giovedì 29 luglio 2021

U' CAMPUASCE 1 JUVENTUS 0


Quel giorno a Campobasso la campanella delle scuole, di ogni ordine e grado, suonò l’orario d’uscita con un paio d’ore di anticipo. Era successo qualcosa del genere soltanto nel 1978 durante i primi, concitati, momenti del rapimento Moro da parte delle Brigate Rosse e nel novembre del 1980 per timore di scosse dopo la notte del terremoto nella vicina, devastata, Irpinia. Fortunatamente stavolta a chiudere prima i registri, su benevolenza del Prefetto, fu l’arrivò in città della Juventus per l’andata degli ottavi di finale della Coppa Italia. Era il 13 febbraio del 1985 e quell’anno la neve non aveva risparmiato nessuno in Italia, figuriamoci il Molise stretto nella morsa del gelo. Il Molise della caponata e del baccalà, il Molise dei figli mai dimenticati con gli occhi bagnati di pena imbarcati in navi già partite, il Molise senza camicia sperduto nell’Atlantico cattivo, il Molise che non esiste e invece te lo ritrovasti gracchiato alla radio da Riccardo Cucchi in un anonimo pomeriggio di mercoledì fra nuvole e cielo basso. A Campobasso c’era lo stadio nuovo, c’era il presidente Molinari, c’era la neve ammucchiata ai lati del campo, e c’erano ben oltre i ventiseimila paganti riportati dalle cronache, diciamo stavano tutti molto stretti, perché come dicono loro:  “U Mulis è na region, addó a gent jesch pazz pu pallon...E la dumeneca a Campuasce quanta gente va a veders la partita, dai pais d la region tienn tutt a frensij du pallon, oggi sem tutt amic...” Non ci sarebbe bisogno di un linguista per comprendere la matrice dialettale, affascinante spirito identificativo che stiamo perdendo insieme a tante, troppe altre cose in questo maledetto fracasso da social che ci fa credere erroneamente di essere più felici. Campobasso negli anni ottanta era la piazza d'armi di un esercito gioioso di sanniti, armato di entusiasmo e battezzato con acqua e aceto, che confluiva festoso a celebrare il rito pagano dell’adorazione del Lupo, totem e topos di riscatto. Quel Campobasso lo allenava Bruno Marzi, massese, zonaiolo torvo, inestricabile e sfuggente alla pari di ogni uomo nato su confini fisici e geografici. La fascia fu affidata a Marco Maestripieri, centrocampista intelligente dalla zazzera mora la cui rete da antologia aveva messo in ginocchio la Cavese ma non bastò a sancire la promozione fra i cadetti sfuggita per un punto. L’anno seguente in quel di Casarano si prese una sassata in testa e finì tre giorni in ospedale. Tempi complessi, scarnificati nel rancore da campanile, ingiuriati nel vento di un ordalia cruda eppure succulenta, emendata in quinte da sagra e sanguinacci, fatte di gradoni consunti, fumogeni a buon mercato, sterro assolato o generose erbette di nobili decadute, tipo il salottino della zia benestante che andavi a trovare alla vigilia di ogni Santo Natale per l’immancabile, trito, convenevole da romanzo di Balzac imperniato sul “come vai a scuola?” seguito dal “Ce l’hai la fidanzata?”, e giù un bicchierino di vino sotto il consenziente sguardo dei genitori che a casa nemmeno l’aranciata ti facevano bere, ma cosa vuoi l'eredità preme e allora dai, un sorso tipo pirata dei Caraibi, tanto ora sei grande pure se compivi otto anni e poi, leggermente ebbro, uscivi con la bustina delle ventimila lire da spendere in figurine. Accanto a Mastripieri ci fu l’esperto Guido Biondi, una sentenza nella categoria sui calci piazzati, ci fu Raffaele Di Risio, “local