Ci sono rimasti piuttosto a male
a Belfast leggendo quel tweet della FIFA dove, dopo la vittoria in trasferta in
Lituania della nazionale nordirlandese, si augurava ai verdi lealisti un buon
cammino verso la loro prima volta a un mondiale. Trattasi ovviamente di errore nemmeno piccolo considerato che l’Irlanda del Nord, dal giorno della sua
affiliazione e distinzione datata 1953, di Mondiali né ha disputati già tre.
Può darsi che il compulsivo digitatore non abbia avuto troppa voglia di
almanaccare e abbia maldestramente scritto la suddetta castroneria. Billy Bingham, detto
“Bingy”, 90 anni, pare sia andato su tutte le furie nella sua casa di riposo in
cui vive da un paio d’anni, perché lui, i nordirlandesi a un mondiale ce li ha
accompagnati eccome, due volte consecutive dalla panchina, nel 1982 e nel 1986.
Ora, Billy, che vanta una effimera somiglianza con il personaggio cinematografico
di Bilbo del Signore degli Anelli, aveva metodi del tutto particolari per
preparare i suoi giocatori basandosi su parametri abbastanza singolari. Un giorno, venuto a sapere
che all’Università di Brighton c’era un maratoneta etiope impose alla squadra, momentaneamente in ritiro nel sud dell’Inghilterra, una gara di resistenza con
il corridore e alla fine l’unico a non farsi staccare senza sfigurare fu Gerry Armstrong,
seppure sfinito. Dopo però tutti insieme al bancone del pub a cantare quella canzonetta di Neil Diamond che stava prendendo piede fra i tifosi: "Sweet Caroline". Billy Bingham è nato a Belfast, dove
il vento tira forte, ostinato, spazza strade larghe, piega la testa della
gente, pochi sguardi, assenza apparente di calore umano. Belfast è una
città che ti afferra la gola all'improvviso, che ti stritola, con una presa
invisibile fatta di pelle biancastra, facce paonazze, sguardi torvi e odori
rancidi di fritto mattutino, salcicce, sanguinacci, uova e tè bollente lasciato
troppo in infusione. In centro e nei quartieri più miseri tutto racconta gesti,
desideri, sofferenze e ricordi fra imponenti edifici vittoriani e modeste casette
popolari in mattoni rossi. Billy a quindici anni è una sagoma snella, ombra magra impressa dalle enormi Gru del porto sui container color ruggine, ammassati e impilati sulla banchina, rifugio e feticcio di gabbiani rauchi; lavora lì
con il padre, ai cantieri navali Harland & Wolff, disegnando meticolosamente linee di gesso
su lastre di acciaio per indicare la parte da tagliare, successivamente farà l'apprendista elettricista. Una famiglia ai margini la sua, un nido povero, al punto che la madre
insistette per effettuare il trasloco di notte affinché i vicini non vedessero
il carro illuminato da una lanterna a olio da rigattiere e trainato da un cavallo intento a trasportare i
loro averi in quel Bloomfield, ai margini estremi della città. Tuttavia Billy Bingham ebbe il merito di comprendere che la vita oltre a lanciare pietre ai ragazzi cattolici dello Short Strand poteva ruotare attraverso il prisma del calcio. Il riflesso lo illumina mentre corre sul bucolico campetto gestito dal St
Donard's Football Club e dopo una breve parentesi attraversata da qualche infortunio di troppo
nell'ovale del Glentoran, sbarca in Inghilterra districandosi egregiamente
sulla fascia destra di Sunderland, Luton, Everton e Port Vale. Nelle vesti di
commissario tecnico è lo sciamano giunto nei tempi profetizzati, sfinge celtica carica di enigmi le cui soluzioni riescono a sollevare da terra i giocatori meno motivati, Bingham è un mantra di aforismi con il dono della veggenza capace di comprendere dopo una sola sessione di allenamento che quell'adolescente di Belfast dai tratti corruschi e dal palleggio virile di nome Norman
