lunedì 13 settembre 2021

CON GLI OCCHI DI GILLIAN



"Mi chiamo Gillian Alcock e quel giorno di primavera del 1959 ero ancora troppo piccola per seguire i miei, in uno stadio così grande, con così tanta gente. Mio padre, Harold Wrigley Alcock, possedeva qualche enoteca in West Bridgfort, e poco dopo la fine della seconda guerra mondiale era diventato presidente del Nottingham Forest Football Club. C’era un cerchio rosso sulla data del calendario, un cerchio a stringere il 2 maggio come una siepe colorata in cui il Forest dopo circa sessant’anni, si sarebbe introdotto a rigiocarsi una nuova finale di Coppa d’Inghilterra. A Wembley, insieme a mio padre, andarono mia madre Margaret e mio fratello maggiore Antony. Presero posto nelle morbide sedute del palco reale, giusto sopra la regina Elisabetta e al vecchio scontroso generale Montgomery. In campo, ordinatamente schierati uno accanto all’altro, il nostro capitano Jack Burkitt presentò al Duca Filippo la nostra squadra. Certo, occorre un flashback, tutte queste cose me le hanno raccontate successivamente, non le vidi nemmeno in TV poiché in famiglia c’era ancora quel gocciolante fogliame di aristocrazia da quercia del Trent, e il televisore pareva uno sbilanciamento verso un orrido lupanare di borghesia e astruso modernismo, ma ogni orpello cedette in breve allo scalpicciare inesorabile dei tempi. Oh, restava la radio, una bellissima radio in bachelite e noce, perfettamente sintonizzata sulle frequenze serafiche della BBC, tuttavia mia nonna in concomitanza con il fischio d’inizio della partita, decise di portarmi a fare una passeggiata. E insomma su e giù per Stamford Road, una rigogliosa zona verde con tante villette in mattoni rossi e infissi bianchi, a qualche chilometro dal sonnolento City Ground. Il pensiero dell’evento era palpabile, e allora dopo un po’, mia nonna accelerò il passo, quasi pentita, rientrando tutta trafelata in casa, fiondandosi sulla radio la quale senza un minimo di stridulo annunciò con enfasi che il Nottingham Forest aveva appena vinto per 2-1 e pubblico e giocatori stavano festeggiando il successo. La nonna si mise a ballare, non lo faceva dalla fine della guerra. Quel giorno modificò per sempre i nostri album di fotografie, la nostra vita. Rivedo i miei tornare sulla Jaguar, mio padre con il borsalino e il sigaro in bocca, mia madre con una mano fuori dal finestrino, la manica larga del vestito a fiori svolazzante nell’aria tersa di primavera a salutare gruppetti di gente ai bordi delle strade intenti ad applaudire. Al lunedi mio padre volle accompagnarmi nella mia scuola di Broadgate con la FA Cup dentro al bagagliaio che però non si chiudeva bene, e quindi fummo costretti a guidare attraverso Nottingham con la coppa che spuntava dal retro e i nastri ancora legati ai bracci del trofeo accarezzati dal vento. Mio padre, Harold, arrivò a Nottingham dopo aver lavorato per la Dunlop nel Kent fondando una società di sua proprietà e da amante dello sport nel 1950 acquistò il Forest che in quel momento non se la passava benissimo gestito da un comitato di sette “saggi” dibattendosi senza strepiti nei chiaroscuri della terza divisione. Indubbiamente voleva cambiare le sorti del club, essere coinvolto, vincere qualcosa d’importante. Indisse una serie di incontri allo Spread Eagle Pub in Goldsmith Street, un localino fosco pieno di cianfrusaglie liberty e arnesi da caccia dove servivano pinte adagiate su un bancone di mescita in legno bistorto sul quale ondeggiava, sospinta dal gelido riscontro della porta d’ingresso, una lampada a petrolio, ornamento tramandato dal vagito d’apertura. Qui si strinsero collaborazioni per un avventura che sarebbe durata oltre 35 anni, segnata indelebilmente dagli impensabili trionfi degli anni settanta, in Inghilterra e in Europa, con quel matto in odore di santità di nome Brian Clough. Ma pochi, o forse nessuno, tendono ad annodare la vittoria in FA Cup del 1959 come propedeutica alle clamorose affermazioni di