lunedì 21 febbraio 2022

VIOLE E VECCHI GRANDUCHI


Ogni eccesso di zelo nell’esorcismo non può che potenziare il demone. Lo disse, ironizzando ma senza sorridere poi nemmeno troppo, il professor Giovanni Cipriani docente di Storia Moderna presso l'Università degli Studi di Firenze al termine di una sua conferenza su Ferdinando III, l’unico Granduca lorenese a riposare in Santa Maria Novella, quella basilica che al turista appena uscito dalla stazione gli si presenta mostrando il culo, un bel culo gotico d’arenaria per carità ma i più sensibili rischiano di restarne perfino offesi. Oh, sia chiaro, l’adagio non riguardava il buon regnante viceversa qualcosa di più ordinario e contemporaneo come una partita di calcio. Ci arriveremo. Dopo settimane di tempo uggioso erano arrivate finalmente le cristalline giornate di maggio, limpide, senza vento, il sole accentuava il colore paglierino di Palazzo Fenzi e tutta Via San Gallo pareva una lunga teoria di chiaroscuri. Il Professor Cipriani, stava rigorosamente in piedi di fronte alla cattedra, l’abito nuovo di sartoria in raso grigio, il fare composto, disciplinato da un educazione sincera e non formale, secco e dritto come un fuso, il mento alto, gli occhi svelti mentre parlava di barba, e garantisco che non ho mai ascoltato lezioni più belle delle sue, per il carisma, per la sicurezza della voce, per il voler scandire bene le parole, governando un accento fiorentino finissimo, tuttavia senza reprimerlo, articolando un eloquio da fine ottocento, carducciano, come se invece che in quel 2 di maggio del 1990 fossimo cent’anni addietro, nelle fumose sale di un caffè letterario, tipo il "Paszkowski" o le "Giubbe Rosse", entrambi in Piazza della Repubblica, oppure il Caffè Michelangelo in via Cavour, dove Diego Martelli fondò i “Macchiaoli”, e dove, ancora oggi, sono appesi quadri, fotografie, copertine di riviste, ritagli di giornale e altri cimeli, esibiti alla stregua di un museo. Quindi il demone? Il demone naturalmente era “lei”, la Juventus, perché quello non era mica unicamente un assolato giorno di primavera ma anche il giorno della finale d’andata della Coppa UEFA e la Fiorentina quella sera, verso l’imbrunire, avrebbe giocato al Comunale di Torino. Diceva Italo Calvino che le città, come i sogni, sono fatte di desideri e paure. Ecco, non poteva esserci frase migliore per descrivere Firenze in quel momento. “Dove vedrà la partita Professore?” - Giovanni Cipriani si guardò intorno, si prese qualche secondo accademico, poi, dilatando ogni parola, rispose strascicando le vocali- “Sapete perché Giovanni delle Bande Nere perse la battaglia di Governolo? … Silenzio, ilare, un indugio d’aspettativa. – “Ebbene ve lo dico io, perché fece sapere dove teneva le artiglierie.” Scrutai subito Francesco, un tipo mogio, arruffato, di San Donato, gli occhialini da intellettuale tormentato, juventino impenitente. “Tanto stasera vù perdete”. Di concerto gli rispose qualcuno da un angolo, in modo drastico, da ennesima disfida, anzi da ennesima parodia di guelfi e ghibellini: “Siee, almeno domani tu ne buschi…”. Sentì appoggiarmi una mano sulla spalla. “E te?” – “Io? ho il treno fra venti minuti ma se ti va prendo quello dopo e si mangia insieme.” Difficile sfuggire alla compagnia di Luca, un ragazzo fiorentino tozzo, dal capello biondastro con tanto di ciuffo ribelle e qualche brufolo