domenica 27 dicembre 2020

DOMO MEA


La voce roca, perfino un pò emozionata, di Sandro Ciotti uscì da tutte le radioline sintonizzate in FM su "tutto il calcio minuto per minuto" il 12 aprile 1970: 

"Prima di restituire la linea all'Olimpico, vorremmo segnalarvi un episodio marginale ma assai significativo che può testimoniare del clima di festosa e trepida attesa che regnava all'Amsicora alla vigilia della partita. I carabinieri hanno potuto trarre in arresto due pregiudicati da tempo latitanti che sono stati sorpresi tra la folla che si assiepava all'ingresso degli spogliatoi un'ora circa prima dell'inizio della gara per tentare di ottenere autografi dai giocatori cagliaritani. Prima di essere portati via dai militi dell'Arma, i due sono riusciti a ottenere gli autografi di Cera e Martiradonna. Per quello di Riva dovranno attendere ovviamente di aver assolto i propri debiti con la giustizia".

E poi alle 16 e 17 minuti.

“Avanza Nené. Ha davanti a sé Fara, lo supera agevolmente in velocità. Parte il cross ma Fara riesce a contrastarlo e a mettere la palla in calcio d’angolo. Ormai il pubblico è pronto per l’invasione pacifica del terreno. Una circostanza largamente prevista. E De Robbio fischia in questo istante la fine, il Cagliari è campione d’Italia.”

