Ogni
eccesso di zelo nell’esorcismo non può che potenziare il demone. Lo
disse, ironizzando ma senza sorridere poi nemmeno troppo, il professor
Giovanni Cipriani docente di Storia Moderna presso l'Università degli
Studi di Firenze al termine di una sua conferenza su Ferdinando III,
l’unico Granduca lorenese a riposare in Santa Maria Novella, quella
basilica che al turista appena uscito dalla stazione gli si presenta
mostrando il culo, un bel culo gotico d’arenaria per carità ma i più
sensibili rischiano di restarne perfino offesi. Oh, sia chiaro, l’adagio
non riguardava il buon regnante viceversa qualcosa di più ordinario e
contemporaneo come una partita di calcio. Ci arriveremo. Dopo settimane
di tempo uggioso erano arrivate finalmente le cristalline giornate di
maggio, limpide, senza vento, il sole accentuava il colore paglierino di
Palazzo Fenzi e tutta Via San Gallo pareva una lunga teoria di
chiaroscuri. Il Professor Cipriani, stava rigorosamente in piedi di
fronte alla cattedra, l’abito nuovo di sartoria in raso grigio, il fare
composto, disciplinato da un educazione sincera e non formale, secco e
dritto come un fuso, il mento alto, gli occhi svelti mentre parlava di
barba, e garantisco che non ho mai ascoltato lezioni più belle delle
sue, per il carisma, per la sicurezza della voce, per il voler scandire
bene le parole, governando un accento fiorentino finissimo, tuttavia senza
reprimerlo, articolando un eloquio da fine ottocento, carducciano, come
se invece che in quel 2 di maggio del 1990 fossimo cent’anni addietro,
nelle fumose sale di un caffè letterario, tipo il "Paszkowski" o le "Giubbe
Rosse", entrambi in Piazza della Repubblica, oppure il Caffè Michelangelo
in via Cavour, dove Diego Martelli fondò i “Macchiaoli”, e dove, ancora
oggi, sono appesi quadri, fotografie, copertine di riviste, ritagli di
giornale e altri cimeli, esibiti alla stregua di un museo. Quindi il
demone? Il demone naturalmente era “lei”, la Juventus, perché quello non
era mica unicamente un assolato giorno di primavera ma anche il giorno
della finale d’andata della Coppa UEFA e la Fiorentina quella sera,
verso l’imbrunire, avrebbe giocato al Comunale di Torino. Diceva Italo
Calvino che le città, come i sogni, sono fatte di desideri e paure.
Ecco, non poteva esserci frase migliore per descrivere Firenze in quel
momento. “Dove vedrà la partita Professore?” - Giovanni Cipriani si
guardò intorno, si prese qualche secondo accademico, poi, dilatando ogni
parola, rispose strascicando le vocali- “Sapete perché Giovanni delle
Bande Nere perse la battaglia di Governolo? … Silenzio, ilare, un
indugio d’aspettativa. – “Ebbene ve lo dico io, perché fece sapere dove
teneva le artiglierie.” Scrutai subito Francesco, un tipo mogio,
arruffato, di San Donato, gli occhialini da intellettuale tormentato,
juventino impenitente. “Tanto stasera vù perdete”. Di concerto gli
rispose qualcuno da un angolo, in modo drastico, da ennesima disfida,
anzi da ennesima parodia di guelfi e ghibellini: “Siee, almeno domani tu
ne buschi…”. Sentì appoggiarmi una mano sulla spalla. “E te?” – “Io?
ho il treno fra venti minuti ma se ti va prendo quello dopo e si mangia
insieme.” Difficile sfuggire alla compagnia di Luca, un ragazzo
fiorentino tozzo, dal capello biondastro con tanto di ciuffo ribelle e
qualche brufolo di troppo, che conosceva a menadito la sua città,
sveglio a sufficienza per imbambolare le studentesse americane che
andavano a ballare allo Yab o allo Space Eletronic, un personaggio da
biliardo del “Gambrinus”, che sparigliava la sua alienazione dal
conformismo con un giubbino marrone sbiadito sul genere di Robert de
Niro in Taxi Driver, - “Ma dici a me? Ma dici a me?” allegandoci un
pinzetto sgraziato senza pretese di vero zolfo, al limite un paio di
tocchetti di fumo incartati nella stagnola. Estimatore convinto della
cucina povera, fatta alla vecchia maniera, e dell’unicità del
lampredotto, per stuzzicare l’appetito mi impartì una sonora lezione:
“Ignora il banchetto di Sant’Ambrogio, ti sciorinano il menù, trippa,
lampredotto all’inzimino, lampredotto classico e crostini di milza, e
poi ti versano del vinaccio da quei bottiglioni che dopo ti senti male”.
E io onestamente ci cascavo spesso. Proseguì: “Guarda, meglio il banchetto del
Porcellino che sarà pure caro ma almeno il panino ha un equilibrio di
consistenza e cedevolezza, di brodo pane e ciccia, che la soddisfazione è
quella di un pasto completo, ignora Nerbone al mercato centrale
nonostante sia l’unico posto in qualche modo genuino là dentro”.