di troppo, che conosceva a menadito la sua città, sveglio a sufficienza per imbambolare le studentesse americane che andavano a ballare allo Yab o allo Space Eletronic, un personaggio da biliardo del “Gambrinus”, che sparigliava la sua alienazione dal conformismo con un giubbino marrone sbiadito sul genere di Robert de Niro in Taxi Driver, - “Ma dici a me? Ma dici a me?” allegandoci un pinzetto sgraziato senza pretese di vero zolfo, al limite un paio di tocchetti di fumo incartati nella stagnola. Estimatore convinto della cucina povera, fatta alla vecchia maniera, e dell’unicità del lampredotto, per stuzzicare l’appetito mi impartì una sonora lezione: “Ignora il banchetto di Sant’Ambrogio, ti sciorinano il menù, trippa, lampredotto all’inzimino, lampredotto classico e crostini di milza, e poi ti versano del vinaccio da quei bottiglioni che dopo ti senti male”. E io onestamente ci cascavo spesso. Proseguì: “Guarda, meglio il banchetto del Porcellino che sarà pure caro ma almeno il panino ha un equilibrio di consistenza e cedevolezza, di brodo pane e ciccia, che la soddisfazione è quella di un pasto completo, ignora Nerbone al mercato centrale nonostante sia l’unico posto in qualche modo genuino là dentro”. Nerbone, nota di cronaca, era un personaggio grifagno che tirava su il brodo con il lampredotto o il bollito con un forchettone dopodiché con dei coltelli sottili lo affettava, solo che tra battute di amici e scenette ai turisti ci facevi tardi. “Ignora il trippaio di Statuto che era una benedizione specie in estate quando metteva fuori una zuppiera di nervetti, e infine ignora Mario a Porta Romana che mentre mangi ti guarda con aria di sfida per capire se ti è piaciuto o meno, e ignora tutti quelli che di per sé non dicono molto ma quando ci passi davanti non sai trattenerti a quell’odore di stomaci stracotti, tipo a Ponte di Mezzo o in Via Gioberti. I Re del Lampredotto a Firenze sono due, il Tanucci in Via Pisana, vicino alla casa (fasulla) di Dante, perché prendere il panino da un buco del muro come nelle mescite medievali ha ancora un suo perché, e l’altro è il “Bandito” in piazza Pier Vettori, l’unico che tagliuzza le gale e te le ributta nella mollica, vivificante.” Maledetta Fiorentina- Juventus, perché inevitabilmente, consumato il pasto, il discorso scivolò freddo come l’acqua a Ponte Vecchio in quei farraginosi pomeriggi d’inverno, dove i lungarni sono deserti e basterebbe mettere su quella canzone di Ivan Graziani per un sottofondo perfetto. La squadra viola cadde in difficoltà oggettive e Bruno Giorgi (che nelle aspettative avrebbe dovuto far dimenticare Sven Goran Eriksson ma il compito risultò complesso per questo signore asciutto ed educatissimo arrivato da Cosenza) venne esonerato e i Pontello passarono il gruppo a “Ciccio” Graziani. In campionato ci salvammo dalla retrocessione per il rotto della cuffia, grazie essenzialmente alle invenzioni di un Baggio dato per partente per quanto ancora non si sapesse molto sull’eventuale destinazione. Ironia della sorte in Coppa UEFA, giocata tutta a Perugia per via della ristrutturazione dello stadio in ottica mondiale, la Viola, di riffa e di raffa, aveva guadagnato la finale, mettendo nel sacco Atletico Madrid, Sochaux, Dinamo Kiev, Auxerre e Werder Brema. Sergio Battistini capitano, Mario Faccenda “la leggenda”, il “cucciolo” Dunga, la “foca” Nappi, quello