giovedì 22 ottobre 2020

SE VINCEVA BREZNEV


 
Quando seppe che Ayresome Park era stato abbattuto, nel 1997, Harry Connor, figlio unico di una famiglia operaia di Middlesbrough, provò un rammarico così forte che non riuscì a scacciarlo nemmeno accendendosi il consueto tabacco nel fornello della sua adorata pipa in radica di noce, in quel mattino battuto dal vento e da scrosci di pioggia irregolare. Il vermiglio delle tettoie e i cori dei tifosi avevano invaso per anni la sua stanzetta nel quartiere di Linthorpe. Si rivide adolescente all’incrocio con Brompton Street dove, per la prima volta, si rese conto di poter osservare dal vivo il suo idolo Lev Yashin, del quale conservava gelosamente ogni ritaglio di giornale. Con le sterline delle paghette settimanali messe da parte si era anche comprato il cappello del cosiddetto “ragno nero”, un modello brixton brood, che in genere teneva piegato su un lato della testa e con il quale si specchiò sul vetro di una rivendita di attrezzature da pesca mentre da un juke-box, esposto senza troppo senso fuori dal negozio, girava una canzone d'amore, She Loves You, di quei quattro ragazzi di Liverpool, una teoria scritta in terza persona che invitava ad essere felici se lei ti ama. Erano i primi di luglio del 1966 e passeggiando in Devonshire Road, all’ombra del grande albero secolare di Albert Park, finalmente osservò il gruppo dei giocatori vestiti in un abbagliante tuta ginnica rossa, simile a quella del Middlesbrough, rigidamente vergata dall’acronimo cirillico CCCP, disposti in un semicerchio nitido, come se il tronco altissimo della quercia fosse la punta di un compasso calato dal cielo. Colpì Harry l’automatismo dei gesti, la sincronia fluida dei movimenti, sebbene fosse chiaro che si stessero allenando non c’era preparatore atletico a guidarli nelle estensioni e nelle acrobazie con cui suscitavano l’ilarità dei passanti. 
 
Eccolo Lev Ivanovich Yashin, ed eccola l’Unione Sovietica (seppure del calcio). Raccontava suo padre Jacke che se ne parlava in acciaieria, denigrandola o esaltandola a seconda dell’impostazione politica, quella Russia dove il barbone di Treviri, Karl Marx, mai avrebbe immaginato lo scoppio di una rivoluzione proletaria avendola profetizzata nel Regno Unito patria della rivoluzione industriale e del modello capitalistico. Winston Churchill amava ripetere un aforisma piuttosto ambiguo: il comunismo è un indovinello incartocciato in un enigma e rinchiuso in un mistero.

Un portiere invece è epifania o imposizione, insomma casualità o mancanza di alternative, difficilmente di consapevolezza. Per certi aspetti potremmo dire che in fondo non serve nemmeno una corporatura fisica o una certa tecnica, almeno non completamente, c’è dell’altro, quasi sempre. Yashin questo qualcos’altro lo dovrà essenzialmente a Vladimir Cecerov, un ex campione di ping-pong, soldato nell’Armata Rossa durante la guerra e infine allenatore per diletto della squadra di calcio della fabbrica per la quale lavorava il giovane Lev: “Tu giocherai in porta”. 

E Lev, ragazzone dalle braccia lunghe, non stette né a chiedere né a obiettare. "Se devo stare in porta, starò in porta" - pensò- nonostante nei giardinetti del quartiere Tusino di Mosca con gli amici si divertisse molto di più a fare l’attaccante.

Per Yashin, quella scelta del tutto involontaria, immotivata, divenne una missione laica, una ragione di vita. Il portiere d'altro canto è un ruolo capace di forgiare forza di volontà, sviluppare concentrazione, trance agonistica. Ma Yashin non si limitava solo alle parate, dirigeva da maestro d'orchestra sinfonica: richiamava i compagni, indicava i movimenti giusti, invocava le marcature e se la squadra era in svantaggio impostava lui stesso l’azione, attraverso uno stile spoglio, un’eleganza nuda che disdegnava la spettacolarità del gesto eccessivo. A 25 anni diventerà il titolare della Dinamo, la squadra del Ministero dell'Interno, prendendo il posto della tigre Khomic e gli affibbiarono quel soprannome dovuto alla metaforica capacità di tessere tele insuperabili fra pali e traversa: Yashin l’iconostasi, finestra sul paradiso, anatema contro la sconfitta, pezzo di legno in mezzo al mare al quale aggrapparsi allorché la tempesta scuffia la barca ritrovandosi in balìa delle onde. Tutti avevano fiducia in Yashin, che nel 1963 sarà consacrato con il pallone d’oro quasi in concomitanza con l’elezione a segretario del PCUS di Leonid Breznev, salito al potere sgambettando Krusciov dopo la crisi dei missili cubani. Breznev, l’orso prudente, prevalentemente un funzionario, si mostrerà molto lontano dal culto della personalità dei suoi predecessori. Con lui cessarono del tutto le violenze più eclatanti. Gli esclusi dalla lotta per il potere smisero di essere spediti in un Gulag, al massimo vennero messi a fare gli ambasciatori. Tentò moderate aperture alla proprietà privata, soprattutto in agricoltura. Questo senza tuttavia intaccare l'ipertrofico e disfunzionale apparato burocratico sovietico. E fu proprio questo ripiegarsi sulla stagnazione che vanificò ogni speranza di riforma nonostante con Breznev iniziassero a farsi strada uomini che avrebbero avuto un ruolo chiave successivamente. 