vent’anni dopo, giacché il destino si divertì a giocare uno scherzo mica da poco, una coincidenza che a distanza di tanto tempo fa persino sorridere, stupendo anche i più scettici. Signori, l’arbitro di quella finale si chiamava Clough. Si, avete capito bene Clough, (per la precisione Jack all’anagrafe) caso o meno che sia. Non cominciò con squilli di trombe il nostro cammino in coppa. Nel terzo turno, nel profondo suburbio londinese, in casa dei dilettanti del Tooting & Mitcham, il Forest rischiò una figuraccia epocale strappando un compassionevole pareggio per 2-2 dibattendosi nel piccolo rettangolo innevato di Sandy Lane sotto un cielo di piombo che minacciava maltempo perenne. C’erano tutti gli ingredienti classici: il campetto di Contea il terreno insidioso, i salumieri, i panettieri e gli operai della fabbrica di candele locale, tutti lì schierati in campo ad affrontare l’eleganza della Prima Divisione. Un eleganza più formale che sincera perché i contrasti alla luce dei fatti tendevano a sfumare addirittura economicamente. I calciatori del Tooting infatti non avevano (tutto sommato) una sostanziale differenza di stipendio rispetto ai loro importanti avversari. Anzi, se il club offriva loro un piccolo compenso, fatto passare come rimborso spese, ecco che gli allegri omuncoli del Tooting guadagnavano più o meno la stessa cifra rispetto a quelli del Nottingham. Sembra il giurassico rispetto a oggi, un autentica era persa in chissà quale angolo dello spazio delle dure randellate del tempo. Billy Walker, il nostro manager, con un discreto passato da giocatore dell’Aston Villa, aveva annunciato alla squadra che l’incontro non si sarebbe disputato viste le condizioni dell’impianto e il gruppo già stava allegramente pranzando al ristorante della stazione aspettando il treno che li avrebbe riportati a casa, quando improvvisamente furono raggiunti dalla notizia che, per diamine, la partita si sarebbe svolta, nonostante il gelo e ogni diavolo avverso. E quindi le cose rischiarono di andare a ramengo. Mi immagino la faccia accigliata di mio padre. Il Forest sotto due a zero. Un rinvio di Chick Thomson colpì in pieno un attaccante del Tooting, regalando il vantaggio ai bianconeri, poi, un rinvio di alleggerimento da oltre quaranta metri andò a sbattere incredibilmente sotto la parte inferiore della traversa finendo nel sacco. Il Forest, secondo i cronisti, si avviava a uscire mestamente dalla FA Cup, e ad entrare nelle pagine sportive dei giornali della domenica da indegno protagonista. A casa, mia madre, seduta in soggiorno, teneva la radio accesa a un volume bassissimo. “Mamma, perché non la spegni...". In realtà pensai volesse stare il più possibile lontano dalla fonte di sofferenza, senza però eliminarla completamente... Dovrei consultare gli almanacchi per riportare quanto successe, ma alla fine il Forest riuscì a rimontare nella seconda frazione con i centri di Graniger e Murphy, strappando un pari decisivo. Uno dei solchi ghiacciati del loro campo li tradì, deviando un passaggio indietro diretto tranquillamente fra le braccia del portiere destinandolo in rete; di seguito l’arbitro concesse un rigore per un fallo abbastanza veniale e la partita terminò, come detto, sul 2-2. C’è l’eravamo vista davvero brutta, brutta davvero. Il replay al City Ground il 24 gennaio cominciò prestissimo, in modo da consentire la disputa con la luce naturale, ma stavolta su un prato sul quale si sarebbe potuto benissimo giocare a biliardo, vincemmo facilmente per 3-0, con Billy Gray sugli scudi. Nel quarto turno ci fu meno sofferenza e la squadra evidentemente strigliata a dovere s’ impose in casa per 4-1 sul Grimsby Town. Nella partita successiva contro il Birmingham City l’asticella si alzò e a salvarci dalla capitolazione esterna ci pensò un tiro dal dischetto realizzato da Tommy Wilson a un minuto dal termine. Le due parti furono quindi costrette a ritrovarsi di nuovamente da noi e anche in quell'occasione, il risultato fu il copia