boy” direbbero in inglese, molisano e corridore. E Primo Maragliulo, mezzala ribelle ed elegante autore indimenticato del goal promozione alla Reggina. Nell’esordio altisonante all’ Olimpico, contro una Lazio impelagata al piano di sotto, la matricola si disimpegnerà alla grande e dietro spiccava uno dei migliori liberi del momento. Non lo dicevano i tifosi, nemmeno i compagni o il presidente. Lo disse Azeglio Vicini che nella sua splendida Under ’21 chiamò Mimmo Progna. In porta c’era Walter Ciappi, una sicurezza, e in mezzo spuntavano i baffi da carabiniere di provincia dello storico capitano Michele Scorrano da Ururi, paesino di minoranza albanese a sessanta chilometri da Campobasso. Oh, attenzione, in quella B albergava anche il Milan del trio Jordan-Incocciati-Damiani. Qualche sorrisetto malizioso per l'ingresso del Campobasso a San Siro ma alla fine arrivò uno 0-0, come a Roma. Una dichiarazione d’intenti ben precisa e salvezza anticipata. A subire la banda di Marzi in Coppa Italia fu la Fiorentina di Antognoni, Graziani, Passarella e Bertoni, insomma mica pizza e fichi. Il Campobasso in dieci per la doppia ammonizone inflitta a Di Risio la combinerà bella. A un quarto d’ora dal termine, Biondi lanciò Mario Goretti, il fedelissimo riccioluto onnipresente nel quinquennio della felicità rossoblù. Sul cross, velo di Biagetti per D’Ottavio, che salterà elegantemente un viola e farà secco Galli. Ecco, bando ai convenevoli, nei primi due mesi del 1984 il Campobasso si sistemerà, persino a suo agio, per quattro settimane in testa alla classifica della B, forte di sei successi consecutivi fra i muri o "muretti" amici. Sugli scudi la smorfia furba di Carlo Perrone e il passo metodico di Silvano Pivotto. Superata la Fiorentina, al Romagnoli da rinnovare locato nell'immediata periferia, scenderà la Juventus in una fantastica e grottesca serata campobassana. Settanta operai e un numero imprecisato di tifosi spalarono la neve. L’ingegnere di competenza si era rifiutato di firmare il verbale di agibilità del campo rendendosi irreperibile, e a quel punto un giudice sequestrò d’ufficio gli atti, tuttavia, per evitare che la partita del secolo venisse spostata altrove, il Comune affidò l’incarico a un altro professionista e, in un amen, arrivò il nullaosta democristiano alla volemose bene. Palla al centro, di là Platini e Boniek, di qua Ugolotti e Anzivino. Sarà proprio Guido Ugolotti, sul finire del primo tempo, a sancire la vittoria con un tiraccio che Pioli cercò disperatamente di smorzare ma che aiutato dal soffio di una città intera scavalcherà Bodini ormai seduto. Nel computo non servirà a niente perché a Torino nonostante il vantaggio siglato da Perrone la Juventus non poteva permettersi il lusso di una seconda figuraccia e al novantesimo ne butterà dentro quattro. “So nat a cambuash e qua s magn assaj, e non ti abbotti quasi mai, e da quando impazzisco per te m so mbarat a massà l cavatiell. Poi crescendo mi viene da pensar, nu poc e dieta l’avessa fa, e se un giorno mammà lo vorrà torn alla cas e magn u baccalà arracanat…” finiamo così, con un coro della Nord rossoblù sparigliato sulle note di spirit in the sky di Norman Greenbaum, nonostante la versione che ebbe maggior successo sia quella del 1986, dei Doctor & The Medics, incisa da MadMan. E' vero, Campobasso 1 Juventus 0 potrebbe essere benissimo il titolo di un libro, di una commedia teatrale, oppure di un film, io penso farebbe un discreto successo.