Un’isola che confina a nord con il cielo, a sud con il mare, a est con l’alba e a ovest col tramonto; la Sardegna è il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare. Una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla voglia di giustizia. La Sardegna non ha nulla di finito, nulla di definitivo. È come la libertà, risacca senza soluzione di continuità, dove le donne appaiono bellissime e selvatiche, e gli uomini scontrosi ed inflessibili, dove parlano una lingua vecchia di oltre 4000 anni, sparpagliata, frammischiata dagli alisei di Europa ed Africa. La Sardegna è un luogo senz’essere luogo, come se non avesse mai veramente avuto un destino o non lo avesse desiderato. Almeno fino alla primavera del 1970. A Sanremo vinsero Adriano Celentano e consorte con “Chi non lavora non fa l'amore”, seguiti a pochi voti di distanza dal duo Nicola Di Bari-Ricchi e Poveri con “La prima cosa bella”, forse la canzone più adatta da affibbiare alla storia del Cagliari, irripetibile con quella divisa bianca simile alla spuma del mare e quello scollo dritto sul petto abbellito da laccetti eleganti come a voler chiudere un epoca nella bellezza. Lo stadio Amsicora oggi non sarebbe omologato nemmeno per la serie C. La tribuna d'onore erano quattro gradoni di cemento coi numeri pitturati. Una sola curva, tutta in tubi Innocenti. Ma a mezzogiorno lo stadio era già pieno, ed era un tifo caldo ma civile. Non come a Milano o a Torino, dove il Cagliari veniva accolto a pietrate sul pullman e durante la partita gli urlavano banditi e pecorai. La questione sarda, signori, si trattava di una faccenda seria. Il capo della polizia dell'epoca, Angelo Vicari, ci aveva inviato il corpo speciale dei Baschi Blu, un migliaio di poliziotti e carabinieri scelti tra i reparti speciali per combattere il banditismo, i furti di bestiame, i sequestri di persona, gli omicidi. Reati, scrisse il presidente della Regione Paolo Dettori in una relazione: “riconducibili all’ambiente, al tipo di civiltà, al tipo di cultura dominante, che va modificandosi troppo lentamente perché non siano accentuati gli squilibri, e non appaiano più stridenti i contrasti tra un’economia e una società arretrate, in un certo modo primitive, e un’economia e una società che parzialmente hanno appreso quali modelli di vita proponga la civiltà moderna, e ne sono divenuti in qualche misura partecipi”. Questa era la Sardegna alla fine degli anni sessanta per l’Italia. Poi arrivò un allenatore, Manlio Scopigno, uomo in anticipo sui tempi: non sopportava i ritiri, capiva il gioco e i giocatori. Dava fiducia. Non urlava, bisbigliava, eppure sapeva farsi rispettare. Scopigno s’era iscritto all’Università La Sapienza di Roma, corso di Pedagogia. Per questo venne chiamato il Filosofo. Si vestiva elegante alla stregua di un lord inglese, ed era pure discreto con cinque carte da poker in mano, gli piaceva il cinema neorealista, oltre ad essere appassionato d’arte contemporanea e amico di Corrado Cagli. Leggeva moltissimo e fumava altrettanto. Ad immaginare e costruire la squadra dello scudetto fu un grande dirigente, Andrea Arrica. Nell’estate del ’68 vendette Rizzo alla Fiorentina e in cambio si prese il portiere Enrico Albertosi, detto Ricky, tipo alto, aitante, la zazzera da studentello sbarbato, suo padre faceva il portiere nel Pontremoli e lui volle imitarlo, facendo oggettivamente meglio. Arriva anche Brugnera, un terzino pieno di magico virtuosismo al punto che i tifosi se ne innamorarono immediatamente. E lo ricompensarono con un nomignolo che riassumeva tutta l’ammirazione per i suoi palleggi da giocoliere e le sue prodezze da funambolo: Zanfretta. L’anno seguente Arrica lasciò andare Boninsegna all’Inter, ma da Fraizzoli pretese e ottenne Domenghini e l’intelligenza tattica di Gori, più Poli per buon peso. I gregari si chiamavano Martiradonna e Zignoli, lo stopper Niccolai, Nenè, che sull’isola divenne mezzala di lotta e di governo. Poi c’era gente capace di cantare e portare la croce, vedi Ricciotti Greatti (ai genitori piaceva il nome del figlio di Giuseppe Garibaldi) e i suoi piedi morbidi, assieme alla visione geometrica, unita a qualche vizietto di troppo di Pierluigi Cera. Infine c’era lui, Luigi Riva. A capire tutto per primo fu Beppe Galluzzi, il suo allenatore ai tempi del Legnano: “Gigi mette la testa dove gli altri fanno fatica a mettere il piede.” Ed era vero, il coraggio di Luigi Riva da Leggiuno, ridente borgata affacciata sul lago Maggiore, non ce lo aveva nessuno. Forse perché la vita lo aveva subito guardato storto facendolo diventare completamente orfano a 15 anni. Dapprima perderà il padre operaio, colpito da un tondino di ferro impazzito sputato da una macchina in fabbrica che lo passerà da parte a parte, in seguito la madre sul fondo di un letto d’ospedale, e lui sentirà l’urgenza di scrivere quello che ancora manca ai suoi cent’anni di solitudine. Quando arriva a Cagliari è risentito contro la vita, sul campo dell’Amsicora non ce nemmeno l’erba, più che un trasferimento sembra un confino politico da contrabbandiere di sigarette. Se ne vorrebbe andare ma il direttore Andrea Arrica ci vede lungo, qui il vento può spostare il destino di un tipo così introverso. La Sardegna gli appare luogo lontanissimo e bizzarro, eppure Riva incomincia a sentirsi perfettamente a suo agio perché il mondo sardo è un mondo poco comunicato ma fortissimo dentro e quindi, improvvisamente, scoprirà di avere migliaia di famiglie pronte ad adottare i suoi silenzi. Gigi Riva capì di amare la Sardegna andando nelle case dei pescatori e dei pastori, negli ovili. Una volta lo portarono in un paesino, a Seui, in provincia di Nuoro, e sulla credenza di un’anziana, notò una sua foto in mezzo ai santini. L’amico che lo accompagnava chiese perché c’era quella foto, e la donna, senza riconoscerlo, rispose: “Lui è buono”. Martino, un pescatore, lo invita a casa e gli insegna a tagliare il pesce, a mangiarlo bene, senza parlare, ma con una gestualità che attinge in una cultura millenaria. Quell’isola chiamata anticamente Ichnusa, e che non c’entra niente con l’Italia, è terapeutica e miracolosa per gente schiva come lui. Anche Fabrizio De Andrè deciderà di trasferisi in Sardegna, si incontrearanno certo ma neanche troppo, e quando accadeva lo faranno sempre in maniera fluida, oltrepassandosi, "anime fragili", dentro il loro rispettivo limbo. Al Meazza, il giorno in cui la matematica ammetterà lo scudetto rossoblù, il Cagliari vincerà per 3-0, due reti le mise a segnò Riva, la terza Domenghini con uno scavetto. Su quel terzo goal Riva giunse di corsa, poteva benissimo segnarlo lui avrebbe chiuso alla Scala con una tripletta, ma improvvisamente rallenterà, volontariamente, osservando la palla del compagno finire dentro, dopodichè a passi calibrati andò a raccoglierla dal fondo della rete e se la portò al petto, infine deciderà di calciarla con forza, in alto, lassù da qualche parte, anzi no, non da qualche parte, la calciò verso la sua Sardegna. Verso casa sua.