e incolla del primo match. Solo nel terzo incontro, giocato al Filbert Street di Leicester, riuscimmo a sbarazzarci degli indomiti blu di Birmingham con un perentorio 5-0. Nel sesto turno il sorteggio ci regalò una gara casalinga con il Bolton terminata 2-1 per il Forest risolta dalla giornata di grazia di John Quigley. Lo stesso Quigley che nella semifinale sul neutro di Hillsborough, (in una giornata caotica, piena di problemi di traffico che ritardò l’arrivo degli spettatori), contro l’Aston Villa, risolse la contesa previa un assist di Wilson. Il giorno antecedente la finale la squadra si trasferì a Londra in un albergo della zona di Hendon e nel pomeriggio i ragazzi fecero due passi sul manto erboso dello stadio per saggiarne la consistenza e respirarne la grandezza. La mattina della partita mio padre, con la tipica aria trasognante che potevo avere io quando mi accompagnavano al circo o al parco giochi, si alzò dal letto senza nemmeno bisogno di rimettere la sua terribile sveglia di ferro. Si diresse alla finestra e scostate le improbabili tendine tartan gialle e marroni si affacciò fuori mentre sul viso gli si aprì un innocente sorriso. Il vacuo cielo del Nottinghamshire pareva sbiancare la corteccia scura dei ciliegi in fiore, e oltre la siepe che delimitava il giardino, era possibile ascoltare gli echi lontani di Sherwood. Scese al piano di sotto, dove mia madre gli aveva preparato la sua colazione preferita: uova, bacon, purea di patate e broccoli. Poi, tutti e tre salirono in auto diretti verso la capitale. In finale non trovammo ad affrontarci che so, il Chelsea di Jimmy Greaves, il Preston di Finney o il Blackpool di Stanley Matthews. Spuntarono a sorpresa quei cappellacci del Luton Town, al loro debutto a Wembley. “Mad as a hatter”. Non un semplice proverbio. C'è del vero. Se, come riportano le cronache, durante la lavorazione dei cappelli vigeva l'abitudine di utilizzare il mercurio. Sostanza che alla lunga aveva effetti rovinosi sulla salute mentale degli artigiani. Forse Lewis Carroll nel suo Alice in Wonderland ha probabilmente ironizzato sul detto popolare quando ha ideato la figura del cappellaio matto. Surreale ed enigmatico personaggio accusato di ammazzare il tempo, che risentito, si bloccò alle sei del pomeriggio in una folle e perenne ora del tea. Magari Carroll avrà pensato a Luton. Alla Luton del XVII secolo quando la cittadina era all'apice in Inghilterra nella produzione di cappelli. Ad ogni modo una finalissima di FA Cup, dove la BBC per la prima volta introdusse le didascalie del punteggio durante le riprese, e a dirla tutta ci sarà un “piccolo- grande” errore quando fu visualizzato il nome della nostra squadra diluita in un icastico Notts Forest. il commentatore, Kenneth Wolstenholme, chiese scusa affermando che la dicitura si doveva leggere ovviamente come Nottingham Forest. Noi in maglia rossa su pantaloncini bianchi, loro in maglia bianca su pantaloncini neri. Il Luton capitanato da Syd Owen poteva contare sul loro grande cannoniere Gordon Turner quell’anno autore di 14 reti. Tuttavia al decimo giro di lancette Roy Dwight ci portò in vantaggio con un tiro sul quale il portiere degli Hatters Ronald Baynham non poté onestamente opporsi. E non passarono nemmeno cinque minuti dagli esiti di un fraseggio intercorso fra Gray, Imlach e Tommy Wilson, lo champagne fu messo in ghiaccio. Avanti due reti all’intervallo seppure in dieci uomini visto l’infortunio occorso a Dwight, e all’epoca non erano consentite sostituzioni nelle partite ufficiali. Sotto la sapiente direzione d’orchestra del regista Jeff Whitefoot però, il Forest tenne duro. Il Luton fece qualcosa, qualcosina, un uncinetto da soprammobile, poco più, andando a segno con Dave Pacey, ma la coppa che la Regina consegnò a Jack Burkitt, brillò per le strade di Nottingham sul classico bus scoperto da parata, e la sera fece bella mostra di se sul davanzale di casa mia."
 

 

 

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