Gli altoparlanti del "Toumba", ovale di passone, elargiscono
un suono di bouzouki, e la voce è quasi un brontolio lamentoso, sibilata da
Giannakos Petros, in pieno stile Rebetiko, tutti cantano Ύμνος ΠΑΟΚ, l'inno del
Paok. Fuori si vendono sigarette di contrabbando, caffè preparati nel briki, e bandierine a fini strisce bianconere. Lo stadio, bolo indigesto di Souvlaki mangiati troppo in fretta,
sussulta, le telecamere vacillillano un istante, nel momento del boato, atteso
come si attende un segno celeste, e atteso nella mistica dell'iconostasi
significa ancora più sentitamente auspicato, evento dai contorni miracolosi, sostenuti
stavolta da una doppia fede, sacra e laica. Un paio di triangolazioni, fino a un
pensiero obliquo, tranciante, promettente felicità, che
imbarazza i centraloni avversari cogliendo il piede di Konstantinos
Frantzekos, detto Kostas, giusto davanti al portiere inglese, e lui lo infila
con colpo quieto, dispensato. Paok Salonicco Arsenal 1-0, settembre 1997 gara valevole per il primo
turno di Coppa Uefa, partita d’andata, ma al Toumba è già un capodanno pirotecnico
fatto di zucchero, zolfo e salnitro, ogni torcia s’accende nel delirio, anche i
poveri possono riscattarsi nel più evangelico dei messaggi. Angelos
Anastasiadis, tecnico dei bianconeri, ha il naso prominente, la fronte spaziosa
come il campo di Maratona, e gli occhiali da supplente di provincia. Nel dopo gara mantiene
una calma olimpica e ci tiene a frenare sulle possibilità di qualificazione: "non abbiamo fatto niente, a
Londra ci sarà da soffrire e tanto". Vero, anche il coro condivide, in fondo
una rete è poco, quella rete segnata dal giocatore con il maggior numero di
marcature realizzate su calcio di punizione e tutte battute con il piede
sinistro. Highbury è nido di serpi, Islington riversa odore di acciughe, e un
leggero vento salmastro da istmo. L’Arsenal graffia subito, Dennis Bergkamp semina calcio ed è
una sentenza di fronte al pur bravo Nikolaos Michopoulos detto Nikos. Ma poi i
gunners inumidiranno le ceneri del cannone e la Clock End, zeppa, satura, di
tifosi greci, molti dei quali emigrati in terra inglese in cerca di lavoro,
comincia a fermentare. Le spalle larghe sono quelle di Theodoros Zagorakis, esperto, carismatico, deciderà di piantare la bandiera nel cuore del centrocampo e ogni azione, ogni palla del Paok, passò dai
suoi piedi; Zagorakis il moretto di frontiera che aveva cominciato la carriera nel
piccolo Kavala, il club della sua città, agli estremi confini occidentali della
Grecia, in una striscia di terra che s’inoltra nei Balcani, passando accanto
alla Macedonia e alla Bulgaria, fino a scontrarsi con la Turchia. Già questo
potrebbe, poeticamente, dire molto di Zagorakis, che non è Anthony Quinn ma il Sirtaki lo balla meglio. L’Arsenal proverà a chiuderla,
cercando di evitare l’appendice complicata e stancante dei supplementari, Wenger chiese uno sforzo. Overmars e Parlour ci provano, ma a tre minuti dalla fine si apre un varco,
e Zisis Vryzas addormenterà l’intero pacchetto di retroguardia dei londinesi
depositando il pallone nella rete difesa dai fianchi sassoni di David Seaman. Festa, braciere di umanità raccolta, cori sull’unica nota di antichi salmi. Il Paok è un' altro di quei club impregnati
da qualcosa di molto più importante del banale codice sportivo da affiliazione. Una testa a oriente e una a occidente,
l’aquila bicefala figlia dell’antica araldica dell’impero bizantino simbolo
inequivocabile di un universo cristallizzato dalla storia che tuttavia ha
lasciato tracce indelebili e che resta tutt’oggi il simbolo della chiesa
ortodossa greca dopo essere stato soppiantato per secoli dalla mezzaluna
ottomana che ha irrimediabilmente creato
profondi contrasti nello spirito di una
regione eternamente sospesa tra impervi speroni rocciosi e acqua salata,
memoria di una diaspora che nella “greca“ Costantinopoli ha le sue radici.
Quella K alla fine di Paok (Πaok) sta proprio per Costantinopoli,
capitale spirituale del mondo ellenico, soprattutto negli anni Venti del
novecento, quando la squadra verrà fondata degli esuli greci arrivati dalla Turchia, dopo i trattati di pace con il governo di Ataturk. Insomma una
lunga, quasi insormontabile, concatenazione di lettere: Panthessalonikeios
Athlītikos Omilos Kōnstantinoupolitōn (Ποδοσφαιρική Ανώνυμη Εταιρεία
Πανθεσσαλονίκειος Αθλητικός Όμιλος Κωνσταντινουπολιτών, Club Atletico Pan-tessalonicese
dei Costantinopolitani), abbreviato, e potremmo aggiungere per nostra fortuna,
in PAOK Salonicco, ente ricreativo aperto sin dalle origini a qualunque cittadino. Fra piatti di Dolmades e Moussakà s'incrociano minareti e cipressi, sinagoghe e
monasteri, capitelli romani e chiese bizantine, e negli affollati bazar, tra le botteghe e i fondachi, i
facchini e i lustrascarpe, almeno un tempo, parlavano una mezza dozzina di
lingue, trafficando con mercanti egiziani e schiavi
ucraini, rabbini fuggiti dalla Spagna e pasha turchi, pellegrini ortodossi
diretti al vicino Monte Athos, briganti albanesi e dervisci sufi. E qui, che respira il Paok, campione di Grecia
per la prima volta nel 1976, con in panchina Gyula Lóránt, ungherese di Kőszeg,
uno di quelli dell’Aranycsapat, la squadra d’oro beffata a Berna nel ’54. Magari nè parlerò, anzi nè saremo parlati, il discorso non è mai dell'essere parlante.