 



 


 

 

 

giovedì 24 dicembre 2020

IL PRIMO A VIENNA





Il giardino del Barone Nathaniel Anselm Von Rothschild, si presentava ordinato e puntellato da una straordinaria esuberanza di colori in quel tiepido pomeriggio di agosto del 1894 quando i campanari di Vienna scandirono all’unisono le tre del pomeriggio. C’era il bianco delle camelie, il rossastro delle abelie, il verde del viburno, il ciclamino di Persia, e, soprattutto, le primule a foglie larghe e carnose con i fiori piccoli e graziosi di colore rosa violaceo, sorretti da steli robusti, le preferite dal Barone. Il capo giardiniere Franz Joli stava risistemando gli attrezzi nel buio del ripostiglio quando udì all’esterno degli strani rimbalzi sul prato tagliato di fresco. Una palla! Mein Gott! Quei due ragazzi inglesi assunti nei mesi precedenti stavano colpendo con i piedi e con la testa una sfera realizzata con vesciche di maiale. Si trattava di quel gioco, il football, o Fußball come si diceva da quelle parti. E chi l’avrebbe mai detto fosse così divertente, e poi quei due, William Beale e James Black sembravano anche piuttosto bravi oltre a conoscere le regole. Detto fatto. Un paio di pali a debita distanza, l’autista del Barone in porta con tanto di berretto d'ordinanza, e i sei giardinieri scatenati in un tre contro tre senza soluzione di continutà tanto che il clamore delle grida fece sobbalzare il vecchio Von Rothschild al punto da farlo svegliare dalla sua consueta dormitina pomeridiana e trafelato si avvicinò al finestone prospiciente il suo amato giardino per controllare cosa stesse accadendo. Si sistemò all’occhio sinistro il monocolo scostandosi leggermente in basso i portentosi baffoni e, tintinnando nervosamente una campanella, alle sue spalle si aprì la porta della camera da letto dove sulla soglia, impalato e imbarazzato, si palesò il maggiordomo Friedrich Rainer, ormai al suo servizio da una vita. “Ebbene! - chiese il Barone, - "Non vede che questo branco di pazzi mi sta distruggendo le aiuole, cosa diavolo succede?” Visibilemnte teso, il maggiordomo precisò che si trattava di un gioco, di uno sport. “Un gioco! per la testa degli Asburgo, un gioco che li licenzierà tutti dico io, guardi come hanno ridotto il giardino, e c’è anche il mio autista, Rudolph, a smanacciare quella palla, roba da matti”. Uno scenografico colpetto di tosse e il maggiordomo riprese la parola..- “Eppure, signor Rothschild, sembra che in Europa questo sport stia avendo molto successo..” -“Si, ho letto qualcosa..”. Chiarita la situazione e riportato l’ordine alla Villa, il Barone deciderà di salvaguardare i propri fiori concedendo ai ragazzi un terreno dove divertirsi nel dopolavoro, e sarà lì che prenderà rapidamente forma l’embrione del First Vienna Football Club. Qualche sera dopo il gruppo dei calciatori si fece più nutrito e al termine della solita partitella decideranno di fare le cose sul serio. Il 22 agosto si riuniscono in una legnosa birreria del centro cittadino, la “Zur Schone Aussicht” e fra boccali, fumo di sigaro, marsine e bombette, stendono l'atto fondativo della squadra. Le divise saranno quelle gialloblu usate dai fantini della scuderia ippica del Barone, poi mani premurose di sarta le adegueranno al nuovo uso, e, infine, per lo stemma si opterà per il “Triskelion”, un astruso essere con tre gambe legato alla mitologia greca, nonché simbolo dell’Isola di Man, guarda caso giusto dal luogo di provenienza dei due giardinieri inglesi. Era nata la prima squadra di calcio della capitale, logicamente, il First Vienna FC. Si, ma adesso serviva un avversario. Lo troveranno poco più tardi nel Wiener Cricket & FC, e quelle con i cricketers saranno da subito partite molto tese e sentite almeno fino al dissolvimento di questi ultimi nel 1936. Al contrario negli anni trenta i “döblinger” del First Vienna saranno una delle migliori squadre non solo austriache ma dell’intero panorama continentale, e si imporranno oltre che nei campionati pre Anschluss anche nella celeberrima e importantissima Mitropa Cup. Nel 1931 alzeranno il trofeo battendo i rivali cittadini del Wiener AC senza perdere nemmeno una partita con una formazione da tremendo scioglilingua mitteleuropeo, ciò nonostante leggendaria: Horesciolsly, Reiner, Kaler, Blum, Hoffmann, Schmans, Brossenbauer, Aldebrecht, Gschweidl, Togel e Marat. 
 