scoglionato di Luboš Kubík, “Renatino” Buso, Volpecina, Pin, Di Chiara e ridai, rieccolo: Roberto Baggio. “Te lo ricordi quando arrivò a Firenze?" Portava con sé bagagli e sogni, chissà quanto resterà, dicevamo fra noi. Non aveva vent’anni, un bel collo, sembrava di ceramica, i lineamenti sottili, e in testa un cespuglio di ricci da Bacco gaudente. Cercava lo stadio, il centro, scorse uno di quei cartelli che lo indicano, credette di seguirlo ma in realtà percorse in tondo i viali, incontrandone altri, nessuno lo portò più in centro di quanto già non fosse, provò a orientarsi con la torre di Palazzo Vecchio che si insinua tra i tetti, ora con le porte prive della cinta d’Arnolfo, ora in mezzo a uno slargo, ma qui si assomiglia tutto, le persiane, le terrazze, i fregi, il colore degli intonaci, la pietra serena, e non riuscì a raccapezzarsi, né a cogliere il pertugio giusto, come se la cerchia muraria esistesse ancora e lo respingesse. Salì su a Piazzale Michelangelo e realizzò di essere in quel posto famoso da cui si vede Firenze dall’alto, fece qualche passo verso il muretto sotto al quale si apre il panorama con la cupola del Duomo, il marmo splendente del Campanile e le basiliche sparse dentro un mare occiduo di tegole, e la città stranamente non gli apparve ferma, bensì impegnata in una lunghissima azione al rallentatore come se faticosamente stesse scorrendo via. Oppure come se la stessa fosse già altrove, e lì, sotto di sé, quel ragazzo, non vedesse più Firenze ma soltanto il suo riflesso. “Sai che stasera ai tifosi che sono saliti a Torino non gli è stata assegnata la curva ma solo uno spicchio fra la Maratona e la tribuna scoperta, me lo ha detto uno del Collettivo Autonomo”“Ah” -ribatto io- “Insomma volerà di tutto, come sempre…” - “Sicuro, e te, la vedi a casa, non resti da tuo zio?” –No, torno, la vedrò al circolo del paese, almeno così scoppia la rissa e il dibattito è probabile si prolunghi fino a ora indeterminata, almeno qui a Firenze questi duelli rusticani di provincia fra viola e bianconeri non li avete.” La finale, certo, quella sporca finale aggiungerei. Alberto di Chiara, terzino col profilo da moschettiere di Dumas, ci scriverà un libro intitolato proprio così: “Quella sporca finale” (PSE editore). Lo scrisse insieme al giornalista Paolo Camilli. E racconta le emozioni forti di una stagione incredibile ruzzolata dal 1989 al 1990, in cui la Fiorentina ingaggiò la sua battaglia impossibile. Un campionato modestissimo corso in parallelo a una Coppa Uefa febbricitante e visionaria. Nel libro riporta: "Quando sono arrivato a Firenze non comprendevo perché la gente odiasse così tanto la Juventus, quando sono andato via avevo capito tutto". In mezzo un mare di tensioni, il racconto di Kiev basterebbe da solo a spiegare tutto. Un miracolo nel gelo. La Dinamo Kiev voleva dire Colonnello Lobanovskij, il quale ai giornalisti italiani che gli chiesero quante possibilità aveva la Fiorentina di passare il turno, rispose secco: “sotto zero”. E il campo effettivamente era una lastra di ghiaccio. A Perugia, avevamo giocato una buonissima partita, risolta da un rigore segnato da Baggio nel secondo tempo concretizzando una supremazia apparsa evidente. Ma al ritorno sapevamo fosse complicato, e forse, anzi sicuramente, fu a Kiev che la squadra comprese che c’era la possibilità di arrivare in fondo. Quella