri ingressi dell’ormai perduta cinta muraria. In realtà, tornando al cimitero, ad essere esatti, furono gli svizzeri a edificarlo nel 1827, seguendo le direttive dell’editto napoleonico di Saint Cloud. Tuttavia in breve, siccome i fiorentini chiamavano inglesi qualsiasi tipo di forestieri, il nome si modificherà, e in ogni caso la maggior parte delle sepolture porta inciso sul marmo della lapide un nome britannico.

L’Arsenal intanto tambureggiava. Francesco Toldo salvò la capitolazione volando a bloccare un colpo di testa da distanza ravvicinata di Martin Keown. Enrico Chiesa proverà a nascondersi nell’ombra non raggiunta dal lampione Tony Adams, Rui Costa cercava passaggi filtranti eludendo la guardia del fibroso e aristocratico Ray Parlour. Ma il più grande spettacolo dopo il big-bang è alle loro spalle: Di Livio, Cois e Rossitto alzano una diga commovente nel cuore del centrocampo, Firicano incocciò addosso a Vieira, il difensore ceco Repka, appuntabile come R. (mutuando gli anonimi personaggi dei romanzi del suo celebre concittadino Franz Kafka) ringhiava su Bergkamp, e Pierini (si Alessandro Pierini da Viareggio, non esattamente Pierinhòs da Rio de Janeiro..), si mise a mordere  le caviglie di Ljungberg. Sventati i pericoli della prima frazione, la chiave di volta trapattoniana alla fine concesse i suoi frutti, in un secondo tempo impregnato di calcio coraggioso, fatto di minuti tirati e bellissimi.

A quindici dal termine, da un contrasto vinto dai viola, il terzino Heinrich servì in profondità Batistuta. La porta parve abbastanza vicina, però l’argentino appariva troppo defilato. Troppo per noi, non per lui, che scosse la criniera appoggiando Winterburn allo sgabello del pub e di destro spedì un superbo diagonale alle spalle di David Seaman, lasciando esterrefatto Wenger a osservare il tripudio avversario con la stessa espressione con la quale si guarda la corrente di un fiume. Finisce con sofferenze incredibili, un palo del neo-entrato Davor Suker con susseguente altro miracolo di San Francesco Toldo, la cui mano appare dal nulla davanti a uno sbigottito Kanu, e poi l’ultima immagine di Wembley è quella del Trap che esce da solo, in giacca, gli occhi due spilli e un sorriso smorzato pronto a consegnarsi quasi in lacrime ai taccuini ardenti dei giornalisti: "Scusate, mi sono emozionato", le prime parole pronunciate in conferenza stampa.

Il boato di Firenze investirà la città, la attraversa, la trapassa, la fotte senza saperlo. Perché siamo tutti ombre in cammino, compreso il calcio e i suoi brevi frammenti di poesia. E allora chissà se Elizabeth Browning avrebbe invitato Batistuta per il tè delle cinque, davanti alle finestre che si affacciano sul prospetto della Chiesa di Santa Felicita. Perché magari, in fondo, odiava quel bigottismo inglese dal quale era stata scacciata, quei fumi della rivoluzione industriale, quei quadri, saturi d’impero e imperialismo appesi ovunque con l’effige della Regina Vittoria. Forse, un po’ di sottile vendetta se la sarebbe gustata nel veder infilzare i suoi connazionali dal centravanti viola.

Penso che una lirica l’avrebbe scritta. Se la sarebbe meritata, seppure alla ode mancasse ancora il momento più struggente, il finale, quello dove Gabriel realizza l’ultimo goal, pochi mesi dopo, entrando in porta come fosse un secondo pallone, gettandosi contro la rete che elasticamente lo rimbalzerà sul terreno, piangendo, immobile, disteso sull’erba a braccia larghe come se volesse abbracciare ogni angolo della città.  Sa che il suo futuro è altrove, non giocherà più con la Fiorentina, ma sa che Firenze gli vorrà bene comunque.

Il tè era buono, anche se una delle due tazze è ancora piena, ormai fredda, lucida, nel chiarore diafano del primo pomeriggio d'ottobre.

 

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