 

 
Lo stadio Hohe Warte nella zona di Heiligenstadt, XIX distretto, era arrivato a contenere fino a 80000 spettatori quando il Wunderteam austriaco nel 1923 affrontò la nazionale italiana. Poi nel dopoguerra ebbe iniziò un doloroso declino, anche se nel 1955 il First fu capace di vincere per la sesta volta il titolo nazionale, precedendo per differenza reti il Wiener SC. Negli anni ottanta arriveranno un paio di piazzamenti Uefa e nel decennio seguente una finale di Coppa d’Austria persa contro lo Sturm Graz per 2-1 al Prater. Va detto che per un breve periodo di tempo, nel 1980, in quella che ormai era diventata una squadra senza troppe ambizioni, giocherà Hans Krankl, bomber assoluto di Rapid e Barcellona, protagonista al campionato del mondo argentino del 1978 quando dopo un'assenza di 20 anni, e tutto sommato un buon percorso, l'Austria già eliminata giocò l'ultima gara contro la Germania Ovest. La partita, decisiva per gli avversari, prese una svolta inattesa: Krankl, dopo aver segnato il provvisorio 2-1, realizzò la sua rete più famosa, quella che fissò il risultato sul 3-2 e che sancì la prima vittoria dell'Austria sulla Germania in 47 anni. Segnata all'88' minuto va ancora in onda regolarmente sulla TV austriaca, e il commento audio (Tor Tor Tor Tor Tor Tor, I werd' narrisch - "Gol gol gol gol gol gol, sto diventando pazzo") è diventato una sorta di riconosciuto jingle dagli appassionati di calcio austriaci. Di fatto i tedeschi furono eliminati con quella sconfitta e a beneficiarne furono gli Azzurri che giunsero secondi nel girone. Attualmente i gialloblu del First Vienna militano nell’anonimato della Regionalliga, ma attenzione, restano club assolutamente seguito con sincera devozione da un intero quartiere. 
 


 

 