partita la vidi proprio con Luca. Abitava in Via Gino Capponi, una via secondaria, una sorta di lastricato di solitudine, fatta per nascondersi, da lì, mi spiegò, Maria Maddalena dei Medici, sorella deforme del Granduca, raggiungeva in segreto la Santissima Annunziata. Ci sono stati anni che Via Capponi era invece il centro di Firenze, per via di quei portoni enormi adatti alle riunioni della Carboneria alla quale l’allora senatore Capponi lasciava utili consigli, talmente utili che quella via poi gliela hanno dedicata. La partita? uno 0-0 strappato con guanti e piccozza potremmo dire, e viola meritatamente ai quarti. Ci sarebbe da menzionare la maldestra epica di Sochaux dove dopo appena quattro minuti, Faccenda partì in diagonale puntando un giocatore avversario, abbattendolo, e lasciando la Fiorentina in dieci uomini. Il buon Mario, praticamente un incrocio tra Gesù Cristo e un gringo del Far West, si lanciò sull'uomo alla Chuck Norris. Un gesto folle, cinematografico, inspiegabile. Eppure la Fiorentina passerà lo stesso il turno: Dunga sventagliò per Baggio, solito pregevole controllo col destro e cross radente per l'accorrente Buso che di sinistro infilò implacabilmente il portiere francese Rousset. Il goal avvenne giusto sotto ai 5000 tifosi viola che si riversarono sulle reti di recinzione in preda alla felicità. Nella semifinale di ritorno col Werder Brema (1-1 in trasferta e 0-0 risicato al Curi), purtroppo ci fu quel gesto (pare di un tizio nemmeno tifoso della Fiorentina...) che ci costò la squalifica. Così ci mandarono a giocare la seconda finale praticamente ancora in casa loro, ad Avellino. La società incomprensibilmente non muoverà un dito. Rimanemmo senza parole. Ho conosciuto Giacomo Callegari. All’epoca era un aitante diciottenne aggregato alla prima squadra. Mi disse che negli spogliatoi, appena prima di entrare sul campo, Graziani urlò più volte di stare attenti agli inserimenti di Galia. Detto fatto, inserimento di Galia e 1-0 per loro. Al circolo, il feudo juventino saltò in aria. Noi zitti, cos’altro dovevamo fare, beccammo una rete da polli. Ma al pareggio di Buso l’inerzia si ribalterà, la Juventus apparve fragile, impaurita, e Baggio, solo davanti a Tacconi, non riuscì a chiuderla, perché quell’attimo di eterno che gira il mondo da un luogo d’infinito decise di farlo sbagliare, di aumentare rabbia e sgomento. Un goal avrebbe chiuso la sfida con tanti saluti. Invece, maremma impestata, nel secondo tempo successe di tutto, una rete da annullare a Casiraghi, supponente nelle dichiarazioni del dopo partita: “noi siamo la Juventus”, De Agostini uccella Landucci, nel mezzo un rigore apparso evidente e ovviamente non concesso alla Fiorentina, e tutti capirono quel “Madonna che silenzio c’è stasera” mutuando un film di Francesco Nuti, perso fra i telai del pratese a cercare di riconquistare la sua ex fidanzata. Insomma oh, non ci sarebbe stato niente da fare neanche nel ritorno. Baggio nervoso, a testa bassa, la squadra ormai ai titoli di coda della stagione: 0-0. Porte sbatacchiate, armadietti presi a pugni. Ferdinando III non ci sarebbe rimasto bene, lui che "tanto amava Toscana, da Versilia a Maremma, da Casentino a Mugello", poco avrà gradito micce accese in onor di Piemonte. Ah, l’arbitro della partita di Torino era uno spagnolo. Sapete come faceva di cognome? Aladren. Controllare per credere.

