lunedì 26 luglio 2021

LA STRADA DI ST. GILLOISE


Dalle cronache dei giornali risulta che il cielo fosse stato grigio, ma un grigio volatile, vacillante, non pioveva, tirava solo quel venticello ambiguo che non sai se sia arrivato per scacciare le nuvole oppure per radunarle in nembi scuri e poi, al primo vuoto di brezza, ecco cadere giù uno scroscio d’acqua da rifugiarsi alla prima Brasserie, magari in quella di Parvis de St.Gilles, la Taverne de l’Union, dove sostò anche George Simenon, chissà se accompagnato impercettibilmente dall’alone del suo Maigret, seduti e abbracciati dalla carta da parati a motivi floreali in un effluvio dal gusto decadente e bohémien tale da far scompigliare l’anima e persino le date sul calendario per capire se siamo ancora nel presente o sospesi nel ridotto di una curva spazio temporale parallela al suo scorrere. Perché ci dicono sempre che la vita continua e forse non è vero, forse alle volte la vita si ferma e passano solo i giorni. Lo stadio Joseph Marien nel 1959 odorava di selciato e di tenera erbaccia, laggiù nel distretto di Forêt in mezzo ai grandi alberi del vicino parco situato al confine con la fatiscente St.Gilles posta alla periferia sorda di Bruxelles, lenta ad anticipare la Mosa e le Ardenne. Agli inizi gli spogliatoi erano addirittura situati in una sorta di capanno al limitare del bosco, e i giocatori dovevano correre tra i cespugli e tra la folla per arrivare sul campo; successivamente arrivò una sistemazione più comoda, sottostante alla facciata dell’impianto, eretta con mattoni d’arenaria disposti nel consueto stile Art Déco che se non stai attento pare di essere a Craven Cottage sulla Stevenage Road che odora di Tamigi. Nei giorni delle partite la stradina lungo il terreno di gioco viene chiusa, e a quel punto i tifosi aspettano l’ora più comoda o propizia per entrare vagando tra le piccole tribune e i caffè delle case attigue. Quel 7 ottobre del 1959, nel profluvio di brabantino e fiammingo, si sentiva nitidamente anche parlare inglese. Si stava infatti per disputare la semifinale di andata della Coppa delle Fiere: Union St. Gilloise contro Birmingham City, uno squadrone per l'epoca. I due capitani si mostrarono ai fotografi recanti i rispettivi, solenni gagliardetti, disposti a destra e sinistra da un serioso arbitro tedesco; loro si chiamavano Jaen Claes e Trevor Smith. Sulle maglie non c’è molto da capire, ma chissà perché personalmente mi prende ogni volta tutta questa nostalgia per le divise di lanina. Una era gialla, leggero girocollo blu, e naturalmente, deo gratias, niente sponsor. L'altra bianca, perché il Birmingham City giocava in trasferta, bianca come la luna, solcata appena da finissimi orpelli blu a strisce orizzontali. Il calcio lo si può guardare anche da questo punto di vista, diciamo da un materasso che non vede ma sente e da occhi che non sentono ma vedono. Eppure si riannoda la stessa storia: si legge, si ascolta, si annusa aria di guai ai reazionari del retrò, si sente dire basta all’inutile e anacronistica rincorsa a un passato sepolto. Tutte ciance, il presente non esiste e il futuro arriverà, esiste solo "l'Aiòn" dei greci e buonanotte al secchio. In ogni caso l’Union St. Gilloise, a cui andrebbe aggiunto il suffisso Royale, perché comunque la si pensi in tema di monarchia per me vale sempre il detto appuntato su un trafiletto letto chissà quando su le "Figarò" che diceva: "il Belgio è il cuore fermo dell’Europa che si muove". Resta a prescindere ritratto agrodolce di un club mutato ma nemmeno troppo, opera di un gruppo di amici riunitesi in un fumoso circolo cittadino nel 1897. Passiamo ai Numeri. Quell’Union del 1959 perse entrambe le partite con gli inglesi tuttavia chi se ne frega, quanta voglia di un calcio più sostenibile, meno frenetico, leggero, a misura di tifoso, mette questo club? Già perché comunque la si pensi a St. Gilloise, almanacco sul tavolo e boccale col luppolo di Hallertau alla mano, affermano, con indubbia ragione, di essere la terza squadra più importante del Belgio nonostante gli acciacchi dovuti a contingenze varie. Insomma, andate alla loro Club House, un palazzo in legno e laterizi, pieno zeppo di cimeli calcistici, roba che da sola vale il viaggio anche nei giorni senza partita. Oltre all'armamentario classico dell'Union pionieristico, si nota la celebre squadra di metà anni ’30, rimasta imbattuta per ben 60 partite di campionato guidata dal portiere della nazionale André Vandeweyer, poi spunta la targa a Jef Valise, l'eterno tifoso unionista che portava la borsa della divisa dello zio Jacques alle partite casalinghe, funziona ancora un vecchio juke box con incorporati gli inni della squadra e appeso sopra vigila il quadretto autografato da Jean-Pierre Janssens e Roger Van Cauwelaert due gemelli del goal mica da poco. E se è vero che i grandi club non muoiono mai, l'ultimo esempio toh, guarda caso, è proprio l'Union Saint Gilloise, risorta dalle sue ceneri per la gioia di noi donchisciotteschi (più schiocchi che don) difensori del calcio romantico, ammaliati dalla storia e dall'incomparabile atmosfera che sprigionano certi luoghi, e allora, per farci felici a noi pochi, "noi felici pochi", mutuando Enrico V, l’Union del giovane tecnico Karel Geraerts (un biondone di Genk con un discreto passato fra Standard Liegi e Bruges) tornata nella massima serie dopo 48 anni, e udite bene, lo ha fatto andando a vincere 3-1 in casa dell’Anderlecht. A quanto pare la strada di St. Gilloise sta diventando lunga persino in Europa, i quarti di finale di Europa League (parolaccia uscita da oltre vent'anni dal vocabolario UEFA) sono diventati realtà, tutti dietro alle lanterne di Gustav Nilsson, Teddy Teuma e Simon Adingra. Insomma, non aggiungo altro, bentornati "Unionistes" mettete un pochino di sale in questo brutto mondo insipido.



 

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