martedì 22 dicembre 2020

L'UNIONE FA TRIESTE


Ci furono italiani che la Grande Guerra la persero, indossando una divisa diversa, quando nel 1914 la corda insaponata dell’impiccagione incominciò a ballare il valzer della "Sacher Torte". Diventarono cannone da Gulasch, tremebonda intuizione che accomunava il pezzo d’artiglieria con la carne del soldato in prima linea. Successe ai triestini e ai friulani, che di quell’Impero erano parte, successe oltre il Danubio, oltre le pianure ungheresi, oltre i Carpazi e il granaio d' Ucraina, lassù dove ancora dopo cento anni la terra frigge per la tanta ferraglia che ha dovuto inghiottire, dove l’erba non cresce più per il troppo veleno assorbito, dove la sera, dopo i vasti temporali, sulla cima di un monte sforacchiato dalle gallerie si sentono nitidi i festini delle anime. Ebbene lassù, in Galizia e Lodomiria, lassù verso oriente, l’Impero austro-ungarico incontrava il poderoso fronte russo. Se tendete l’orecchio al vento potreste sentire un frusciare di pastrani di lana cotta, un calpestio di scarponi sulle foglie secche, potreste sentire un parlottio in diverse lingue, l’Impero non era l’Austria, l’Impero era una marmellata di popoli e fra quegli uomini dalle divise apparentemente uguali c’erano fabbri boemi, mercanti di cavalli dell’Erzegovina, mastri birrai tirolesi, contadini della pusta magiara, pescatori dalmati, mugnai della Slovacchia, pastori bosniaci, artigiani sloveni; l’Austria non era Austria, e in mezzo a questa Babele di voci emergeva anche il dialetto triestino. Partirono in 125000 dal Friuli Venezia Giulia e da Trieste, un terzo di loro sono rimasti a guardare la luna, da ormai più di un secolo, senza sapere in quale cimitero sono sepolti, senza che nessuno abbia mai portato loro un fiore, figli di una bandiera con un aquila nera bicipite, figli perduti, condannati all’oblio, privati di ogni cerimoniale, perché nati e morti bastardi. Sferzava un gran vento di bora la sera del 2 febbraio del 1919 quando nello storico Caffè Battisti in Viale XX settembre, fra l'andirivieni di camerieri in bombetta e marsina, si radunarono (ed è proprio il caso di dirlo) i rappresentanti di CS Ponziana e FC Trieste per dar vita all’embrione dell’Unione Sportiva Triestina Calcio. In realtà a ben vedere si trattò di una sorta di compromesso. Le due società condividevano quale campo di gioco la Piazza d'Armi di una ex caserma asburgica in Piazza Dalmazia e a causa di una serie di inconvenienti che derivavano da frequenti incontri, il Comando né proibì l'uso ai due sodalizi a patto che le due società si fondessero. “Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-alabardati, sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati...”. Sono i versi di uno dei più fulgidi spiriti letterari di Trieste, Umberto Saba, autore di cinque poesie sul calcio pur non essendo stato un tifoso accanito, ma a quanto pare, quelle liriche istantanee le trascrisse su un biglietto poi donato a un amico che lo costrinse ad andare allo stadio al suo posto, per un imperdibile Triestina- Ambrosiana. Erano gli anni ruggenti degli “Alabardati”. Alabardati intrepidi, come i suoi primi dirigenti, il “triumvirato” Bertazzoni, Fonda e Vaccari che nell’arco di un decennio portò alla costituzione di una squadra da massima serie, grazie anche ai buoni uffici con l’allora capo della Federcalcio, il gerarca fascista Leandro Arpinati. L’Italia campione del mondo in Francia nel 1938 poteva vantare tra le sue fila tre pilastri della Triestina: Gino Colaussi, Bruno Chizzo e Piero Pasinati. Quest’ultimo resta il recordman assoluto di presenze con 347 partite disputate nell’arco di tredici stagioni. Fino al ’37, e per un settennale, suo compagno di squadra fu il futuro “Paròn” delle panchine, Nereo Rocco, l’uomo che ha “triestinizzato” il calcio italiano. Il ragazzo, figlio di un macellaio, di ruolo centrocampista con compiti offensivi, trasferì in campo la grinta popolare dei “muli” di strada del natio Rione San Giacomo, e al contempo lo spirito borghese ereditato dal nonno austriaco, Ludwig, finito a Trieste per una fuga d’amore al seguito di una ballerina spagnola. Passionalità e spirito sanguigno, Nereo “Roch”, diventato Rocco (l’ufficio anagrafe commise un errore, doveva cambiare in Rocchi) nel 1925, quando la tessera del Partito era diventata imprescindibile per ogni mestiere, calciatore compreso. Rocco, convocato in Nazionale nell’anno mondiale 1934 (un unica presenza) lasciò Trieste la prima volta nel ’37 per approdare al Napoli previa assegno da 160mila lire. Fece ritorno nella sua città sotto la guerra per continuare a giocare con la formazione del 94º Reparto Distrettuale che trascinò alla promozione in Serie C. Alla fine dell’evento bellico, Rocco venne a sapere con enorme dispiacere la notizia