mercoledì 9 febbraio 2022

THE JANNER SONG


"The Janner Song" è una canzone bellissima, dovreste perdere due munuti di tempo per ascoltarla. Negli anni sono state scritte molte canzoni su Plymouth, dalle dolci melodie di "The Swilly Song", a "Setting Sail", da "Southway Drive", capolavoro lirico dei "The Janthem", ma francamente "Janner" dei "Saggy Bottom Boys" si stende come un vestito su misura per questa città. Oh, un aneddoto e un giuramento. Si potrebbe incominciare così il racconto sul Plymouth Argyle. Solo che l’aneddoto in rapporto al giuramento ribalta completamente la logica temporale aprendo tra loro un varco distante un oceano e cinque secoli di storia. Ma se dobbiamo partire facciamolo con l’aneddoto. A Birmingham il 14 aprile 1984 è una giornata gradevole. E siccome Birmingham sarà pure la seconda città più grande dell’Inghilterra ma vi sbagliate di grosso se pensate che sia affascinante come Liverpool o Manchester, e quindi in tutta onestà una giornata tiepida e ariosa di squarci di sole non fa affatto scomodo al suo ruvido skyline. Al Villa Park, nel quartiere di Aston, periferia nord, si gioca una delle due semifinali di FA Cup. Ai tornelli d’ingresso si presenta zoppicando Micheal Foot, settanta primavere, naso storto, classico flat cap, rosetta verde appuntata al montgomery e l’inseparabile bastone, perché lui la guerra l’aveva fatta e una scheggia di ferro arrivata dritta sulla gamba sinistra in seguito all’esplosione di una granata gli aveva complicato l’andatura. C’è un problema. Lui può entrare ma il bastone no. Lo steward è irremovibile: “Non m’interessa chi è lei signore, non può portare il suo bastone sulle gradinate”. Fortunatamente l’arrivo di un altro inserviente risolve la penosa situazione. “Prego, venga con me, vedo se posso farla entrare in una zona diversa”. D’altro canto sarebbe stata una vera e propria disdetta non poter assistere alla partita più importante della storia dei Pilgrims, quella che avrebbe deciso chi, fra Plymouth e Watford, sarebbe andato a Wembley a giocarsi la finale della coppa d’Inghilterra. Già Plymouth, amena città portuale del Devon, terra di marinai, pirati e ricercatori, era letteralmente impazzita da almeno un mese. La sua squadra di terza divisione allenata dal prestante John Hore aveva raggiunto un traguardo impensabile. “In nome di Dio” -ecco il giuramento: “Noi qui sottoscritti, leali sudditi del nostro riverito Sovrano Giacomo, per grazia divina Re di Gran Bretagna e Irlanda, avendo intrapreso un viaggio per fondare la prima colonia della Virginia del Nord, stringiamo un patto solenne di costituire una civile società che miri al miglior ordinamento e la migliore conservazione della nostra comunità, e per il perseguimento di fini che siano giusti ed eguali per tutti.” La frase verrà scandita ai quattro venti la mattina dell’11 novembre 1620. Nella baia di Cape Cod, aveva appena gettato l’ancora un piccolo galeone a tre alberi battente bandiera inglese e dal nome beneagurante: Mayflower. Fiore di maggio. La nave era partita circa due mesi prima proprio dal porto di Plymouth guidata dal capitano Christopher Jones. Con lui ci sono John Alden, l’organizzatore del viaggio, e William Bradford, colui che diventerà futuro governatore della nuova Colonia. A bordo un totale di 102 passeggeri in larga maggioranza “Padri pellegrini”, ovvero, più concretamente, riformisti puritani separatisti dalla chiesa anglicana, un gruppo formatisi a Nottingham nel 1606 e subito accusati di tradimento. Ed è per questa vicenda che il nomignolo di “Pilgrims” sarà associato ai giocatori del Plymouth Argyle. Ma occhio che la macchina del tempo è nuovamente ripartita perché al Villa Park si è incominciato a giocare. Sugli spalti i tifosi arrivati da Plymouth che avevano intasato e colorato di biancoverde l’autostrada per Birmingham, sono quasi ventimila e cantano “Mariner Give Us A Wave” in onore del mai dimenticato Paul e più causticamente “We hate Exeter”. Negli occhi ancora quel flash ossia la fotografia