 

martedì 27 luglio 2021

LA STELLA DELLO SLAVIA


Calarono le sere d’estate su Praga, nell’elegante distretto di Vinohrady si andava al caffè; ci andava il vecchietto a leggere i giornali fissati nelle austere stecche di legno, la signora borghese per mostrare il cappello nuovo, la coppia in viaggio di nozze intimidita dagli sguardi curiosi degli astanti, il solito provincialotto col portafogli gonfio di corone che metteva in caricatura prologo, commedia e epilogo; ci andava l'ebreo, forse per sentirsi, col ventaccio che tirava, meno solo. E la notte del sabato poi, sacra alla libera uscita, ci andavano anche le serve, le cameriere e le nutrici. Ma, ahimè, con un po’ d'occhio clinico si intuiva che tutta questa festa, questa ebbrezza, questo lasciateci in pace, cominciava a stare su attaccato coi denti. Si capiva bene fuori dai locali, nel pulsare di luci sulle facciate e sugli spigoli dei palazzi Bohèmien, dove Praga si rivelava per quello che era veramente in quel momento: effimera, intimorita, anche più avanti oltre il ponte di San Carlo, e Malastrana; ombre di statue, lampade rossigne, radi capannelli di gente intenta a parlare sottovoce. Radio e giornali portavano ogni giorno parole come pietre dure, alle stregua di quelle intagliate dagli orafi di Re Rodolfo, comunicati che portavano l'angoscia di un destino incerto, la guerra incombeva con i suoi orpelli d’ouverture e le sue brame di pezzi di terra. Seduto su una panchina in ghisa, affacciata sul lento scorrere della Moldava, c’èra un uomo, John Madden, mangiava qualcosa in silenzio, piccoli gesti compassati, il corpaccione da scozzese sveglio, borsalino in canapa, rughe vistose e i baffoni bianchi a manubrio a segnalare una certa età, e lo sappiamo, una certa età è sempre un età incerta. Nel 1905 aveva accettato l'offerta dello Slavia, era divenuto l’allenatore di quelli cuciti in due dal rosso e dal banco, detti per questo motivo “Sešívaní”. Arrivò a Praga a 40 anni suonati e ben 25 li trascorse a fare il tecnico dello Slavia. In quel luglio del 1938 con poche lucciole e tanti brividi da implosione, i documenti d'identità, lodevoli nel nominare la dolce natia Dumbarton, risultarono impietosi nel dire settanta più tre. Ad ogni modo, al di là del dettaglio anagrafico, pare ci fosse stato un vuoto di potere sulla panchina del club, e in qualche modo il buon Madden non riuscì a dire di no, d’altra parte in ballo c’era una Coppa Mitropa da vincere e lo Slavia non era mai riuscito nell’impresa. Adesso la finale incombeva e lo Slavia di chance per vincere ne aveva eccome, nonostante l’avversario (l’Ambrosiana di Milano) lo agitasse un po’ perché conosceva il calcio italiano e andava ripetendo che se questi avevano vinto due mondiali consecutivi un motivo doveva senz’altro esserci. Madden, che nel '38 i suoi giocatori chiamavano amichevolmente "Dědek" (il vecchietto), risultava allenatore severo, nondimeno lo adoravano. Fu lui a voler introdurre allenamenti senza pallone, una roba piuttosto insolita ai tempi. A Praga Madden trovò la donna della sua vita, Frantiska Jindriska, di diciassette anni più giovane, dalla quale ebbe un figlio Jindřich Richard, soprannominato Harry, un ragazzotto persino