lunedì 21 febbraio 2022

VIOLE E VECCHI GRANDUCHI


Ogni eccesso di zelo nell’esorcismo non può che potenziare il demone. Lo disse, ironizzando ma senza sorridere poi nemmeno troppo, il professor Giovanni Cipriani docente di Storia Moderna presso l'Università degli Studi di Firenze al termine di una sua conferenza su Ferdinando III, l’unico Granduca lorenese a riposare in Santa Maria Novella, quella basilica che al turista appena uscito dalla stazione gli si presenta mostrando il culo, un bel culo gotico d’arenaria per carità ma i più sensibili rischiano di restarne perfino offesi. Oh, sia chiaro, l’adagio non riguardava il buon regnante viceversa qualcosa di più ordinario e contemporaneo come una partita di calcio. Ci arriveremo. Dopo settimane di tempo uggioso erano arrivate finalmente le cristalline giornate di maggio, limpide, senza vento, il sole accentuava il colore paglierino di Palazzo Fenzi e tutta Via San Gallo pareva una lunga teoria di chiaroscuri. Il Professor Cipriani, stava rigorosamente in piedi di fronte alla cattedra, l’abito nuovo di sartoria in raso grigio, il fare composto, disciplinato da un educazione sincera e non formale, secco e dritto come un fuso, il mento alto, gli occhi svelti mentre parlava di barba, e garantisco che non ho mai ascoltato lezioni più belle delle sue, per il carisma, per la sicurezza della voce, per il voler scandire bene le parole, governando un accento fiorentino finissimo, tuttavia senza reprimerlo, articolando un eloquio da fine ottocento, carducciano, come se invece che in quel 2 di maggio del 1990 fossimo cent’anni addietro, nelle fumose sale di un caffè letterario, tipo il "Paszkowski" o le "Giubbe Rosse", entrambi in Piazza della Repubblica, oppure il Caffè Michelangelo in via Cavour, dove Diego Martelli fondò i “Macchiaoli”, e dove, ancora oggi, sono appesi quadri, fotografie, copertine di riviste, ritagli di giornale e altri cimeli, esibiti alla stregua di un museo. Quindi il demone? Il demone naturalmente era “lei”, la Juventus, perché quello non era mica unicamente un assolato giorno di primavera ma anche il giorno della finale d’andata della Coppa UEFA e la Fiorentina quella sera, verso l’imbrunire, avrebbe giocato al Comunale di Torino. Diceva Italo Calvino che le città, come i sogni, sono fatte di desideri e paure. Ecco, non poteva esserci frase migliore per descrivere Firenze in quel momento. “Dove vedrà la partita Professore?” - Giovanni Cipriani si guardò intorno, si prese qualche secondo accademico, poi, dilatando ogni parola, rispose strascicando le vocali- “Sapete perché Giovanni delle Bande Nere perse la battaglia di Governolo? … Silenzio, ilare, un indugio d’aspettativa. – “Ebbene ve lo dico io, perché fece sapere dove teneva le artiglierie.” Scrutai subito Francesco, un tipo mogio, arruffato, di San Donato, gli occhialini da intellettuale tormentato, juventino impenitente. “Tanto stasera vù perdete”. Di concerto gli rispose qualcuno da un angolo, in modo drastico, da ennesima disfida, anzi da ennesima parodia di guelfi e ghibellini: “Siee, almeno domani tu ne buschi…”. Sentì appoggiarmi una mano sulla spalla. “E te?” – “Io? ho il treno fra venti minuti ma se ti va prendo quello dopo e si mangia insieme.” Difficile sfuggire alla compagnia di Luca, un ragazzo fiorentino tozzo, dal capello biondastro con tanto di ciuffo ribelle e qualche brufolo di troppo, che conosceva a menadito la sua città, sveglio a sufficienza per imbambolare le studentesse americane che andavano a ballare allo Yab o allo Space Eletronic, un personaggio da biliardo del “Gambrinus”, che sparigliava la sua alienazione dal conformismo con un giubbino marrone sbiadito sul genere di Robert de Niro in Taxi Driver, - “Ma dici a me? Ma dici a me?” allegandoci un pinzetto sgraziato senza pretese di vero zolfo, al limite un paio di tocchetti di fumo incartati nella stagnola. Estimatore convinto della cucina povera, fatta alla vecchia maniera, e dell’unicità del lampredotto, per stuzzicare l’appetito mi impartì una sonora lezione: “Ignora il banchetto di Sant’Ambrogio, ti sciorinano il menù, trippa, lampredotto all’inzimino, lampredotto classico e crostini di milza, e poi ti versano del vinaccio da quei bottiglioni che dopo ti senti male”. E io onestamente ci cascavo spesso. Proseguì: “Guarda, meglio il banchetto del Porcellino che sarà pure caro ma almeno il panino ha un equilibrio di consistenza e cedevolezza, di brodo pane e ciccia, che la soddisfazione è quella di un pasto completo, ignora Nerbone al