Whiteside era pronto per la Coppa del Mondo a 17 anni. "Tra poco distruggeranno questa vecchia città, un giorno torneremo qui quando il Bambino di Belfast canterà ancora.. sussurra nel vento Jim Kerr dei Simple Minds nell'iconica "Belfast Child". Tatticamente Bingham si mostrò astuto,
odorando le debolezze delle squadre avversarie e ovviamente la vittoria sulla
Spagna a Valencia resta l’impresa più celebre allorchè l'orgoglio vinse la matematica. Come uno Spitfire sui cieli scuri di Londra del 1940 Billy Hamilton, sfuggirà al mastino Gordillo e senza nemmeno alzare la
testa mise in mezzo un pallone velenoso smanacciato rovinosamente da Arconada. Gerry Armstrong se lo ritrovò davanti, quadrifoglio ai piedi, bruciando l'erba spagnola con il tiro dei tiri nella storia degli irlandesi del piano di sopra. Ma nonostante quel successo, per
molti addetti ai lavori venne difficile pensare che l’Irlanda del Nord potesse riagguantare
un’altra fase finale. E invece, il 12 novembre 1985 a Wembley, un pareggio avrebbe
sancito il secondo posto nel girone dietro i tre leoni e soprattutto davanti alla
Romania, battuta due volte. Bingham si presentò con i soliti capelli brizzolati arruffati,
le orecchie piccole, gli occhi vivacissimi e in bocca quella benedetta pipa “Ashton”
in radica di noce dalla quale non si separava mai. All’epoca i giardinieri di Wembley
curavano il prato alla pari di un giardino, la palla doveva scorrere tipo
sul panno da biliardo, e solo l’incipiente autunno londinese sgraziava le zone più sensibili
al calpestio del grande rettangolo da gioco zeppo sugli spalti di oltre settantamila
tifosi con folta presenza di bandiere dalla mano rossa. Bingham, se
non fosse stato per la tuta d’ordinanza, poteva tranquillamente sembrare o il
classico uomo d’affari britannico intento ad uscire dal suo palazzo vestito di
tutto punto, elegante e formale, e magari con l’ombrello nero in mano, oppure l’aristocratico
di provincia che attraversa la propietà con la muta di cani al seguito cinto da un panciotto colorato. Sul modo di fumare la pipa tenne quasi una conferenza colta
durante un incontro con la stampa. Disse
che la praticità nel calcio era come fumare la pipa, occorreva che fosse ben
bilanciata nel peso rispetto alla lunghezza con una buona resa della fumata in
termini di tabacco ossia il fumo doveva tornare indietro più “neutro” ai sensi, non congiunto agli aromi presenti nella radica. La
sua Irlanda faticò per tirar fuori le penne indenni da Wembley, le punte inglesi Kerry Dixon e Gary
Lineker vennero ipnotizzate dal carisma di Pat Jennings, il portiere dalla
faccia da rockstar che è sempre rimasto il ragazzo della porta accanto. Tuttavia il
pubblico gridò “It’s a fix” e “What a load of rubbish”, giacché, nel secondo tempo, volarono
fischi al pensiero che qualcuno avesse stilato una sordida intesa in maniera
tale che le entrambe le squadre si mettessero in testa il sombrero messicano alla fine della partita. Come detto invece i boys in green sudarono le proverbiali
sette camice e al centro della batteria difensiva Alan McDonald spazzò qualsiasi cosa scendesse sul bunker irlandese. E Bingham, gentiluomo pacato e orgoglioso delle sue radici, portò
nuovamente l’Irlanda del Nord al suo terzo Mondiale, il secondo di fila, vincendo
nel frattempo l’ultima edizione del vecchio, impareggiabile, British Home Championship.
Ecco, che alla FIFA stiano più attenti la prossima volta, perché a Windsor Park
non si scherza, e quando cala la sera dal mare si alza una brezza leggera a dire
che l'odio è come Dio, non è dato vederlo ma se credete in lui, se combattete
nel suo nome, egli riscalderà le vostre notti.
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