di talento nel calcio ma la sua vita finì presto in tragedia quando si suicidò a causa di un amore non corrisposto. Madden adorava lo Slavia, la squadra dalla grande stella rossa sul petto, un simbolo assunto quando nel 1892 un gruppo di giovani non in sintonia con le politiche degli Asburgo, organizzarono un’amichevole per sostenere degli studenti che invocavano un ideale speranza di libertà. Speranza, si, perchè Stelle in greco si legge siderales, in latino desiderantes, e sta a significare appunto desiderio. Nel Debello Gallico di Giulio Cesare i desiderantes erano i soldati lasciati nelle retrovie in attesa di coloro che, smarriti nell'impeto della battaglia, non erano ancora tornati, e spesso questo desiderio di rivedere i commilitoni restava vano, eppure, ogni volta si alimentava della mancanza, quindi rieccoci alla parola "speranza".  Lo Slavia Praga del 1938 fissava il perno soprattutto su Josef Bican, attaccante biondo, gagliardo e massiccio, figlio di emigranti boemi trapiantati a Vienna, a otto anni orfano di padre e presto finito sulla soglia della povertà. Inedia e qualche passaporto cambiato; pluri-naturalizzato, in una metamorfosi quasi kafkiana, non sufficiente a salvarlo dall'etichetta di "bastardo austriaco", fortuna che lo grazierà il calcio attraverso una straordinaria implacabilità sotto porta. Su Bican, detto “Pepi”, il ragazzino che correva scalzo dietro a un pallone di stracci, sono sorte le più svariate leggende, dalle cinquemila reti, ai numeri spettacolari in allenamento in cui si diceva riuscisse a colpire dal limite dell’area una serie di bottiglie posizionate sulla traversa. Si disse anche che una volta mamma Ludmila, dopo che Josef aveva subito un brutto fallo, memore dell’incidente fatale del padre su un campo da gioco, scese di corsa sul terreno per punire a colpi d'ombrello il troppo rude avversario. Lo Slavia è terra promessa, almeno ci prova nell'escatolgia dello stemma. Lunedi 11 luglio 1938, allo stadio di Strahov, eretto fra tribunette da poco cementate, fra gli sguardi ammirati di oltre ventimila persone, e sotto palazzoni rivestiti di barocco dagli enormi infissi in rovere, scenderanno in campo Slavia e Ambrosiana striati di brillantina. Non c’era Frantisek Planicka, il portiere, veterano dei praghesi, non alto ma energico, atletico, irruento. Planicka secondo l'agiografia da "istituto luce" abbrancava i palloni più inesorabili, con un tuffo ad arco perfetto dentro il maglione a collo alto che Madden volle donargli. Al suo posto lo Slavia in quel match schierò fra i pali Alexander Boksay, umile guardiano ricurvo arrivato dal seminario russo di Uzhorod. Fu la peggiore umiliazione nella storia dei nerazzurri milanesi, un 9-0 da stordimento, tripletta di Bican, doppietta di Vaclav Horak, poi sottofondo di musica classica da anticamera con il metronomo Rudolph Vytlacil, Vojtěch Bradac, Karel Cerny, e Vlastimil Kopecky, uno che cominciò a giocare nella squadra di una fabbrica di birra. Naturalmente una mera formalità il ritorno, adagiatosi sugli almanacchi sopra l’inutile vittoria casalinga della futura Internazionale per 3-1. La stella dello Slavia brillava in Europa. La guerra poteva attendere, ma mica tanto..
 

