martedì 13 ottobre 2020

OVUNQUE PROTEGGI


Non puoi parlare di Eric Cantona se non sei Eric Cantona. Non puoi parlare di Dio con Dio. Ergo facciamola finita con questa inutile narrativa da contemplazione, per di più fiacca e sonnolenta, priva di qualsiasi refolo di trascendenza, sghemba nella sua smania di correre per arrivare dove nessuno ha mai capito. Se vogliamo parlare di Eric Cantona, occorre evocarlo, perché noi non ci siamo, non ci siamo nemmeno nell’amore, nell’irrequietudine dell’amore, lo si desuma al limite come surrogato della specie, come il suo sospiro, scriveva Schopenhauer, senza intorpidirci sulle cristallizzazioni di Stendhal. Dunque noi non esistiamo, abbiamo un eternità fuori dal tempo, il corpo è solo un insaccato barocco del pensiero, triste prerogativa della mente che ambisce solo a smentirsi. Occorre quindi desistere lasciando il testo a monte, anzi a valle, lasciamolo a Marsiglia, invischiato nelle reti dei pescatori, in quanto: “quando i gabbiani seguono il peschereccio è perché pensano che le sardine saranno gettate nel mare”. Oui, mercì mon amì, ecco Rimbaud, non Cantona, ecco Mallarmè, benedetto e non maledetto, ossia ben detto e non mal detto, ecco un giocatore di calcio reo di una giaculatoria da incubo e non del tanto atteso pentimento borghese. Appena 17 parole. Diciassette parole sufficienti a formare una frase che nessuno capisce, l’avrebbe intesa forse Baudelaire che si fastidiava sotto le luci del teatro, quando quest’ultimo baraccone fungeva da mera rappresentazione, intabarrata di "mantellacci" e spingarde, di cose che già sai, già conosci l'epilogo. E allora cosa ci vai a fare a teatro, se conosci già la fine, o peggio ancora il lieto fine, per quale motivo racconti una storia se la storia la conoscono capre e cavoli. No, buio, usciamo dalla pia devozione cronologica, lasciamola ad affaccendatissimi addetti ai lavori e improvvisiamo, senza avanguardia, per carità, l’avanguardia è per chi ha la testa vuota e fa carosello nell’attesa di riprendere l’oscenità dello spettacolo. Deliriamo l’infinito, scivoliamo sulle rocce di Les Caillols. Ecco, vediamola attraverso il sogno, Marsiglia, bisticcio etnico, città in fuga da se stessa, fra gli alberi e i profumi della Provenza. Eric ha tirato un calcio a un tifoso del Crystal Palace, a Bromley, dimora per secoli di zingari e dove i boschi fornivano legna alla chiglia di Sir Francis Drake. “Sei arrabbiato con tuo figlio, Albert?”. Albert ha origini sarde, lei, Eleonore, è figlia di rifugiati catalani. “No, Eric ha radici forti, come noi, ha la sua visione, filosofeggia, è un genio, dentro e fuori del campo”. I fatti non esistono, diceva Aristotele, sono solo frutto della capacità del messaggero nel raccontarceli, quindi chissà se esiste davvero quella caverna? La grotta di sua nonna (beninteso, nessuno è figlio di nessuno, ognuno è padre a se stesso), senza Magi e stella cometa, senza Angeli e pastori, dove Albert e Eleonore, avevano abitato e copulato; lì avverrà l’amplesso che, pena travaglio, si trasformerà in Eric Cantona. Ma a quel punto serviva una casa, ed esce la carta del matto, ovvero sia dato un loculo domestico alla famiglia, poiché Albert troverà un posto da infermiere, toh, in un ospedale psichiatrico. Ma la pazzia non è roba per strizzacervelli, perfino Freud ce lo aveva detto nell’al di là dei principi di piacere e mezza Vienna aveva riso dietro le quinte incapace di capire. Un giorno Eric vedrà lo squilibrio, sincero, gagliardo, incosciente, lo vedrà una sera quando suo padre lo porterà a una partita dell’Olympique, una sera d’ottobre, seduto sulle budella del Velodrome, e al piccolo Cantona si rivelerà Johan Cruijff nella stessa luce spennellata da Caravaggio sulla tela del Paolo folgorato. I primi passi nel calcio a Caillolais, come portiere, perché Albert è stato “gardien de but” e lo spinge fra i pali. Una forzatura, Eric non funziona, occorre un escatologia diversa se vogliamo l’icona, e