mercato centrale nonostante sia l’unico posto in qualche modo genuino là dentro”. Nerbone, nota di cronaca, era un personaggio grifagno che tirava su il brodo con il lampredotto o il bollito con un forchettone dopodiché con dei coltelli sottili lo affettava, solo che tra battute di amici e scenette ai turisti ci facevi tardi. “Ignora il trippaio di Statuto che era una benedizione specie in estate quando metteva fuori una zuppiera di nervetti, e infine ignora Mario a Porta Romana che mentre mangi ti guarda con aria di sfida per capire se ti è piaciuto o meno, e ignora tutti quelli che di per sé non dicono molto ma quando ci passi davanti non sai trattenerti a quell’odore di stomaci stracotti, tipo a Ponte di Mezzo o in Via Gioberti. I Re del Lampredotto a Firenze sono due, il Tanucci in Via Pisana, vicino alla casa (fasulla) di Dante, perché prendere il panino da un buco del muro come nelle mescite medievali ha ancora un suo perché, e l’altro è il “Bandito” in piazza Pier Vettori, l’unico che tagliuzza le gale e te le ributta nella mollica, vivificante.” Maledetta Fiorentina- Juventus, perché inevitabilmente, consumato il pasto, il discorso scivolò freddo come l’acqua a Ponte Vecchio in quei farraginosi pomeriggi d’inverno, dove i lungarni sono deserti e basterebbe mettere su quella canzone di Ivan Graziani per un sottofondo perfetto. La squadra viola cadde in difficoltà oggettive e Bruno Giorgi (che nelle aspettative avrebbe dovuto far dimenticare Sven Goran Eriksson ma il compito risultò complesso per questo signore asciutto ed educatissimo arrivato da Cosenza) venne esonerato e i Pontello passarono il gruppo a “Ciccio” Graziani. In campionato ci salvammo dalla retrocessione per il rotto della cuffia, grazie essenzialmente alle invenzioni di un Baggio dato per partente per quanto ancora non si sapesse molto sull’eventuale destinazione. Ironia della sorte in Coppa UEFA, giocata tutta a Perugia per via della ristrutturazione dello stadio in ottica mondiale, la Viola, di riffa e di raffa, aveva guadagnato la finale, mettendo nel sacco Atletico Madrid, Sochaux, Dinamo Kiev, Auxerre e Werder Brema. Sergio Battistini capitano, Mario Faccenda “la leggenda”, il “cucciolo” Dunga, la “foca” Nappi, quello scoglionato di Luboš Kubík, “Renatino” Buso, Volpecina, Pin, Di Chiara e ridai, rieccolo: Roberto Baggio. “Te lo ricordi quando arrivò a Firenze?" Portava con sé bagagli e sogni, chissà quanto resterà, dicevamo fra noi. Non aveva vent’anni, un bel collo, sembrava di ceramica, i lineamenti sottili, e in testa un cespuglio di ricci da Bacco gaudente. Cercava lo stadio, il centro, scorse uno di quei cartelli che lo indicano, credette di seguirlo ma in realtà percorse in tondo i viali, incontrandone altri, nessuno lo portò più in centro di quanto già non fosse, provò a orientarsi con la torre di Palazzo Vecchio che si insinua tra i tetti, ora con le porte prive della cinta d’Arnolfo, ora in mezzo a uno slargo, ma qui si assomiglia tutto, le persiane, le terrazze, i fregi, il colore degli intonaci, la pietra serena, e non riuscì a raccapezzarsi, né a cogliere il pertugio giusto, come se la cerchia muraria esistesse ancora e lo respingesse. Salì su a Piazzale Michelangelo e realizzò di essere in quel posto famoso da cui si vede Firenze dall’alto, fece qualche passo verso il muretto sotto al quale si apre il panorama con la cupola del Duomo, il marmo splendente del Campanile e le basiliche sparse dentro un mare occiduo di tegole, e la città stranamente non gli apparve ferma, bensì impegnata in una lunghissima azione al rallentatore come se faticosamente stesse scorrendo via. Oppure come se la stessa fosse già altrove, e lì, sotto di sé, quel ragazzo, non vedesse più Firenze ma soltanto il suo riflesso. “Sai che stasera ai tifosi che sono saliti a Torino non gli è stata assegnata la curva ma solo uno spicchio fra la Maratona e la tribuna scoperta, me lo ha detto uno del Collettivo Autonomo”“Ah” -ribatto io- “Insomma volerà di tutto, come sempre…” - “Sicuro, e te, la vedi a casa, non resti da tuo zio?” –No, torno, la vedrò al circolo del paese, almeno così scoppia la rissa e il dibattito è probabile si prolunghi fino a ora indeterminata, almeno qui a Firenze questi duelli rusticani di provincia fra viola e bianconeri non li avete.” La finale, certo, quella sporca finale aggiungerei. Alberto di Chiara, terzino col profilo da moschettiere di Dumas, ci scriverà un libro intitolato proprio così: “Quella sporca finale” (PSE editore). Lo scrisse insieme al