 

 

lunedì 26 luglio 2021

LA STRADA DI ST. GILLOISE


Dalle cronache dei giornali risulta che il cielo fosse stato grigio, ma un grigio volatile, vacillante, non pioveva, tirava solo quel venticello ambiguo che non sai se sia arrivato per scacciare le nuvole oppure per radunarle in nembi scuri e poi, al primo vuoto di brezza, ecco cadere giù uno scroscio d’acqua da rifugiarsi alla prima Brasserie, magari in quella di Parvis de St.Gilles, la Taverne de l’Union, dove sostò anche George Simenon, chissà se accompagnato impercettibilmente dall’alone del suo Maigret, seduti e abbracciati dalla carta da parati a motivi floreali in un effluvio dal gusto decadente e bohémien tale da far scompigliare l’anima e persino le date sul calendario per capire se siamo ancora nel presente o sospesi nel ridotto di una curva spazio temporale parallela al suo scorrere. Perché ci dicono sempre che la vita continua e forse non è vero, forse alle volte la vita si ferma e passano solo i giorni. Lo stadio Joseph Marien nel 1959 odorava di selciato e di tenera erbaccia, laggiù nel distretto di Forêt in mezzo ai grandi alberi del vicino parco situato al confine con la fatiscente St.Gilles posta alla periferia sorda di Bruxelles, lenta ad anticipare la Mosa e le Ardenne. Agli inizi gli spogliatoi erano addirittura situati in una sorta di capanno al limitare del bosco, e i giocatori dovevano correre tra i cespugli e tra la folla per arrivare sul campo; successivamente arrivò una sistemazione più comoda, sottostante alla facciata dell’impianto, eretta con mattoni d’arenaria disposti nel consueto stile Art Déco che se non stai attento pare di essere a Craven Cottage sulla Stevenage Road che odora di Tamigi. Nei giorni delle partite la stradina lungo il terreno di gioco viene chiusa, e a quel punto i tifosi aspettano l’ora più comoda o propizia per entrare vagando tra le piccole tribune e i caffè delle case attigue. Quel 7 ottobre del 1959, nel profluvio di brabantino e fiammingo, si sentiva nitidamente anche parlare inglese. Si stava infatti per disputare la semifinale di andata della Coppa delle Fiere: Union St. Gilloise contro Birmingham City, uno squadrone per l'epoca. I due capitani si mostrarono ai fotografi recanti i rispettivi, solenni gagliardetti, disposti a destra e sinistra da un serioso arbitro tedesco; loro si chiamavano Jaen Claes e Trevor Smith. Sulle maglie non c’è molto da capire, ma chissà perché personalmente mi prende ogni volta tutta questa nostalgia per le divise di lanina. Una era gialla, leggero girocollo blu, e naturalmente, deo gratias, niente sponsor. L'altra bianca, perché il Birmingham City giocava in trasferta, bianca come la luna, solcata appena da finissimi orpelli blu a strisce orizzontali. Il calcio lo si può guardare anche da questo punto di vista, diciamo da un materasso che non vede ma sente e da occhi che non sentono ma vedono. Eppure si riannoda la stessa storia: si legge, si ascolta, si annusa aria di guai ai reazionari del retrò, si sente dire basta all’inutile e anacronistica rincorsa a un passato sepolto. Tutte ciance, il presente non esiste e il futuro arriverà, esiste solo "l'Aiòn" dei greci e buonanotte al secchio. In ogni caso l’Union St. Gilloise, a cui andrebbe aggiunto il suffisso Royale, perché comunque la si pensi in tema di monarchia per me vale sempre il detto appuntato su un trafiletto letto chissà quando su le "Figarò" che diceva: "il Belgio è il cuore fermo dell’Europa che si muove". Resta a prescindere ritratto agrodolce di un club mutato ma nemmeno troppo, opera di un gruppo di amici riunitesi in un fumoso circolo cittadino nel 1897. Passiamo ai Numeri. Quell’Union del 1959 perse entrambe le partite con gli inglesi tuttavia chi se ne frega, quanta voglia di un calcio più sostenibile, meno frenetico, leggero, a misura di tifoso, mette questo club? Già perché comunque la si pensi a St. Gilloise, almanacco sul tavolo e boccale col luppolo di Hallertau alla mano, affermano, con indubbia ragione, di essere la terza squadra più importante del Belgio nonostante gli acciacchi dovuti a contingenze varie. Insomma, andate alla loro Club House, un palazzo in legno e laterizi, pieno zeppo di cimeli calcistici, roba che da sola vale il viaggio anche nei giorni senza partita. Oltre all'armamentario classico dell'Union pionieristico, si nota la celebre squadra di metà anni ’30, rimasta imbattuta per ben 60 partite di campionato guidata dal portiere della nazionale André Vandeweyer, poi spunta la targa a Jef Valise, l'eterno tifoso unionista che portava la borsa della divisa dello zio Jacques alle partite casalinghe, funziona ancora un vecchio juke box con incorporati gli inni della squadra e appeso sopra vigila il quadretto autografato da Jean-Pierre Janssens e Roger Van Cauwelaert due gemelli del goal mica da poco. E se è vero che i grandi club non muoiono mai, l'ultimo esempio toh, guarda caso, è proprio l'Union Saint Gilloise, risorta dalle sue ceneri per la gioia di noi donchisciotteschi (più schiocchi che don) difensori del calcio romantico, ammaliati dalla storia e dall'incomparabile atmosfera che sprigionano certi luoghi, e allora, per farci felici a noi pochi, "noi felici pochi", mutuando Enrico V, l’Union del giovane tecnico Karel Geraerts (un biondone di Genk con un discreto passato fra Standard Liegi e Bruges) tornata nella massima serie dopo 48 anni, e udite bene, lo ha fatto andando a vincere 3-1 in casa dell’Anderlecht. A quanto pare la strada di St. Gilloise sta diventando lunga persino in Europa, i quarti di finale di Europa League (parolaccia uscita da oltre vent'anni dal vocabolario UEFA) sono diventati realtà, tutti dietro alle lanterne di Gustav Nilsson, Teddy Teuma e Simon Adingra. Insomma, non aggiungo altro, bentornati "Unionistes" mettete un pochino di sale in questo brutto mondo insipido.



 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...