Tóth-Potya, l’allenatore ungherese che lo aveva lanciato nella Triestina, era stato fucilato a Budapest dai tedeschi assieme all’altro mister danubiano, Géza Kertész, un altro che aveva allenato in mezza Italia, rei di aver aderito alla resistenza locale creando una rete che era riuscita a mettere in salvo centinaia di ebrei dai campi di concentramento. Parte della saggezza tattica e dello spirito vincente del Paròn allenatore lo si deve a quel sant’uomo di Tothò-Potya, del quale seguì la scia quando nel ’47 prese in mano una Triestina allo sbando per portarla quasi in testa alla classifica. Nel 1947/48 la Triestina di Rocco (imbattuta nello stadio di Valmaura) è formazione autoctona, con il solo attaccante Mario Begni (capocannoniere stagionale con 11 reti) a provenire da Somma Lombardo, mentre degli altri 14 scesi in campo nel corso del Torneo, 8 erano nati a Trieste, 3 in provincia di Gorizia ed uno ciascuno in provincia di Venezia, Udine e Pola. Nella formazione del "sistema" di Rocco si misero in luce Guerrino Striuli, Ivano Blason, il già citato Colaussi, Dino Antonini, Mario Tosolini, Antonio Sessa e Licio Rossetti. E arrivò quel clamoroso secondo posto in campionato, il miglior risultato di sempre mai ottenuto dall'Unione, appena dietro al Grande Torino, dove guarda caso militava il triestino Giuseppe Grezar, caduto pure lui il 4 maggio del 1949 nella sciagura aerea di Superga. “Trepido, seguo il vostro gioco. Ignari, esprimete con quello, antiche cose meravigliose sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari soli d’inverno.” Salto a casaccio. Ad esempio ecco il famoso ed indimenticabile 1982-83, promozione in serie B, l’anno di Francesco "Toto" De Falco e il baffuto Tiziano Ascagni (detto lo zingaro del goal), l’anno dello sponsor "Sansom" (una delle marche di gelateria più in voga nel periodo), dell’elegantissimo Ruffini, dell’esperto Zanini, del portierone Nieri, dei mastini Costantini e Trevisan, di un insuperabile Mascheroni e di un giovanissimo ma già determinante in alcune occasioni Mark Strukelj, ma anche Donatelli, Pasciullo, Leonarduzzi, Pedrazzini, Tolfo… Erano gli anni in cui i videoregistratori Betamax iniziavano a prendere piede e ricordo di custodire gelosamente una vecchissima cassetta fatta con la registrazione di uno speciale di "Telequattro" sulla trionfale cavalcata dell’Unione, vista penso un centinaio di volte. Erano gli anni dello stadio Grezar stracolmo, di una città veramente in festa. Mi ricordo le immagini dell’ultima partita casalinga con il Mestre. Tutte le squadre giovanili di Trieste in campo, palloncini, striscioni, ogni strumento di festa… Poi è iniziata una fase controversa. Nel 1984-85 la Triestina scende in campo con una magnifica maglia, in particolare, il modello verde fu indossato in quasi tutte le partite  fuori casa di quel campionato, dato che curiosamente, la maggior parte delle divise degli avversari degli alabardati avevano affinità cromatiche con le tradizionali maglie biancorosse utilizzate dai giuliani. In particolare, quel modello a manica corta fu visto in campo a Padova, Bologna, San Benedetto, Varese e nell’ultima gara di campionato a Campobasso il 16 giugno 1985. Fu quella la stagione in cui i biancorossi di Mister Giacomini andarono vicinissimi al ritorno in serie A, terminando la stagione a 47 punti, due in meno rispetto al Bari promosso. Grandi protagonisti di quell’anno fu ancora l’amatissimo bomber De Falco che con i suoi 16 gol fu il cannoniere della squadra. Francesco Romano da Saviano di Nola. Accanto a lui, con il numero 11 si avvicendarono principalmente il bomber molisano Nicola D’Ottavio che, a dire il vero, fece meglio in altre piazze rispetto a quella di Trieste e Giorgio De Giorgis, uno dei protagonisti della promozione in B di due anni prima, reduce dagli 11 gol del campionato precedente. La maglia, prodotta dal maglificio è straordinaria: a dire il vero assomigliava più ad una maglia da ciclismo con questa banda rossa orizzontale al centro della maglia, il cui punto forte è il ricamo stava dello sponsor "Fissan" che dell’alabarda stilizzata sia al centro della maglia (chiamato “Cocal” vale a dire gabbiano data la forma rassomigliante dell’alabarda stilizzata all’uccello marino) che su entrambe le maniche. Come noto, l’alabarda stilizzata di San Sergio, è il simbolo della città di Trieste: la leggenda narra che l’alabarda scese dal cielo direttamente nella piazza centrale della città il giorno del martirio di San Sergio nel 336 a.C. Quest’arma era ritenuta invincibile in guerra ed è tuttora conservata presso la cattedrale di San Giusto a Trieste. Anche il numero sul retro è molto particolare, fatto di una leggera stoffa cucita alla lanetta della maglia. Altri tempi, Amen.


LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...