Cosa c’entra una giovane pescivendola del villaggio di Howth con i Lemonheads?
Nulla, ma dobbiamo andare con ordine. Sedici anni di prigione. E non dentro una prigione
qualunque, nella prigione di Lancaster, piantata, edificata, sotto il cielo
grigio e burrascoso del nord ovest inglese, la città punta del triangolo
sorretto da Preston e Blackpool. Sedici anni di tormento, di ingiustizia, di
attese, di botte prese e nascoste fra le cuciture di una spolverina che diventava sempre di una taglia più larga fino a che le ossa e i muscoli raggrinziti
decisero di dire basta, decisero che forse era meglio farla finita ma siccome la
provvidenza per un cristiano alle volte non è semplice allegoria il 14
marzo del 1991 Hugh Callaghan venne scarcerato, piegò il mento appuntito come tutti gli
irlandesi che si rispettano e disse una preghiera, ancora una, per quei morti
di cui lui non aveva colpa, e ne disse un'altra, più ludica, ripiegando la scolorita bandierina irlandese appesa fuori dalle sbarre uscendo fra gli applausi commossi, qualche lacrima
e un plotone di fotografi e giornalisti ad aspettarlo. Si recò innanzitutto al memoriale che
elenca quei 21 nomi scritti sulla pietra. Una donna di mezza età, i capelli di cenere raccolti
raccolti dietro la nuca in un “chinon”, gli si avvicinò. Gli disse che
era stata una cosa orribile, non c'erano solo le vittime e i feriti, c'erano anche
le sei persone finite in galera per qualcosa che non avevano fatto.
Non le disse chi era, ma senz’altro gli fece piacere sentire quella parola:
innocenti. Hugh Callaghan era uno dei cosiddetti "Birmingham Six", i sei
irlandesi ingiustamente incarcerati per gli attentati occorsi in due pub della città delle West Midlands, il Mulberry Bush e il Tavern, il 21 novembre del 1974. Era un
giovedì sera ed entrambi i locali erano affollati. Poco dopo le otto c’era stato
un vago avvertimento alla redazione del “Birmingham
Post and Mail” ritenuto di poco conto,
poi le due deflagrazioni. L’IRA non rivendicò subito l’attentato, ma si comprese chiaramente fosse stata una vendetta per un
loro compagno, James McDade, ucciso in una cabina telefonica di Coventry mentre
probabilmente stava trafficando con un ordigno. Il ministro degli interni inglese, Kevin
Foster, annunciò in tono enfatico di voler consegnare immediatamente alla giustizia i colpevoli. Bastò
una falsa confessione e 6 immigrati irlandesi vennero arresati: William Power,
Richard McIlkenny, John Walker, Chris Mullin MP, Gerry Hunter, Patrick Hill e
lui, Hugh Callaghan. Hugh sposato e con una figlia piccola, fu arrestato per
ultimo, non gli interessava nemmeno la politica, probabilmente non sapeva
neanche cosa significasse essere repubblicano ma invece di tornare a casa il
pomeriggio degli attentati fu visto parlottare e bere nei pressi della stazione con il
gruppo dei nomi sopra citati e ciò per gli inquirenti fu sufficiente. Perché il
significato è un sasso in bocca al significante e la presenza di Callaghan nei
pressi dei binari di New Street fu la trottola impazzita dirimente in mano
agli investigatori. Escluso Hugh gli altri cinque sarebbero saliti sul treno diretto al
porto di Heysham per prendere un
traghetto e recarsi in Irlanda ai funerali di McDade, seppure nessuno di loro
fosse un membro attivo dell’IRA. Era solo un modo per testimoniare un appartenenza,
ma l’erba appassisce sotto al sole, la polizia vede tutto e non vede niente,
perché non guardano, ecco perché non vedono. Prima di salutarli bevono insieme un drink
nel bar della stazione, stornellano"Molly Malone" una ballata, no, di più, quasi un inno informale che appartiene alla cultura musicale popolare gaelica che
inneggia a una giovane pescivendola di Howth, a nord di
Dublino, morta in giovane età. Hugh Callaghan in carcere ci finirà. Inizialmente fu
accompagnato in una stazione di polizia e schiaffeggiato un po’, così, per
tentare di farlo confessare, poi gli agenti innervositi dal diniego tirarono
fuori una pistola, gli appicciarono la canna fredda alla tempia pur di riuscire
a farlo parlare: "Era scarica, ma io non potevo saperlo, ogni volta che dicevo
qualcosa che non gli piaceva, premevano il grilletto e l’arma scattava, ogni
volta pensavo di morire. Ero terrorizzato, alla fine sono stato costretto a
firmare dei fogli pensando che l'avvocato che mi avevano promesso avrebbe
risolto il caso". Invece Hugh finì detenuto in custodia cautelare, con gli altri cinque. Picchiato ogni giorno che Dio metteva in terra. Ogni volta che diceva
qualcosa non consono alle aspettative lo prendevano a calci da sotto il tavolo, una mattina gli spaccarono i denti. Fu mandato