scattata il 14 marzo durante il replay del sesto turno a Derby quando i "Pilgrims" espugnarono il Baseball Ground 1-0 conquistando l’inaspettata semifinale. La notte fredda del Derbyshire, i riflettori accesi velati dalla foschia, il campo pesante, la porta difesa con piglio da Geoff Crudigngton. Il Plymouth non ci stava a fare la vittima designata. Nella prima gara disputata in casa aveva dimostrato che poteva giocare alla pari con il Derby County. In fondo nel turno precedente erano stati capaci di battere un’altra grande, ed in trasferta, avevano sconfitto al The Hawthorns il WBA per gentile concessione di Tommy Tynan. E allora, verso la fine del primo tempo il lampo. Un goal rocambolesco, arrivato direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Una parabola infinita, poi un colpo da biliardo di Andy Rogers con palla in buca d’angolo esattamente sotto lo spicchio occupato dalla gente arrivata dal Devon. Una rete che deciderà l’incontro e inserirà la pallina con il numero del Plymouth Argyle nella sacca color porpora della FA per decidere l’abbinamento delle quattro semifinaliste. Erano passati esattamente 98 anni dalla fondazione del club. Una scommessa fra due amici e la solita irresistibile nuova moda di fine ottocento di giocare a calcio. Bedford Street e il suo “Borough Arms”, il luogo declinato all’embrione. Loro sono Howard Grose e William Pethybridge, ex alunni di una scuola pubblica che decidono di regalare a Plymouth il suo sodalizio pedatorio. Il 16 ottobre 1886 entrambi scenderanno in campo nella prima partita che la squadra disputò contro una compagine della vicina Cornovaglia, il Caxton, (e che Caxton verrebbe da dire) che per la cronaca s’imporrà per due reti a zero. Le speculazioni che circondano l’origine del nome Argyle non sono del tutto chiare ma in fondo è giusto così: questa nell’apendice ovest del paese resta terra poco incline al patriottismo, terra di confine, un limbo, dove si mischiano tradizioni britanniche, bretoni, e leggende celtiche, una separazione complessa, molto più netta di quella che materialmente rappresenta una riga sulla cartina o un cartello stradale. Una delle spiegazioni plausibili pare mutuare l’appellativo Argyle da un reggimento militare chiamato Sutherland Highlander’s che all’epoca gestiva una propria importante squadra di calcio. Un’altra ipotesi è invece dettata dal fatto che nei pressi del “Borough Arms” si trovasse un’osteria denominata “Argyle Tavern” dove i soci fondatori erano soliti rifocillarsi. Ci sarebbe anche un’ultima teoria che riconduce alla Regina Vittoria e ai suoi interessi scozzesi nella storica città di Inverary, sede del Duca di Argyll. In ogni caso, la squadra assunse il suo nome definitivo nel 1903 quando si affacciò per la prima volta al professionismo sotto la direzione di un certo Bob Jack. Insomma, pur essendo un piccolo club di storie da raccontare ce ne sarebbero parecchie. Un viaggio per esempio. Una tournée estiva che nel 1924 portò i Pilgrims al di là dell’oceano, come quella volta del 1620. Ma in questo caso la nave fece rotta verso l’America del Sud, stavolta senza essere accompagnati nel lungo tragitto dai sermoni infuocati della Bibbia riformata, bensì solamente dalle divise da gioco e da qualche pallone per fare due scambi d’allenamento sul ponte della nave, stando attenti a non far cadere la sfera fra i marosi dell’Atlantico. Il Plymouth vinse la prima partita 4-0 contro l’Uruguay a Montevideo, l’Uruguay che sei anni dopo si sarebbe laureato campione del mondo. Poi i ragazzi del Devon faranno un’altra impresa andando a battere l’Argentina 1-0, e, sempre a Buenos Aires, il 9 luglio 1924 pareggiano una partita incredibile con il Boca Juniors. A catturare l’attenzione di tutti sarà lo stile di un certo Mosé Russell, il capitano dell’Argyle, uomo dalla spiccata personalità. Succede che nel momento in cui i padroni di casa andranno in vantaggio, il pubblico invase il campo portando in trionfo intorno al rettangolo di gioco i propri calciatori. Quando