Nerbone, nota di cronaca, era un personaggio grifagno che tirava su il
brodo con il lampredotto o il bollito con un forchettone dopodiché con
dei coltelli sottili lo affettava, solo che tra battute di amici e
scenette ai turisti ci facevi tardi. “Ignora il trippaio di Statuto che
era una benedizione specie in estate quando metteva fuori una zuppiera
di nervetti, e infine ignora Mario a Porta Romana che mentre mangi ti
guarda con aria di sfida per capire se ti è piaciuto o meno, e ignora
tutti quelli che di per sé non dicono molto ma quando ci passi davanti
non sai trattenerti a quell’odore di stomaci stracotti, tipo a Ponte di
Mezzo o in Via Gioberti. I Re del Lampredotto a Firenze sono due, il
Tanucci in Via Pisana, vicino alla casa (fasulla) di Dante, perché
prendere il panino da un buco del muro come nelle mescite medievali ha
ancora un suo perché, e l’altro è il “Bandito” in piazza Pier Vettori,
l’unico che tagliuzza le gale e te le ributta nella mollica,
vivificante.” Maledetta Fiorentina- Juventus, perché inevitabilmente,
consumato il pasto, il discorso scivolò freddo come l’acqua a Ponte
Vecchio in quei farraginosi pomeriggi d’inverno, dove i lungarni sono
deserti e basterebbe mettere su quella canzone di Ivan Graziani per un
sottofondo perfetto. La squadra viola cadde in difficoltà oggettive e
Bruno Giorgi (che nelle aspettative avrebbe dovuto far dimenticare Sven
Goran Eriksson ma il compito risultò complesso per questo signore
asciutto ed educatissimo arrivato da Cosenza) venne esonerato e i
Pontello passarono il gruppo a “Ciccio” Graziani. In campionato ci
salvammo dalla retrocessione per il rotto della cuffia, grazie
essenzialmente alle invenzioni di un Baggio dato per partente per quanto
ancora non si sapesse molto sull’eventuale destinazione. Ironia della
sorte in Coppa UEFA, giocata tutta a Perugia per via della
ristrutturazione dello stadio in ottica mondiale, la Viola, di riffa e
di raffa, aveva guadagnato la finale, mettendo nel sacco Atletico
Madrid, Sochaux, Dinamo Kiev, Auxerre e Werder Brema. Sergio Battistini
capitano, Mario Faccenda “la leggenda”, il “cucciolo” Dunga, la “foca”
Nappi, quello scoglionato di Luboš Kubík, “Renatino” Buso, Volpecina,
Pin, Di Chiara e ridai, rieccolo: Roberto Baggio. “Te lo ricordi quando
arrivò a Firenze?" Portava con sé bagagli e sogni, chissà quanto
resterà, dicevamo fra noi. Non aveva vent’anni, un bel collo, sembrava
di ceramica, i lineamenti sottili, e in testa un cespuglio di ricci da
Bacco gaudente. Cercava lo stadio, il centro, scorse uno di quei
cartelli che lo indicano, credette di seguirlo ma in realtà percorse in
tondo i viali, incontrandone altri, nessuno lo portò più in centro di
quanto già non fosse, provò a orientarsi con la torre di Palazzo Vecchio
che si insinua tra i tetti, ora con le porte prive della cinta
d’Arnolfo, ora in mezzo a uno slargo, ma qui si assomiglia tutto, le
persiane, le terrazze, i fregi, il colore degli intonaci, la pietra
serena, e non riuscì a raccapezzarsi, né a cogliere il pertugio giusto,
come se la cerchia muraria esistesse ancora e lo respingesse. Salì su a
Piazzale Michelangelo e realizzò di essere in quel posto famoso da cui
si vede Firenze dall’alto, fece qualche passo verso il muretto sotto al
quale si apre il panorama con la cupola del Duomo, il marmo splendente
del Campanile e le basiliche sparse dentro un mare occiduo di tegole, e
la città stranamente non gli apparve ferma, bensì impegnata in una
lunghissima azione al rallentatore come se faticosamente stesse
scorrendo via. Oppure come se la stessa fosse già altrove, e lì, sotto
di sé, quel ragazzo, non vedesse più Firenze ma soltanto il suo
riflesso. “Sai che stasera ai tifosi che sono saliti a Torino non gli è
stata assegnata la curva ma solo uno spicchio fra la Maratona e la
tribuna scoperta, me lo ha detto uno del Collettivo Autonomo” – “Ah”
-ribatto io- “Insomma volerà di tutto, come sempre…” - “Sicuro, e te,
la vedi a casa, non resti da tuo zio?” –No, torno, la vedrò al circolo
del paese, almeno così scoppia la rissa e il dibattito è probabile si
prolunghi fino a ora indeterminata, almeno qui a Firenze questi duelli
rusticani di provincia fra viola e bianconeri non li avete.” La finale,
certo, quella sporca finale aggiungerei. Alberto di Chiara, terzino col
profilo da moschettiere di Dumas, ci scriverà un libro intitolato
proprio così: “Quella sporca finale” (PSE editore). Lo scrisse insieme
al giornalista Paolo Camilli. E racconta le emozioni forti di una
