Ci furono italiani che la Grande
Guerra la persero, indossando una divisa diversa, quando nel 1914 la corda
insaponata dell’impiccagione incominciò a ballare il valzer della "Sacher
Torte". Diventarono cannone da Gulasch, tremebonda intuizione che
accomunava il pezzo d’artiglieria con la carne del soldato in prima linea.
Successe ai triestini e ai friulani, che di quell’Impero erano parte, successe
oltre il Danubio, oltre le pianure ungheresi, oltre i Carpazi e il granaio d'
Ucraina, lassù dove ancora dopo cento anni la terra frigge per la tanta
ferraglia che ha dovuto inghiottire, dove l’erba non cresce più per il troppo
veleno assorbito, dove la sera, dopo i vasti temporali, sulla cima di un monte
sforacchiato dalle gallerie si sentono nitidi i festini delle anime. Ebbene
lassù, in Galizia e Lodomiria, lassù verso oriente, l’Impero austro-ungarico
incontrava il poderoso fronte russo. Se tendete l’orecchio al vento potreste
sentire un frusciare di pastrani di lana cotta, un calpestio di scarponi sulle
foglie secche, potreste sentire un parlottio in diverse lingue, l’Impero non
era l’Austria, l’Impero era una marmellata di popoli e fra quegli uomini dalle
divise apparentemente uguali c’erano fabbri boemi, mercanti di cavalli
dell’Erzegovina, mastri birrai tirolesi, contadini della pusta magiara,
pescatori dalmati, mugnai della Slovacchia, pastori bosniaci, artigiani
sloveni; l’Austria non era Austria, e in mezzo a questa Babele di voci emergeva
anche il dialetto triestino. Partirono in 125000 dal Friuli Venezia Giulia e da
Trieste, un terzo di loro sono rimasti a guardare la luna, da ormai più di un
secolo, senza sapere in quale cimitero sono sepolti, senza che nessuno abbia
mai portato loro un fiore, figli di una bandiera con un aquila nera bicipite,
figli perduti, condannati all’oblio, privati di ogni cerimoniale, perché nati e
morti bastardi. Sferzava un gran vento di bora la sera del 2 febbraio del 1919
quando nello storico Caffè Battisti in Viale XX settembre, fra l'andirivieni di
camerieri in bombetta e marsina, si radunarono (ed è proprio il caso di dirlo)
i rappresentanti di CS Ponziana e FC Trieste per dar vita all’embrione
dell’Unione Sportiva Triestina Calcio. In realtà a ben vedere si trattò di una
sorta di compromesso. Le due società condividevano quale campo di gioco la
Piazza d'Armi di una ex caserma asburgica in Piazza Dalmazia e a causa di una
serie di inconvenienti che derivavano da frequenti incontri, il Comando né
proibì l'uso ai due sodalizi a patto che le due società si fondessero. “Anch’io
tra i molti vi saluto, rosso-alabardati, sputati dalla terra natia, da tutto un
popolo amati...”. Sono i versi di uno dei più fulgidi spiriti letterari di
Trieste, Umberto Saba, autore di cinque poesie sul calcio pur non essendo stato
un tifoso accanito, ma a quanto pare, quelle liriche istantanee le trascrisse
su un biglietto poi donato a un amico che lo costrinse ad andare allo stadio al
suo posto, per un imperdibile Triestina- Ambrosiana. Erano gli anni ruggenti
degli “Alabardati”. Alabardati intrepidi, come i suoi primi dirigenti, il
“triumvirato” Bertazzoni, Fonda e Vaccari che nell’arco di un decennio portò
alla costituzione di una squadra da massima serie, grazie anche ai buoni uffici
con l’allora capo della Federcalcio, il gerarca fascista Leandro Arpinati.
L’Italia campione del mondo in Francia nel 1938 poteva vantare tra le sue fila
tre pilastri della Triestina: Gino Colaussi, Bruno Chizzo e Piero Pasinati.
Quest’ultimo resta il recordman assoluto di presenze con 347 partite disputate
nell’arco di tredici stagioni. Fino al ’37, e per un settennale, suo compagno
di squadra fu il futuro “Paròn” delle panchine, Nereo Rocco, l’uomo che ha
“triestinizzato” il calcio italiano. Il ragazzo, figlio di un macellaio, di
ruolo centrocampista con compiti offensivi, trasferì in campo la grinta
popolare dei “muli” di strada del natio Rione San Giacomo, e al contempo lo
spirito borghese ereditato dal nonno austriaco, Ludwig, finito a Trieste per
una fuga d’amore al seguito di una ballerina spagnola. Passionalità e spirito
sanguigno, Nereo “Roch”, diventato Rocco (l’ufficio anagrafe commise un errore,
doveva cambiare in Rocchi) nel 1925, quando la tessera del Partito era
diventata imprescindibile per ogni mestiere, calciatore compreso. Rocco,
convocato in Nazionale nell’anno mondiale 1934 (un unica presenza) lasciò
Trieste la prima volta nel ’37 per approdare al Napoli previa assegno da
160mila lire. Fece ritorno nella sua città sotto la guerra per continuare a
giocare con la formazione del 94º Reparto Distrettuale che trascinò alla
promozione in Serie C. Alla fine dell’evento bellico, Rocco venne a sapere con
enorme dispiacere la notizia Tóth-Potya, l’allenatore ungherese che lo aveva
lanciato nella Triestina, era stato fucilato a Budapest dai tedeschi assieme
all’altro mister danubiano, Géza Kertész, un altro che aveva allenato in mezza
Italia, rei di aver aderito alla resistenza locale creando una rete che era
riuscita a mettere in salvo centinaia di ebrei dai campi di concentramento.