se nè andrà al Bastide, all’accademia di Celestin “Tico” Olivier, compagno di Kopa e Fontaine, sartoria di Gallia, nel dopoguerra rivestito di stracci. Cantona pettina l’erba di Selhurst Park, le mani alzano il colletto della sua maglia nera. Alex Ferguson è immobile in panchina, ha smesso di masticare la sua gomma, guardò di sbieco Alan Wilkie, convinto che qualcosa stia per succedere. Cantona marcia, “allons enfants”, un marsigliese deve marciare per natura, seguendo la strada per Parigi e oltre. Ventiquattro passi, Cantona vede, sente, pregusta, disamina. Cantona si ferma, mira quell’omuncolo insolente, ragazzotto lentigginoso, che sicuramente ha fatto incetta di sidro e birra spillata male. Cantona sguscia dalla presa di Norman Davies, il magazziniere del Manchester United, già Norman, lo chiameranno “Vaselina”, poi parte di rincorsa e il biondiccio Matthew Simmons si becca un calcio al centro del petto, di destro. La rivelazione, teologia fondamentale e sistematica. L’inesauribilità della rivelazione. Fides e Ratio, fede e ragione, ma ciò che viene rivelato nel gesto e un paradosso, è la rinuncia alla ragione, ossia il rispetto del mistero che non lo si può prosciugare ma solo lavorare sulla ragione credibile. L’unico metodo di conoscenza e l’epistemologia, gli aspetti storici, mai storicisti, mai, sia chiaro. Una chiarezza va detto non cartesiana, eppure, ripeto, qui non si può essere autori di un bel niente se non si è nel misticismo più totale, più femminile che maschile. Corredo: Isabelle Ferrer diventerà la sua prima moglie e gli darà due figli, Raphael e Josephine. Il vangelo parte da Guy Roux, ad Auxerre perché a Marsiglia, Monaco e Nizza gli evangelisti si amputano sull’apocrifo e sfuggono alla profezia. Roux telefona a Olivier, la risposta è secca: “Prendilo”. Auxerre fa rima con Chablis, l’avete mai bevuto? dicono sia un velluto per il palato. Roux fa lo stesso con Cantona. Lo distilla, lo spedisce a maturare nel Martigues in seconda divisione. Martigues è la Venezia di Provenza, intarsiata di canali. Eric traccia il solco, rientra all’Auxerre. Reti e assist gli valgono la nazionale. A chiamarlo è il c.t. Henri Michel, che poco più avanti si pente della scelta. Alla prima mancata convocazione, Eric già porta la spada e battezza con il fuoco: “Mickey Rourke dice che chi assegna gli Oscar è un sacco di merda. Non giocherò più nella Francia finché Henri Michel sarà il selezionatore, il calcio è un’arte minore, io sono interessato alle arti maggiori. Voglio vivere la follia creativa dell’artista, sono attratto dalla sofferenza, il grande artista è sempre incompreso”. Ecco l’affermazione, ecco l’incarnazione, il Dio che appartiene al mondo, non più il totalmente altro, la convinzione teologica che permetterà di dare nome e volto, seppure fra svelamento e velamento di un fraintendimento misconoscibile. Nantes, Coppa di Francia, preludio. Cantona colpisce Michel Der Zakarian, una scenetta da commedia di provincia, Der Zakarian non si fa male. Cantona al Sinedrio della disciplinare francese è una scultura bronzea: “Io e Michel siamo amici, veniamo dagli stessi posti, ci conosciamo fin da bambini”. Tre giornate ridotte a due. La fama gli giova, in estate lo vogliono tutti, ora anche il Marsiglia. “Torna a casa, Eric”. A Sedan, nelle Ardenne, fa un freddo cane, il campo è ghiacciato. Cantona calcia il pallone in tribuna, si toglie la maglia, la scaraventa verso la panchina. Il presidente Tapie la prende malissimo, fine della luna di miele. Nemo propheta in patria, una banale verità. Cantona finisce in prestito al Bordeaux, al Montpellier, ancora Marsiglia: Beckenbauer è affascinato da Cantona, forse perché anche Franz in gioventù ha reagito a un offesa picchiando qualcuno ed è stata la sua fortuna in quanto anziché vestire la maglia del derelitto Monaco 1860 vestirà quella del Bayern ridisegnando la mappa del calcio tedesco. Ma Tapie esonera il Kaiser e al Velodrome arriva il belga