in bagno per darsi una pulita, e il bagno era già pieno di sangue altrui. Usarono anche i
cani. La polizia lasciava volutamente aperta la porta della cella per far
entrare un cane poliziotto, un alsaziano, e abbaiava sbavando contro Hugh, indifeso, spalle al muro crepato di muffa. Capitava, in quelle poche ore che dormiva, di svegliarsi coperto di sudore. "Cazzo il
giorno dell'attentato era il compleanno di mia moglie, andai alla stazione
solo per vedere Richard McIlkenny per restituirli 10 sterline che mi aveva prestato un pomeriggio". Dopo la libertà definitiva Hugh si trasferì a Londra con la figlia e sua moglie Eileen. Un paio di
giorni seguenti la sistemazione gli arriverà una lettera raccomandata da parte della federazione di
calcio irlandese, dove lo si invitava a Wembley per la partita del 27 marzo, un match decisivo per le qualificazioni agli Europei di Svezia ’92, (per la cronaca l’ultima
volta che Inghilterra e Irlanda si sono incontrate in una partita ufficiale). E
la storia, è un po’ la storia dei cicli strani della vita, dei giri di pinta, una
storia che riprende con Hugh Callaghan, un uomo invecchiato, malconcio ma
felice, che salì sul bus della nazionale, assisterà alla vestizione negli
spogliatoi, si berrà un tè con Jack Charlton e riuscirà a stringere la mano a quei giocatori che
aveva ammirato in tv l’estate precedente. Hugh Callaghan era un tifoso di calcio, molto
orgoglioso di ciò che l’Irlanda aveva ottenuto in quel periodo, stravedeva per Paul
McGrath, il suo preferito, ma alla fine Paul era il preferito di tutti. Certo
Hugh amava anche il rugby ci mancherebbe. Fosse stato per lui l’Irlanda avrebbe dovuto vestirisi di
rosso perché il rosso è il colore dei capelli della sua gente, il rosso dei
capelli di una bambina che gioca e corre di fronte all’Oceano e scorge in
lontananza le Isole Aran, il rosso della
maglia della squadra del Munster che il 21 ottobre del 1978 sconfisse i
leggendari All Blacks della Nuova Zelanda nel fango di Limerick. Ma i
Lemonheads allora? Ecco questa vicenda si concluderà a partita conclusa, in
piena notte, con un giocatore in irlandese addormentato a un tavolo di un
autogrill in autostrada svegliato da un paio di ragazzi gallesi di passaggio
che lo avevano riconosciuto. Nel mezzo c’erano stati i 90000 di Wembley, una delle
partite più emotive e decisive dell'era di Jack Charlton, terminata con i
rimorsi. Un pareggio per 1-1, scaturito da un erroraccio di Stephen Staunton, che
con una deviazione mise fuori causa Bonner favorendo la rete di Lee Dixon, e da
un colpo da biliardo a poco meno di mezz'ora di Niall Quinn che sigillerà
il risultato ma non la qualificazione perché Ray Houghton, l’uomo di Stoccarda,
il figlio di Rita (una ragazza di Glasgow) e di Seamus (di Buncrana nel
Donegal) che aprendo il ventaglio delle regole, finì dritto a Lansdowne Road.
Ray Houghton il folletto che aveva scardinato dalla mente oltre 500 anni di
colonizzazione non riuscì a mettere alle spalle di David Seaman un pallone
arrivato da un passaggio filtrante di Tony Cascarino. La sfera, bianca come i
riflessi delle rocce di Skellig), sfilerà sul fondo, facendo la barba al palo, e un suono
d’arpa si perse nella torbiera aspra del Connemara, mentre a Dublino smorzarono
le luci del Murray’s. Ray si mise le mani tra i capelli, si beccherà il
rimprovero a quattr’occhi di Charlton. "È stato uno dei peggiori errori
della mia carriera, ricordo agli allenamenti di qualche giorno dopo a Melwood che Ronnie
Moran scuotendo la testa mi disse: “Come cavolo hai fatto a sbagliarlo? bastava
appoggiarla nell’angolo”. Ma Ray Houghton cercò di essere troppo preciso,
lezioso, perché Wembley aveva una mistica e voleva segnare nel modo più bello,
più raffinato. Al fischio di chiusura Houghton deciderà di tornare a Liverpool da solo, in
auto, ma, sfinito dai pensieri, dalla stanchezza, dalla mancata
rivincita per i 16 anni di prigionia di quell’ uomo così coraggioso, opterà di
fermarsi, e tutto sommato potrebbe essere stato un gran bene; parcheggiò sotto
un lampione giallognolo velato di fuliggine, uno di quelli classici da stazione
di servizio che assomigliano a un soldatino con il cappello a tesa larga, si ricordò
di ravvivarsi i capelli per non sembrare un fuggitivo, fece un paio di scalini e
si sedette su uno dei tavoli liberi, ordinò qualcosa che non consumerà, e si
addormentò, mentre alla televisione ormeggiata su un angoliera di metallo
ripassavano le immagini del match appena concluso, ma lui, quando arrivò il
momento del goal mancato, dormiva. Si, dormiva. “È un peccato per Ray”
cantavano i Lemonheads.
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