“Avanza Nené. Ha davanti a sé Fara, lo supera agevolmente in velocità. Parte il cross ma Fara riesce a contrastarlo e a mettere la palla in calcio d’angolo. Ormai il pubblico è pronto per l’invasione pacifica del terreno. Una circostanza largamente prevista. E De Robbio fischia in questo istante la fine, il Cagliari è campione d’Italia.”
Un’isola che confina a nord con il cielo, a sud con il mare, a est con l’alba e a ovest col tramonto; la Sardegna è il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare. Una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla voglia di giustizia. La Sardegna non ha nulla di finito, nulla di definitivo. È come la libertà, risacca senza soluzione di continuità, dove le donne appaiono bellissime e selvatiche, e gli uomini scontrosi ed inflessibili, dove parlano una lingua vecchia di oltre 4000 anni, sparpagliata, frammischiata dagli alisei di Europa ed Africa. La Sardegna è un luogo senz’essere luogo, come se non avesse mai veramente avuto un destino o non lo avesse desiderato. Almeno fino alla primavera del 1970. A Sanremo vinsero Adriano Celentano e consorte con “Chi non lavora non fa l'amore”, seguiti a pochi voti di distanza dal duo Nicola Di Bari-Ricchi e Poveri con “La prima cosa bella”, forse la canzone più adatta da affibbiare alla storia del Cagliari, irripetibile con quella divisa bianca simile alla spuma del mare e quello scollo dritto sul petto abbellito da laccetti eleganti come a voler chiudere un epoca nella bellezza. Lo stadio Amsicora oggi non sarebbe omologato nemmeno per la serie C. La tribuna d'onore erano quattro gradoni di cemento coi numeri pitturati. Una sola curva, tutta in tubi Innocenti. Ma a mezzogiorno lo stadio era già pieno, ed era un tifo caldo ma civile. Non come a Milano o a Torino, dove il Cagliari veniva accolto a pietrate sul pullman e durante la partita gli urlavano banditi e pecorai. La questione sarda, signori, si trattava di una faccenda seria. Il capo della polizia dell'epoca, Angelo Vicari, ci aveva inviato il corpo speciale dei Baschi Blu, un migliaio di poliziotti e carabinieri scelti tra i reparti speciali per combattere il banditismo, i furti di bestiame, i sequestri di persona, gli omicidi. Reati, scrisse il presidente della Regione Paolo Dettori in una relazione: “riconducibili all’ambiente, al tipo di civiltà, al tipo di cultura dominante, che va modificandosi troppo lentamente perché non siano accentuati gli squilibri, e non appaiano più stridenti i contrasti tra un’economia e una società arretrate, in un certo modo primitive, e un’economia e una società che parzialmente hanno appreso quali modelli di vita proponga la civiltà moderna, e ne sono divenuti in qualche misura partecipi”. Questa era la Sardegna alla fine degli anni sessanta per l’Italia. Poi arrivò un allenatore, Manlio Scopigno, uomo in anticipo sui tempi: non sopportava i ritiri, capiva il gioco e i giocatori. Dava fiducia. Non urlava, bisbigliava, eppure sapeva farsi rispettare. Scopigno s’era iscritto all’Università La Sapienza di Roma, corso di Pedagogia. Per questo venne chiamato il Filosofo. Si vestiva elegante alla stregua di un lord inglese, ed era pure discreto con cinque carte da poker in mano, gli piaceva il cinema neorealista, oltre ad essere appassionato d’arte contemporanea e amico di Corrado Cagli. Leggeva moltissimo e fumava altrettanto. Ad immaginare e costruire la squadra dello scudetto fu un grande dirigente, Andrea Arrica. Nell’estate del ’68 vendette Rizzo alla Fiorentina e in cambio si prese il portiere Enrico Albertosi, detto Ricky, tipo alto, aitante, la zazzera da studentello sbarbato, suo padre faceva il portiere nel Pontremoli e