Raymond Goethals. Eric è fuori, emarginato, asceta lanuginoso, che non giocherà la finale di Coppa dei Campioni a Bari contro la Stella Rossa. A Marsiglia, resta tuttora uno dei discorsi più gettonati: “Se quella sera ci fosse stato Cantona…”. Eric si vendicherà con sottile perfidia: a un giornalista che gli chiederà conto di certe iniezioni ai tempi di Goethals, lui risponderà che il succo d’arancia se Io portava dal supermercato. Cessione al Nimes, capolinea del Cantona di Francia. In casa contro il Saint Etienne, Eric scaglia il pallone addosso all’arbitro e se ne va negli spogliatoi senza aspettare il rituale del cartellino rosso in faccia. Quell’espulsione servirà a scacciare i mercanti dal tempio, urlando “idiota” a ogni membro del consiglio federale. Di più, annuncia il suo ritiro: “Ho avuto il privilegio di assistere al mio funerale”. Poi in Val d’Isère, sospeso su una seggiovia ci ripensa: ritornerà a giocare, ma non in Francia, non può, non vuole. Oltremanica s’ incomincia a udire un coro destinato a entrare nei salmi della liturgia del tifo: “Ooh-aah Cantona. Welcome to Leeds, terra promessa, brughiera e vento, Elland Road e rosa bianca. Unguento sacro di Howard Wilkinson. Il Leeds è campione d’Inghilterra diciotto anni dopo l’ultima volta di quello sporco e cattivo di Don Revie. Eric segna, sopratutto ricopre di passaggi smarcanti i dioscuri Lee Champan e Gary Speed, la sua pura missione, il regalo, offrire e offrirsi, la generosità. Il Manchester United accende il radar. Alex Ferguson vuole l’attaccante e l’affare si compie. Sillogismi nel processo di strategia linguistica: “Mi chiedo se tu sia abbastanza bravo per giocare a Old Trafford”. E la teologia argomentata è teologia ritenuta scientifica. Cantona risponde secco: “Mi chiedo se Manchester sia abbastanza per me”. Comincia il suo vero apostolato, la sua tunica è quel colletto alzato contro il mondo, o per difendersi dal mondo, perché alla fine l’unico scopo del sacro è difenderci dal sacro. Ed Eric è ancora taumaturgo, il Manchester United si sbenda del sudario di Matt Busby tornando a vincere il campionato inglese dopo venticinque stagioni di semi anonimato. Cantona percorre una strada lastricata di parabole, e di prodigi: all’Arsenal, al Sunderland, al Wimbledon, l'interno collo altruista per Irvine, il delirio di Wembley in finale di FA Cup, dove concederà il lusso di un eterna pesca miracolosa, di un rosario apotropaico, contro i rivali di sempre del Liverpool infilando in rete a cinque minuti dal termine con un tiro levantino. Quattro campionati due Coppe d’Inghilterra, goal, tocchi imprevedibili, petto in fuori e mento sporgente. Mrs Jeane Pearch, imparruccato giudice di corte, legge la sentenza: condanna. Cella? no, cauzione, appello. Un altro giudice, Ian Davies, trasforma la pena detentiva in 120 ore di servizi sociali. Non termina la lettura che un tizio spalanca la porta e schizza fuori dall’aula. “Ragazzi - urla - il Re è libero!”. Un suono di tromba da qualche parte, in lontananza, verso un tramonto, verso ovest, verso i gabbiani, verso la baia di Blackpool, sempre protesa a dire a Manchester che esiste anche il mare oltre quel cielo plumbeo. Uscire e rientrare, ma attenzione osservava Heiddeger: posso essere anche trattenuto dalla follia, perché la follia è più forte della ragione. Non è un caso che quando i direttori dei manicomi dimettevano i pazienti ritenuti nuovamente idonei per la società, oltre alla loro firma apponevano il timbro D.C. (deo concedente). E allora il Vangelo di Cantona si chiude con un messaggio sapienziale: vediti nel volto del prossimo prima di giudicare. Nel 1997 appena due giorni prima del 31° compleanno dirà: “Sono stato professionista nel calcio per 13 anni, un tempo lungo. Ora ho voglia di fare altre cose”. Si è risposato, ha giocato a beach soccer, ha fatto cinema, il reazionario, l'irresponsabile. 
 
Deo concedente, bien sûr.

 

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