Parte della saggezza tattica e dello spirito vincente del Paròn allenatore lo
si deve a quel sant’uomo di Tothò-Potya, del quale seguì la scia quando nel ’47
prese in mano una Triestina allo sbando per portarla quasi in testa alla
classifica. Nel 1947/48 la Triestina di Rocco (imbattuta nello stadio di
Valmaura) è formazione autoctona, con il solo attaccante Mario Begni
(capocannoniere stagionale con 11 reti) a provenire da Somma Lombardo, mentre
degli altri 14 scesi in campo nel corso del Torneo, 8 erano nati a Trieste, 3
in provincia di Gorizia ed uno ciascuno in provincia di Venezia, Udine e Pola.
Nella formazione del "sistema" di Rocco si misero in luce Guerrino
Striuli, Ivano Blason, il già citato Colaussi, Dino Antonini, Mario Tosolini,
Antonio Sessa e Licio Rossetti. E arrivò quel clamoroso secondo posto in
campionato, il miglior risultato di sempre mai ottenuto dall'Unione, appena
dietro al Grande Torino, dove guarda caso militava il triestino Giuseppe
Grezar, caduto pure lui il 4 maggio del 1949 nella sciagura aerea di Superga.
“Trepido, seguo il vostro gioco. Ignari, esprimete con quello, antiche cose
meravigliose sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari soli d’inverno.” Salto
a casaccio. Ad esempio ecco il famoso ed indimenticabile 1982-83, promozione in serie B, l’anno di Francesco "Toto" De
Falco e il baffuto Tiziano Ascagni (detto lo zingaro del goal), l’anno dello sponsor "Sansom" (una delle marche di
gelateria più in voga nel periodo), dell’elegantissimo Ruffini, dell’esperto
Zanini, del portierone Nieri, dei mastini Costantini e Trevisan, di un
insuperabile Mascheroni e di un giovanissimo ma già determinante in alcune
occasioni Mark Strukelj, ma anche Donatelli, Pasciullo, Leonarduzzi,
Pedrazzini, Tolfo… Erano gli anni in cui i videoregistratori Betamax iniziavano
a prendere piede e ricordo di custodire gelosamente una vecchissima cassetta
fatta con la registrazione di uno speciale di "Telequattro" sulla trionfale
cavalcata dell’Unione, vista penso un centinaio di volte. Erano gli anni dello stadio Grezar stracolmo, di una città veramente in festa. Mi ricordo le immagini dell’ultima partita casalinga con il Mestre. Tutte le squadre giovanili di
Trieste in campo, palloncini, striscioni, ogni strumento di festa… Poi è
iniziata una fase controversa. Nel 1984-85 la Triestina scende in campo con una
magnifica maglia, in particolare, il modello verde fu indossato in quasi tutte
le partite fuori casa di quel
campionato, dato che curiosamente, la maggior parte delle divise degli
avversari degli alabardati avevano affinità cromatiche con le tradizionali
maglie biancorosse utilizzate dai giuliani. In particolare, quel modello a
manica corta fu visto in campo a Padova, Bologna, San Benedetto, Varese e
nell’ultima gara di campionato a Campobasso il 16 giugno 1985. Fu quella la
stagione in cui i biancorossi di Mister Giacomini andarono vicinissimi al
ritorno in serie A, terminando la stagione a 47 punti, due in meno rispetto al
Bari promosso. Grandi protagonisti di quell’anno fu ancora l’amatissimo bomber De Falco che con i suoi 16 gol fu il cannoniere della squadra. Francesco Romano
da Saviano di Nola. Accanto a lui, con il numero 11 si avvicendarono principalmente il bomber molisano Nicola D’Ottavio
che, a dire il vero, fece meglio in altre piazze rispetto a quella di Trieste e
Giorgio De Giorgis, uno dei protagonisti della promozione in B di due anni
prima, reduce dagli 11 gol del campionato precedente. La maglia, prodotta dal
maglificio è straordinaria: a dire il vero assomigliava più ad una maglia da
ciclismo con questa banda rossa orizzontale al centro della maglia, il cui
punto forte è il ricamo stava dello sponsor "Fissan" che
dell’alabarda stilizzata sia al centro della maglia (chiamato “Cocal” vale a
dire gabbiano data la forma rassomigliante dell’alabarda stilizzata all’uccello
marino) che su entrambe le maniche. Come noto, l’alabarda stilizzata di San
Sergio, è il simbolo della città di Trieste: la leggenda narra che l’alabarda
scese dal cielo direttamente nella piazza centrale della città il giorno del
martirio di San Sergio nel 336 a.C. Quest’arma era ritenuta invincibile in
guerra ed è tuttora conservata presso la cattedrale di San Giusto a Trieste.
Anche il numero sul retro è molto particolare, fatto di una leggera stoffa
cucita alla lanetta della maglia. Altri tempi, Amen.
martedì 22 dicembre 2020
L'UNIONE FA TRIESTE
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