martedì 13 ottobre 2020

ŽUĆKO


V'è nostalgia delle cose spezzate. Vojvodina, altopiani e affluenti del Danubio, religiosissimo bordello, influenze magiare, slovacche, rumene, carne affumicata e torte salate, fattorie sparse come sassi lanciati a caso: “per ogni cielo, c’è un salaš sulla terra”. A Sombor, propaggine sfuggente del nord della Serbia, c'è un angolo, un piccolo incrocio, che collega la strada principale a un crocicchio interno, decorato da una targa. Un uomo, sorridente con un pallone da basket in mano. Negli spicchi sono impressi i nomi di quattro città: Sombor, Belgrado, Liegi, Padova. 
 
Il padre di quell’uomo si chiama Bogdan, la madre Zagorka, il fratello Djordje. Quell’uomo è Radivoj Korac, nato qui, nel 1938. Soprannominato "Žućko" (Biondino) ha cominciato a giocare nello OKK Belgrado a sedici anni nel ruolo di ala grande. Si, però c’è un prima, c’è un altro sport. 
 
Korać a Belgrado si ritrova a fare il portiere, a difendere i pali del Radnicki, squadra di calcio della capitale. Ma basta poco, veramente poco, per far sì che la Yugoslavia si accorga che Radivoj Korać debba abbandonare il calcio è mettere i piedi sul parquet. L’occhio lungo è quello di Borislav "Bora" Stankovic che decide di farlo debuttare nell’OKK Beograd. Stanković non è un idiota e Dostoevskij avrebbe avuto difficoltà nel fargli raggiungere il principe Myškin in una clinica svizzera per malati mentali.
 
Korać è un giocatore che semplicemente non si era mai visto nella luce dei Balcani. Mancino prodigioso, associato a una tecnica di tiro tanto particolare quanto efficace: riceve la palla, se la porta sopra la testa, stacca la mano destra dal cuoio e con la sinistra la indirizza verso il canestro saltando leggermente in avanti. 
 
Ciuff, costantemente, inesorabilmente, ciuff
 
Nonostante l’evoluzione del gioco abbia cancellato questa tipologia di tiro, già considerata antiquata in quei frangenti, guardarlo nei filmati dell’epoca fa sempre effetto perché in fondo solo noi che abbiamo visto il bianco e nero possiamo immaginare un mondo a colori. La sua Santa Barbara ha un arsenale illimitato: Korać attacca il ferro senza paura stringendo un patto di non belligeranza con gli obsoleti tabelloni in legno e passa la palla con estrema precisione. Nei liberi rifugge la regola e lascia il pallone dal basso tenendolo con entrambe le mani all'altezza delle ginocchia e per un po’ il mondo della pallacanestro è costretto a piegarsi per riflettere come il pensatore di Rodin. 
 
Atleticamente non scherza, durante il servizio militare stacca 1.99, solo pochi centimetri in meno della medaglia d’oro delle Olimpiadi messicane. 
 
La formazione di Stankovic conclude il torneo d’esordio di Korac con 16 vittorie e due sconfitte arrivando davanti alla Stella Rossa e aggiudicandosi il titolo. Oltre a Korać, in quel OKK ci sono Slobodan Gordić e Miodrag Nikolić, figure importanti degli albori del basket yugoslavo. Il 14 gennaio 1965 a Belgrado l’OKK affronta nella Coppa dei Campioni gli svedesi dell’Alvik BK di Stoccolma. Quel giorno di pieno inverno Korać va in lunetta e piazza i primi due liberi. Un inizio normale, scontato, anzi no, Radivoj non smette più di segnare, segna e segna ancora, in tutti i modi, da ogni posizione. L’incontro finisce con un punteggio imbarazzante: 155-57. 
 
Imprecazioni, sorge un dubbio amletico: sulla panchina dell’OKK nessuno stava tenendo conto della quantità dei canestri infilati da Korać.
 
“Tutti sapevamo che stava segnando tanto, ma nessuno sapeva esattamente quanto”, coach Stanković dirà “fu un vero peccato “. 
 
Eh già, un peccato, perché Korać ha fatto 11/14 dalla lunetta, il che è normalissimo, e 44 canestri dal campo (la linea dei 6.75 doveva nascere) che invece non è affatto normale. Si fanno due conti veloci con carta e penna finché qualcuno si mette le mani nei capelli: Radivoj Korać aveva messo a referto 99 punti, solo uno in meno del record di Wilt Chamberlain in NBA, un paio di miseri punticini che potevano arrivare tranquillamente nei minuti finali nei quali invece, per farlo riposare, Stanković lo tenne seduto in panchina. 
 
Ma se ti chiami Radivoj Korać non sei solo il giocatore più forte della prima fase lunare del basket Yugoslavo, sei anche uomo di principi: “è un merito di tutta la squadra, di tutti i miei compagni”. In quell’edizione della Coppa l’OKK viene eliminato dal Real Madrid in semifinale.
 
E’ l’ultimo squillo di tromba in patria, Žućko” nel 1967 passa al Liegi e vince subito il campionato. Vi è un aneddoto curioso riguardo alla sua esperienza belga. Ospite di un programma televisivo, gli viene posta una domanda abbastanza banale:  
 
“Senti ma... quanti tiri liberi credi riusciresti a mettere su 100 tentativi? “. Korać senza pensarci risponde: “Beh, immagino tra i 70 e gli 80, chi può dirlo? “.  
 
Colpo di teatro: si apre un sipario dal quale spunta un canestro al centro del set televisivo. Quasi pleonastico riportare l’esito: Korać fa 100/100 nell' estasi generale. Radivoj aveva un amica che lavorava a Radio Belgrado, Vlada Krasic, dopo una trasferta in Francia gli porterà l’ultimo album dei Beatles “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band”, e quel vinile fu il primo del quartetto di Liverpool a girare sull’etere ufficiale della Yugoslavia. 
 
L’anno successivo, nel 1969, approda in Italia al Petrarca Padova targato Boario. 
 
Nonostante l’icona Korać il Petrarca non riesce ad evitare la retrocessione. Per Radivoj la consolazione del titolo di miglior marcatore, ovvio. Poi tutto finì, ma Radivoj Korać non si è ritirato, non ha abbandonato la košarka, semplicemente il fato crudele ha voluto fermare in un punto esatto del tempo la storia di questo ragazzo, inseguito inconsapevolmente da un’ombra, da un velo di malinconia e da un giro di tarocchi zigani smazzati in una notte di stelle cadenti. 
 
Il 2 giugno 1969 Korać sta guidando la sua Volkswagen lungo la strada che collega Vogošća e Semizovac, nei dintorni verdissimi e collinari di Sarajevo. Pioviggina, sta rientrando a casa dopo una partita amichevole tra la Yugoslavia e una selezione della Bosnia Erzegovina. Un sorpasso azzardato, una frenata, una sbandata, un fossato, uno schianto, le lamiere accartocciate. Eccola, dunque, la morte. La morte, in un crepuscolo di eternità.
 
Per decreto, da quel 1969, il 2 di giugno in Yugoslavia nessuna partita di basket si sarebbe mai più giocata.
 
La FIBA gli dedica una coppa incaricando delle fattezze del trofeo suo fratello Djordje, perché Djordje Korać è un artista, uno scultore. E tra tutte le pose possibili riesce a catturare l’essenza di Žućko” riassumendone in pochi centimetri cubi la leggenda.

 

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