venerdì 28 gennaio 2022

ZAGO, IL GRECO


Gli altoparlanti del "Toumba", ovale di passone, elargiscono un suono di bouzouki, e la voce è quasi un brontolio lamentoso, sibilata da Giannakos Petros, in pieno stile Rebetiko, tutti cantano Ύμνος ΠΑΟΚ, l'inno del Paok. Fuori si vendono sigarette di contrabbando, caffè preparati nel briki, e bandierine a fini strisce bianconere. Lo stadio, bolo indigesto di Souvlaki mangiati troppo in fretta, sussulta, le telecamere vacillillano un istante, nel momento del boato, atteso come si attende un segno celeste, e atteso nella mistica dell'iconostasi significa ancora più sentitamente auspicato, evento dai contorni miracolosi, sostenuti stavolta da una doppia fede, sacra e laica. Un paio di triangolazioni, fino a un pensiero obliquo, tranciante, promettente felicità, che   imbarazza i centraloni avversari cogliendo il piede di Konstantinos Frantzekos, detto Kostas, giusto davanti al portiere inglese, e lui lo infila con colpo quieto, dispensato. Paok Salonicco Arsenal 1-0, settembre 1997 gara valevole per il primo turno di Coppa Uefa, partita d’andata, ma al Toumba è già un capodanno pirotecnico fatto di zucchero, zolfo e salnitro, ogni torcia s’accende nel delirio, anche i poveri possono riscattarsi nel più evangelico dei messaggi. Angelos Anastasiadis, tecnico dei bianconeri, ha il naso prominente, la fronte spaziosa come il campo di Maratona, e gli occhiali da supplente di provincia. Nel dopo gara mantiene una calma olimpica e ci tiene a frenare sulle possibilità di qualificazione: "non abbiamo fatto niente, a Londra ci sarà da soffrire e tanto". Vero, anche il coro condivide, in fondo una rete è poco, quella rete segnata dal giocatore con il maggior numero di marcature realizzate su calcio di punizione e tutte battute con il piede sinistro. Highbury è nido di serpi, Islington riversa odore di acciughe, e un leggero vento salmastro da istmo. L’Arsenal graffia subito, Dennis Bergkamp semina calcio ed è una sentenza di fronte al pur bravo Nikolaos Michopoulos detto Nikos. Ma poi i gunners inumidiranno le ceneri del cannone e la Clock End, zeppa, satura, di tifosi greci, molti dei quali emigrati in terra inglese in cerca di lavoro, comincia a fermentare. Le spalle larghe sono quelle di Theodoros Zagorakis, esperto, carismatico, deciderà di piantare la bandiera nel cuore del centrocampo e ogni azione, ogni palla del Paok, passò dai suoi piedi; Zagorakis il moretto di frontiera che aveva cominciato la carriera nel piccolo Kavala, il club della sua città, agli estremi confini occidentali della Grecia, in una striscia di terra che s’inoltra nei Balcani, passando accanto alla Macedonia e alla Bulgaria, fino a scontrarsi con la Turchia. Già questo potrebbe, poeticamente, dire molto di Zagorakis, che non è Anthony Quinn ma il Sirtaki lo balla meglio. L’Arsenal proverà a chiuderla, cercando di evitare l’appendice complicata e stancante dei supplementari, Wenger chiese uno sforzo. Overmars e Parlour ci provano, ma a tre minuti dalla fine si apre un varco, e Zisis Vryzas addormenterà l’intero pacchetto di retroguardia dei londinesi depositando il pallone nella rete difesa dai fianchi sassoni di David Seaman. Festa, braciere di umanità raccolta, cori sull’unica nota di antichi salmi. Il Paok è un' altro di quei club impregnati da qualcosa di molto più importante del banale codice sportivo da affiliazione.  Una testa a oriente e una a occidente, l’aquila bicefala figlia dell’antica araldica dell’impero bizantino simbolo inequivocabile di un universo cristallizzato dalla storia che tuttavia ha lasciato tracce indelebili e che resta tutt’oggi il simbolo della chiesa ortodossa greca dopo essere stato soppiantato per secoli dalla mezzaluna ottomana che ha irrimediabilmente creato profondi contrasti  nello spirito di una regione eternamente sospesa tra impervi speroni rocciosi e acqua salata, memoria di una diaspora che nella “greca“ Costantinopoli ha le sue radici. Quella K alla fine di Paok (Πaok) sta proprio per Costantinopoli, capitale spirituale del mondo ellenico, soprattutto negli anni Venti del novecento, quando la squadra verrà fondata degli esuli greci arrivati dalla Turchia,  dopo i trattati di pace con il governo di Ataturk. Insomma una lunga, quasi insormontabile, concatenazione di lettere: Panthessalonikeios Athlītikos Omilos Kōnstantinoupolitōn (Ποδοσφαιρική Ανώνυμη Εταιρεία Πανθεσσαλονίκειος Αθλητικός Όμιλος Κωνσταντινουπολιτών, Club Atletico Pan-tessalonicese dei Costantinopolitani), abbreviato, e potremmo aggiungere per nostra fortuna, in PAOK Salonicco, ente ricreativo aperto sin dalle origini a qualunque cittadino. Fra piatti di Dolmades e Moussakà s'incrociano minareti e cipressi, sinagoghe e monasteri, capitelli romani e chiese bizantine, e negli affollati bazar, tra le botteghe e i fondachi, i facchini e i lustrascarpe, almeno un tempo, parlavano una mezza dozzina di lingue, trafficando con mercanti egiziani e schiavi ucraini, rabbini fuggiti dalla Spagna e pasha turchi, pellegrini ortodossi diretti al vicino Monte Athos, briganti albanesi e dervisci sufi. E qui, che respira il Paok, campione di Grecia per la prima volta nel 1976, con in panchina Gyula Lóránt, ungherese di Kőszeg, uno di quelli dell’Aranycsapat, la squadra d’oro beffata a Berna nel ’54. Magari nè parlerò, anzi nè saremo parlati, il discorso non è mai dell'essere parlante.

 

 

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