dopo una buona mezz’ora si ristabilì una parvenza di calma, l’arbitro assegnò un rigore ai verdi di Plymouth. A questo punto visto il contorno non idilliaco, Patsy Corcoran, l’incaricato di battere il penalty, sembrò si fosse preventivamente accordato con i suoi per sbagliare appositamente il tiro e non rischiare eventi sgraditi. Tuttavia Russell non si dimostrò disposto a perdere in maniera così vigliacca. E Russell diventò allora l’angolo morto. Chi guida un mezzo sa cos’è. Si tratta di quella piccola porzione di vista sottratta allo sguardo indagatore dello specchietto laterale. Un paio di secondi, o poco meno, durante i quali un oggetto qualsiasi in movimento al nostro fianco non viene assolutamente percepito: in quegli attimi l’oggetto non esiste. Eppure c’è, e sta camminando con noi. L’oggetto in quel caso era Russell. Si mosse deciso precedendo Corcoran un attimo prima che quest’ultimo calciasse il pallone. Russell segnò fra la sorpresa e soprattutto il timore di tutta la delegazione sportiva inglese. Apriti cielo. Nuova invasione, fortunatamente nessun giocatore aggredito, solo tanta paura e naturalmente partita sospesa. I momenti memorabili non sono finiti. Marzo 1973. A Home Park, casa del Plymouth Argyle dal 1901, è di scena nientemeno che il gigante brasiliano del Santos. Tra le loro fila sbuca Pelé. Ad ammirarlo arrivano (dati ufficiali) in 37.639, pronti, per la verità, a gustarsi il successo dei "Pilgrims", maturato grazie alle reti di Mike Dowling, Derek Richard e Jimmy Hinch. Quel 1973 non sarà ricordato solo per la vittoria sul Santos; nella squadra allenata da Tony Waiters esordisce il già citato Paul Mariner, attaccante con la faccia da cantante pop che in area di rigore se la suona e se la canta. Se ne andrà nel 1976 a fare le fortune dell’Ipswich Town di Bobby Robson, lasciando a Home Park uno spartito con 56 note musicali: il numero dei suoi gol. Tutti realizzati con la maglia dal semplice monogramma PAFC che aveva sostituito l’emblema della Mayflower, reintrodotto soltanto successivamente. È tempo di tornare a quel giorno d’aprile del 1984. A Villa Park, il Plymouth Argyle entrò in campo con la tradizionale maglia verde sui pantaloncini neri, una tonalità piuttosto insolita in Inghilterra, eppure questo club dalle venature insulari, lo ha fieramente e fortemente voluto, lasciandosi solo prendere la mano negli anni sessanta quando si ritrovarono a indossare un kit di tendenza innovativa con il bianco preminente. I "Pilgrims", snocciolarono la loro preghiera: Crudingngton, Nisbet, Uzzell, Harrison, Smith, Cooper, Rogers, Phillips, Hodges, Tynan, Stainforth. Di fronte, l’undici in giallo di Peter Taylor e dell’eccentrico proprietario Elton John. Il Watford della grande cavalcata dalla quarta divisione ai vertici della massima serie, e che in quel momento toccava l’apice della una celebrità. Diciamolo subito: il Plymouth avrebbe meritato di più. Invece fu colpito a freddo dopo appena un quarto d’ora dal colpo di testa dello scozzese George Reilly che sulla pennellata dal fondo di John Barnes segnò il goal più importante della sua carriera, sotto la gremitissima Holte End. Mancò un pochina di fortuna, mancò soprattutto quella rete che sembrava fatta ma Kevin Hodges “riuscì” a sbagliare a pochi passi dalla porta mancando l’impatto con il pallone davanti alla faccia smarrita di Steve Sherwood. Ciccò il pallone, in gergo. A Plymouth, pare si rattristò anche la statua di Francis Drake, il prediletto della Regina Elisabetta, che sprezzante giocava a bocce sulla sabbia mentre all’orizzonte incominciavano a disegnarsi le sagome minacciose dell’invincibile armata spagnola. Magari lui avrebbe segnato e rimesso in parità l’incontro e poi sarebbe corso in panchina da John Hore a bere un sorso di rum. O magari no. Perché forse l’epopea dei "Pilgrims" doveva chiudersi così.

 

                            

       Plymouth A.- Derby County 1984, (Home Park, Fourth Round)

 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...