giornalista Paolo Camilli. E racconta le emozioni forti di una stagione incredibile ruzzolata dal 1989 al 1990, in cui la Fiorentina ingaggiò la sua battaglia impossibile. Un campionato modestissimo corso in parallelo a una Coppa Uefa febbricitante e visionaria. Nel libro riporta: "Quando sono arrivato a Firenze non comprendevo perché la gente odiasse così tanto la Juventus, quando sono andato via avevo capito tutto". In mezzo un mare di tensioni, il racconto di Kiev basterebbe da solo a spiegare tutto. Un miracolo nel gelo. La Dinamo Kiev voleva dire Colonnello Lobanovskij, il quale ai giornalisti italiani che gli chiesero quante possibilità aveva la Fiorentina di passare il turno, rispose secco: “sotto zero”. E il campo effettivamente era una lastra di ghiaccio. A Perugia, avevamo giocato una buonissima partita, risolta da un rigore segnato da Baggio nel secondo tempo concretizzando una supremazia apparsa evidente. Ma al ritorno sapevamo fosse complicato, e forse, anzi sicuramente, fu a Kiev che la squadra comprese che c’era la possibilità di arrivare in fondo. Quella partita la vidi proprio con Luca. Abitava in Via Gino Capponi, una via secondaria, una sorta di lastricato di solitudine, fatta per nascondersi, da lì, mi spiegò, Maria Maddalena dei Medici, sorella deforme del Granduca, raggiungeva in segreto la Santissima Annunziata. Ci sono stati anni che Via Capponi era invece il centro di Firenze, per via di quei portoni enormi adatti alle riunioni della Carboneria alla quale l’allora senatore Capponi lasciava utili consigli, talmente utili che quella via poi gliela hanno dedicata. La partita? uno 0-0 strappato con guanti e piccozza potremmo dire, e viola meritatamente ai quarti. Ci sarebbe da menzionare la maldestra epica di Sochaux dove dopo appena quattro minuti, Faccenda partì in diagonale puntando un giocatore avversario, abbattendolo, e lasciando la Fiorentina in dieci uomini. Il buon Mario, praticamente un incrocio tra Gesù Cristo e un gringo del Far West, si lanciò sull'uomo alla Chuck Norris. Un gesto folle, cinematografico, inspiegabile. Eppure la Fiorentina passerà lo stesso il turno: Dunga sventagliò per Baggio, solito pregevole controllo col destro e cross radente per l'accorrente Buso che di sinistro infilò implacabilmente il portiere francese Rousset. Il goal avvenne giusto sotto ai 5000 tifosi viola che si riversarono sulle reti di recinzione in preda alla felicità. Nella semifinale di ritorno col Werder Brema (1-1 in trasferta e 0-0 risicato al Curi), purtroppo ci fu quel gesto (pare di un tizio nemmeno tifoso della Fiorentina...) che ci costò la squalifica. Così ci mandarono a giocare la seconda finale praticamente ancora in casa loro, ad Avellino. La società incomprensibilmente non muoverà un dito. Rimanemmo senza parole. Ho conosciuto Giacomo Callegari. All’epoca era un aitante diciottenne aggregato alla prima squadra. Mi disse che negli spogliatoi, appena prima di entrare sul campo, Graziani urlò più volte di stare attenti agli inserimenti di Galia. Detto fatto, inserimento di Galia e 1-0 per loro. Al circolo, il feudo juventino saltò in aria. Noi zitti, cos’altro dovevamo fare, beccammo una rete da polli. Ma al pareggio di Buso l’inerzia si ribalterà, la Juventus apparve fragile, impaurita, e Baggio, solo davanti a Tacconi, non riuscì a chiuderla, perché quell’attimo di eterno che gira il mondo da un luogo d’infinito decise di farlo sbagliare, di aumentare rabbia e sgomento. Un goal avrebbe chiuso la sfida con tanti saluti. Invece, maremma impestata, nel secondo tempo successe di tutto, una rete da annullare a Casiraghi, supponente nelle dichiarazioni del dopo partita: “noi siamo la Juventus”, De Agostini uccella Landucci, nel mezzo un rigore apparso evidente e ovviamente non concesso alla Fiorentina, e tutti capirono quel “Madonna che silenzio c’è stasera” mutuando un film di Francesco Nuti, perso fra i telai del pratese a cercare di riconquistare la sua ex fidanzata. Insomma oh, non ci sarebbe stato niente da fare neanche nel ritorno. Baggio nervoso, a testa bassa, la squadra ormai ai titoli di coda della stagione: 0-0. Porte sbatacchiate, armadietti presi a pugni. Ferdinando III non ci sarebbe rimasto bene, lui che "tanto amava Toscana, da Versilia a Maremma, da Casentino a Mugello", poco avrà gradito micce accese in onor di Piemonte. Ah, l’arbitro della partita di Torino era uno spagnolo. Sapete come faceva di cognome? Aladren. Controllare per credere.

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