lui volle imitarlo, facendo oggettivamente meglio. Arriva anche Brugnera, un terzino pieno di magico virtuosismo al punto che i tifosi se ne innamorarono immediatamente. E lo ricompensarono con un nomignolo che riassumeva tutta l’ammirazione per i suoi palleggi da giocoliere e le sue prodezze da funambolo: Zanfretta. L’anno seguente Arrica lasciò andare Boninsegna all’Inter, ma da Fraizzoli pretese e ottenne Domenghini e l’intelligenza tattica di Gori, più Poli per buon peso. I gregari si chiamavano Martiradonna e Zignoli, lo stopper Niccolai, Nenè, che sull’isola divenne mezzala di lotta e di governo. Poi c’era gente capace di cantare e portare la croce, vedi Ricciotti Greatti (ai genitori piaceva il nome del figlio di Giuseppe Garibaldi) e i suoi piedi morbidi, assieme alla visione geometrica, unita a qualche vizietto di troppo di Pierluigi Cera. Infine c’era lui, Luigi Riva. A capire tutto per primo fu Beppe Galluzzi, il suo allenatore ai tempi del Legnano: “Gigi mette la testa dove gli altri fanno fatica a mettere il piede.” Ed era vero, il coraggio di Luigi Riva da Leggiuno, ridente borgata affacciata sul lago Maggiore, non ce lo aveva nessuno. Forse perché la vita lo aveva subito guardato storto facendolo diventare completamente orfano a 15 anni. Dapprima perderà il padre operaio, colpito da un tondino di ferro impazzito sputato da una macchina in fabbrica che lo passerà da parte a parte, in seguito la madre sul fondo di un letto d’ospedale, e lui sentirà l’urgenza di scrivere quello che ancora manca ai suoi cent’anni di solitudine. Quando arriva a Cagliari è risentito contro la vita, sul campo dell’Amsicora non ce nemmeno l’erba, più che un trasferimento sembra un confino politico da contrabbandiere di sigarette. Se ne vorrebbe andare ma il direttore Andrea Arrica ci vede lungo, qui il vento può spostare il destino di un tipo così introverso. La Sardegna gli appare luogo lontanissimo e bizzarro, eppure Riva incomincia a sentirsi perfettamente a suo agio perché il mondo sardo è un mondo poco comunicato ma fortissimo dentro e quindi, improvvisamente, scoprirà di avere migliaia di famiglie pronte ad adottare i suoi silenzi. Gigi Riva capì di amare la Sardegna andando nelle case dei pescatori e dei pastori, negli ovili. Una volta lo portarono in un paesino, a Seui, in provincia di Nuoro, e sulla credenza di un’anziana, notò una sua foto in mezzo ai santini. L’amico che lo accompagnava chiese perché c’era quella foto, e la donna, senza riconoscerlo, rispose: “Lui è buono”. Martino, un pescatore, lo invita a casa e gli insegna a tagliare il pesce, a mangiarlo bene, senza parlare, ma con una gestualità che attinge in una cultura millenaria. Quell’isola chiamata anticamente Ichnusa, e che non c’entra niente con l’Italia, è terapeutica e miracolosa per gente schiva come lui. Anche Fabrizio De Andrè deciderà di trasferisi in Sardegna, si incontrearanno certo ma neanche troppo, e quando accadeva lo faranno sempre in maniera fluida, oltrepassandosi, "anime fragili", dentro il loro rispettivo limbo. Al Meazza, il giorno in cui la matematica ammetterà lo scudetto rossoblù, il Cagliari vincerà per 3-0, due reti le mise a segnò Riva, la terza Domenghini con uno scavetto. Su quel terzo goal Riva giunse di corsa, poteva benissimo segnarlo lui avrebbe chiuso alla Scala con una tripletta, ma improvvisamente rallenterà, volontariamente, osservando la palla del compagno finire dentro, dopodichè a passi calibrati andò a raccoglierla dal fondo della rete e se la portò al petto, infine deciderà di calciarla con forza, in alto, lassù da qualche parte, anzi no, non da qualche parte, la calciò verso la sua Sardegna. Verso casa sua.