stagione incredibile ruzzolata dal 1989 al 1990, in cui la Fiorentina
ingaggiò la sua battaglia impossibile. Un campionato modestissimo corso
in parallelo a una Coppa Uefa febbricitante e visionaria. Nel libro
riporta: "Quando sono arrivato a Firenze non comprendevo perché la gente
odiasse così tanto la Juventus, quando sono andato via avevo capito
tutto". In mezzo un mare di tensioni, il racconto di Kiev basterebbe da
solo a spiegare tutto. Un miracolo nel gelo. La Dinamo Kiev voleva dire
Colonnello Lobanovskij, il quale ai giornalisti italiani che gli
chiesero quante possibilità aveva la Fiorentina di passare il turno,
rispose secco: “sotto zero”. E il campo effettivamente era una lastra di
ghiaccio. A Perugia, avevamo giocato una buonissima partita, risolta da
un rigore segnato da Baggio nel secondo tempo concretizzando una
supremazia apparsa evidente. Ma al ritorno sapevamo fosse complicato, e
forse, anzi sicuramente, fu a Kiev che la squadra comprese che c’era la
possibilità di arrivare in fondo. Quella partita la vidi proprio con
Luca. Abitava in Via Gino Capponi, una via secondaria, una sorta di
lastricato di solitudine, fatta per nascondersi, da lì, mi spiegò, Maria
Maddalena dei Medici, sorella deforme del Granduca, raggiungeva in
segreto la Santissima Annunziata. Ci sono stati anni che Via Capponi era
invece il centro di Firenze, per via di quei portoni enormi adatti alle
riunioni della Carboneria alla quale l’allora senatore Capponi lasciava
utili consigli, talmente utili che quella via poi gliela hanno
dedicata. La partita? uno 0-0 strappato con guanti e piccozza potremmo
dire, e viola meritatamente ai quarti. Ci sarebbe da menzionare la
maldestra epica di Sochaux dove dopo appena quattro minuti, Faccenda
partì in diagonale puntando un giocatore avversario, abbattendolo, e
lasciando la Fiorentina in dieci uomini. Il buon Mario, praticamente un
incrocio tra Gesù Cristo e un gringo del Far West, si lanciò sull'uomo
alla Chuck Norris. Un gesto folle, cinematografico, inspiegabile. Eppure
la Fiorentina passerà lo stesso il turno: Dunga sventagliò per Baggio,
solito pregevole controllo col destro e cross radente per l'accorrente
Buso che di sinistro infilò implacabilmente il portiere francese
Rousset. Il goal avvenne giusto sotto ai 5000 tifosi viola che si
riversarono sulle reti di recinzione in preda alla felicità. Nella
semifinale di ritorno col Werder Brema (1-1 in trasferta e 0-0 risicato
al Curi), purtroppo ci fu quel gesto (pare di un tizio nemmeno tifoso
della Fiorentina...) che ci costò la squalifica. Così ci mandarono a
giocare la seconda finale praticamente ancora in casa loro, ad Avellino.
La società incomprensibilmente non muoverà un dito. Rimanemmo senza
parole. Ho conosciuto Giacomo Callegari. All’epoca era un aitante
diciottenne aggregato alla prima squadra. Mi disse che negli spogliatoi,
appena prima di entrare sul campo, Graziani urlò più volte di stare
attenti agli inserimenti di Galia. Detto fatto, inserimento di Galia e
1-0 per loro. Al circolo, il feudo juventino saltò in aria. Noi zitti,
cos’altro dovevamo fare, beccammo una rete da polli. Ma al pareggio di
Buso l’inerzia si ribalterà, la Juventus apparve fragile, impaurita, e
Baggio, solo davanti a Tacconi, non riuscì a chiuderla, perché
quell’attimo di eterno che gira il mondo da un luogo d’infinito decise
di farlo sbagliare, di aumentare rabbia e sgomento. Un goal avrebbe
chiuso la sfida con tanti saluti. Invece, maremma impestata, nel secondo
tempo successe di tutto, una rete da annullare a Casiraghi, supponente
nelle dichiarazioni del dopo partita: “noi siamo la Juventus”, De
Agostini uccella Landucci, nel mezzo un rigore apparso evidente e
ovviamente non concesso alla Fiorentina, e tutti capirono quel “Madonna
che silenzio c’è stasera” mutuando un film di Francesco Nuti, perso fra i
telai del pratese a cercare di riconquistare la sua ex fidanzata.
Insomma oh, non ci sarebbe stato niente da fare neanche nel ritorno.
Baggio nervoso, a testa bassa, la squadra ormai ai titoli di coda della
stagione: 0-0. Porte sbatacchiate, armadietti presi a pugni. Ferdinando
III non ci sarebbe rimasto bene, lui che "tanto amava Toscana, da
Versilia a Maremma, da Casentino a Mugello", poco avrà gradito micce
accese in onor di Piemonte. Ah, l’arbitro della partita di Torino era
uno spagnolo. Sapete come faceva di cognome? Aladren. Controllare per
credere.
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