Harry ammirò la squadra allenata dallo scacchista Nikolay Morozov battere all’Ayresome Park 3-0 la Corea del Nord con una doppietta di Eduard Malafeev e un centro di Anatoly Banichevski, e la vide pochi giorni dopo piegare l’Italia 1-0 grazie al leggendario bomber, e compagno di club di Yashin, Igor Cislenko. Da allora in avanti si dovrà accontentare della radio attraverso la quale si galvanizzerà quando i russi faranno tris nel girone sconfiggendo 2-1 al Roker Park di Sunderland un ostico Cile con due reti di Valerij Porkujan. Dell’Inghilterra si interessava giusto il necessario, al nord tutto questo sentimento d’affetto per i tre leoni si perdeva in uno strano misticismo di confine dove l’identità locale fatta di vocali strette e birre scure, sembravano non esaltarsi più di tanto alla vista di uno Wembley gremito ma pur sempre tempio borghese e patinato di una Londra che spocchiosa andava per la sua strada lasciando la campagna al suo grigio specchiarsi fra pozzanghere e cielo.  

Cislenko era nato sulle riva destra della Moscova, laddove la città appare distesa e addormentata, quasi cullata, dall'enorme stella luminosa issata sul vertice del grattecielo universitario. Igor è un biondino dagli orecchi a sventola e dal sorrisetto beffardo, stipato insieme alla famiglia a Novyjarbat, nei pressi della chiesetta di San Simeone, in uno dai tanti palazzoni anonimi detti Khrushchevki, tirati su durante il periodo stalinista, con i cortili quadrati, in genere spelacchiati, addobbati da altalene, striduli girelli di ferro e spesso da copertoni piantati nel terreno che d’inverno scomparivano sotto la neve in una sorta di dimensione plastica della censura. Cislenko prima di essere individuato e affiliato alla Dinamo se ne andava in giro a recuperare bottiglie di vetro che poi portava a una vicina fabbrica di vodka in cui in cambio gli davano qualche rublo e una pacca sulla spalla.

L’Unione Sovietica nei quarti di finale resterà di scena a Sunderland e arrivò un nuovo successo, stavolta contro l’Ungheria in una partita ornata di suggestioni extra sportive, ma in ogni caso, Cislenko e ancora Porkujan, le spalancarono le porte della semifinale. Il 26 luglio a Liverpool fra le stand decussate del Goodison Park ci sarebbe stata ad attenderla la Germania Ovest in altra contesa dai sapori forti, per non dire aspri.

Harry maledì quel pomeriggio, e probabilmente maledì anche l’arbitro italiano Concetto Lo Bello poiché i sovietici furono costretti a giocare in 9 uomini a causa dell'infortunio di Sabo (all'epoca non si effettuavano cambi) e soprattutto per l'espulsione di Cislenko motivata da un calcetto di ripicca inflitto a Helmut Haller dopo una serie di botte chirurgiche e non sanzionate ricevute fin dal fischio d'inizio.  La Germania vincerà 2-1 con le reti (guarda caso) del centravanti del Bologna e di un imberbe Franz Beckenbauer, mentre per i russi andrà a segno il puntualissimo Porkujan, ometto scaltro, finanche perfetto per un romanzo di Bulgakov, abile ad approfittare di una presa approssimativa (forse viziata da un fallo) del portiere tedesco.

Alle volte l’uomo è straordinariamente, appassionatamente, innamorato della sofferenza. Si lega a uomini e cose che amerà in un impulso di empatia senza essere contraccambiato. Questo ammise Harry Connor, ormai canuto e navigato, fumando bonariamente la sua pipa vicino a quel cappello mai abbandonato che gli ricordava la sua gioventù e quel ragno nero.

 

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