Calarono le sere d’estate su Praga, nell’elegante distretto
di Vinohrady si andava al caffè; ci andava il vecchietto a leggere i giornali fissati
nelle austere stecche di legno, la signora borghese per mostrare il cappello nuovo, la coppia in
viaggio di nozze intimidita dagli sguardi curiosi degli astanti, il solito
provincialotto col portafogli gonfio di corone che metteva in caricatura prologo,
commedia e epilogo; ci andava l'ebreo, forse per sentirsi, col ventaccio che
tirava, meno solo. E la notte del sabato poi, sacra alla libera uscita, ci
andavano anche le serve, le cameriere e le nutrici. Ma, ahimè, con un po’
d'occhio clinico si intuiva che tutta questa festa, questa ebbrezza, questo
lasciateci in pace, cominciava a stare su attaccato coi denti. Si capiva bene fuori
dai locali, nel pulsare di luci sulle facciate e sugli spigoli dei palazzi Bohèmien, dove Praga si rivelava per quello che era veramente in quel momento: effimera, intimorita,
anche più avanti oltre il ponte di San Carlo, e Malastrana; ombre di statue,
lampade rossigne, radi capannelli di gente intenta a parlare sottovoce. Radio e giornali portavano ogni
giorno parole come pietre dure, alle stregua di quelle intagliate dagli orafi di Re Rodolfo,
comunicati che portavano l'angoscia di un destino incerto, la guerra incombeva
con i suoi orpelli d’ouverture e le sue brame di pezzi di terra. Seduto su una
panchina in ghisa, affacciata sul lento scorrere della Moldava, c’èra un uomo, John Madden, mangiava
qualcosa in silenzio, piccoli gesti compassati, il corpaccione da scozzese sveglio,
borsalino in canapa, rughe vistose e i baffoni bianchi a manubrio a segnalare una certa età, e lo sappiamo, una certa età è
sempre un età incerta. Nel 1905 aveva accettato
l'offerta dello Slavia, era divenuto l’allenatore di quelli cuciti in due dal
rosso e dal banco, detti per questo motivo “Sešívaní”. Arrivò a Praga a
40 anni suonati e ben 25 li trascorse a fare il tecnico dello Slavia. In quel luglio del 1938 con poche lucciole e tanti brividi da implosione, i documenti d'identità, lodevoli nel nominare la dolce natia Dumbarton, risultarono impietosi nel dire settanta più tre. Ad ogni modo, al di là del dettaglio anagrafico, pare ci fosse stato un vuoto di potere sulla panchina del club, e in qualche
modo il buon Madden non riuscì a dire di no, d’altra parte in ballo c’era
una Coppa Mitropa da vincere e lo Slavia non era mai riuscito nell’impresa. Adesso la finale incombeva e lo Slavia di chance
per vincere ne aveva eccome, nonostante l’avversario (l’Ambrosiana di Milano)
lo agitasse un po’ perché conosceva il calcio italiano e andava ripetendo che se questi avevano
vinto due mondiali consecutivi un motivo doveva senz’altro esserci. Madden, che nel '38 i suoi giocatori chiamavano amichevolmente "Dědek" (il vecchietto), risultava
allenatore severo, nondimeno lo adoravano. Fu lui a voler introdurre
allenamenti senza pallone, una roba piuttosto insolita ai tempi. A Praga Madden
trovò la donna della sua vita, Frantiska Jindriska, di diciassette
anni più giovane, dalla quale ebbe un figlio Jindřich Richard, soprannominato
Harry, un ragazzotto persino di talento nel calcio ma la sua vita finì presto in tragedia quando si suicidò a causa di un amore non corrisposto. Madden
adorava lo Slavia, la squadra dalla grande stella rossa sul petto, un simbolo assunto quando nel
1892 un gruppo di giovani non in sintonia con le politiche degli Asburgo, organizzarono
un’amichevole per sostenere degli studenti che invocavano un ideale speranza di libertà. Speranza, si, perchè Stelle in greco si legge siderales, in latino desiderantes, e sta a significare appunto desiderio. Nel Debello Gallico di Giulio Cesare i desiderantes erano i soldati lasciati nelle retrovie in attesa di coloro che, smarriti nell'impeto della battaglia, non erano ancora tornati, e spesso questo desiderio di rivedere i commilitoni restava vano, eppure, ogni volta si alimentava della mancanza, quindi rieccoci alla parola "speranza". Lo
Slavia Praga del 1938 fissava il perno soprattutto su Josef Bican, attaccante biondo, gagliardo
e massiccio, figlio di emigranti boemi trapiantati a Vienna, a otto anni orfano di padre e presto finito sulla soglia della povertà. Inedia e qualche passaporto cambiato;
pluri-naturalizzato, in una metamorfosi quasi kafkiana, non sufficiente a salvarlo dall'etichetta di "bastardo austriaco", fortuna che lo grazierà il calcio attraverso una straordinaria
implacabilità sotto porta. Su Bican, detto “Pepi”, il ragazzino che correva
scalzo dietro a un pallone di stracci, sono sorte le più svariate leggende,
dalle cinquemila reti, ai numeri spettacolari in allenamento in cui si diceva
riuscisse a colpire dal limite dell’area una serie di bottiglie posizionate
sulla traversa. Si disse anche che una volta mamma Ludmila, dopo che Josef
aveva subito un brutto fallo, memore dell’incidente fatale del padre su un
campo da gioco, scese di corsa sul terreno per punire a colpi d'ombrello il troppo
rude avversario. Lo Slavia è terra promessa, almeno ci prova nell'escatolgia dello stemma. Lunedi 11 luglio 1938, allo stadio
di Strahov, eretto fra tribunette da poco cementate, fra gli sguardi ammirati
di oltre ventimila persone, e sotto palazzoni rivestiti di barocco dagli enormi infissi in rovere, scenderanno in campo Slavia e Ambrosiana striati di brillantina. Non c’era Frantisek
Planicka, il portiere, veterano dei praghesi, non alto ma energico, atletico,
irruento. Planicka secondo l'agiografia da "istituto luce" abbrancava i palloni più inesorabili, con un tuffo ad arco
perfetto dentro il maglione a collo alto che Madden volle donargli. Al suo posto
lo Slavia in quel match schierò fra i pali Alexander Boksay, umile guardiano ricurvo arrivato dal seminario russo di Uzhorod.
Fu la peggiore umiliazione nella storia dei nerazzurri milanesi, un 9-0 da
stordimento, tripletta di Bican, doppietta di Vaclav Horak, poi sottofondo di musica
classica da anticamera con il metronomo Rudolph Vytlacil, Vojtěch Bradac, Karel Cerny, e Vlastimil
Kopecky, uno che cominciò a giocare nella squadra di una fabbrica di birra. Naturalmente una mera formalità il ritorno, adagiatosi sugli almanacchi
sopra l’inutile vittoria casalinga della futura Internazionale per 3-1. La
stella dello Slavia brillava in Europa. La guerra poteva attendere, ma mica tanto..
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