"The Janner Song" è una canzone bellissima, dovreste perdere due munuti di tempo per ascoltarla. Negli anni sono state scritte molte canzoni su Plymouth, dalle dolci melodie di "The Swilly Song", a "Setting Sail", da "Southway Drive", capolavoro lirico dei "The Janthem", ma francamente "Janner" dei "Saggy Bottom Boys" si stende come un vestito su misura per questa città. Oh, un aneddoto e un giuramento. Si
potrebbe incominciare così il racconto sul Plymouth Argyle. Solo che l’aneddoto
in rapporto al giuramento ribalta completamente la logica temporale aprendo tra
loro un varco distante un oceano e cinque secoli di storia. Ma se dobbiamo
partire facciamolo con l’aneddoto. A Birmingham il 14 aprile 1984 è una giornata gradevole. E siccome Birmingham sarà pure la seconda città più grande dell’Inghilterra
ma vi sbagliate di grosso se pensate che sia affascinante come Liverpool o Manchester, e quindi in
tutta onestà una giornata tiepida e ariosa di squarci di sole non fa affatto
scomodo al suo ruvido skyline. Al Villa Park, nel quartiere di Aston,
periferia nord, si gioca una delle due semifinali di FA Cup. Ai tornelli
d’ingresso si presenta zoppicando Micheal Foot, settanta primavere, naso
storto, classico flat cap, rosetta verde appuntata al montgomery e
l’inseparabile bastone, perché lui la guerra l’aveva fatta e una scheggia di
ferro arrivata dritta sulla gamba sinistra in seguito all’esplosione di una
granata gli aveva complicato l’andatura. C’è un problema. Lui può entrare ma il
bastone no. Lo steward è irremovibile: “Non
m’interessa chi è lei signore, non può portare il suo bastone sulle gradinate”.
Fortunatamente l’arrivo di un altro inserviente risolve la penosa situazione. “Prego, venga con me, vedo se posso farla
entrare in una zona diversa”. D’altro canto sarebbe stata una vera e
propria disdetta non poter assistere alla partita più importante della storia
dei Pilgrims, quella che avrebbe deciso chi, fra Plymouth e Watford, sarebbe
andato a Wembley a giocarsi la finale della coppa d’Inghilterra. Già Plymouth, amena città portuale del Devon,
terra di marinai, pirati e ricercatori, era letteralmente impazzita da almeno
un mese. La sua squadra di terza divisione allenata dal prestante John Hore
aveva raggiunto un traguardo impensabile. “In
nome di Dio” -ecco il giuramento: “Noi
qui sottoscritti, leali sudditi del nostro riverito Sovrano Giacomo, per grazia
divina Re di Gran Bretagna e Irlanda, avendo intrapreso un viaggio per fondare
la prima colonia della Virginia del Nord, stringiamo un patto solenne di
costituire una civile società che miri al miglior ordinamento e la migliore
conservazione della nostra comunità, e per il perseguimento di fini che siano
giusti ed eguali per tutti.” La frase verrà scandita ai quattro venti la
mattina dell’11 novembre 1620. Nella baia di Cape Cod, aveva appena gettato
l’ancora un piccolo galeone a tre alberi battente bandiera inglese e dal nome
beneagurante: Mayflower. Fiore di maggio. La nave era partita circa due mesi
prima proprio dal porto di Plymouth guidata dal capitano Christopher Jones. Con
lui ci sono John Alden, l’organizzatore del viaggio, e William Bradford, colui
che diventerà futuro governatore della nuova Colonia. A bordo un totale di 102
passeggeri in larga maggioranza “Padri pellegrini”, ovvero, più concretamente,
riformisti puritani separatisti dalla chiesa anglicana, un gruppo formatisi a
Nottingham nel 1606 e subito accusati di tradimento. Ed è per questa vicenda
che il nomignolo di “Pilgrims” sarà associato ai giocatori del Plymouth Argyle.
Ma occhio che la macchina del tempo è nuovamente ripartita perché al Villa Park
si è incominciato a giocare. Sugli spalti i tifosi arrivati da Plymouth che avevano
intasato e colorato di biancoverde l’autostrada per Birmingham, sono quasi
ventimila e cantano “Mariner Give Us A Wave” in onore del mai dimenticato Paul e
più causticamente “We hate Exeter”. Negli occhi ancora quel flash ossia la
fotografia scattata il 14 marzo durante il replay del sesto turno a Derby quando i
"Pilgrims" espugnarono il Baseball Ground 1-0 conquistando l’inaspettata
semifinale. La notte fredda del Derbyshire, i riflettori accesi velati dalla
foschia, il campo pesante, la porta difesa con piglio da Geoff Crudigngton. Il
Plymouth non ci stava a fare la vittima designata. Nella prima gara disputata
in casa aveva dimostrato che poteva giocare alla pari con il Derby County. In
fondo nel turno precedente erano stati capaci di battere un’altra grande, ed in
trasferta, avevano sconfitto al The Hawthorns il WBA per gentile concessione di
Tommy Tynan. E allora, verso la fine del primo tempo il lampo. Un goal rocambolesco,
arrivato direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Una parabola
infinita, poi un colpo da biliardo di Andy Rogers con palla in buca d’angolo
esattamente sotto lo spicchio occupato dalla gente arrivata dal Devon. Una rete
che deciderà l’incontro e inserirà la pallina con il numero del Plymouth Argyle
nella sacca color porpora della FA per decidere l’abbinamento delle quattro
semifinaliste. Erano passati esattamente 98 anni dalla fondazione del club. Una
scommessa fra due amici e la solita irresistibile nuova moda di fine ottocento
di giocare a calcio. Bedford Street e il suo “Borough Arms”, il luogo declinato all’embrione. Loro sono Howard
Grose e William Pethybridge, ex alunni di una scuola pubblica che decidono di
regalare a Plymouth il suo sodalizio pedatorio. Il 16 ottobre 1886 entrambi
scenderanno in campo nella prima partita che la squadra disputò contro una
compagine della vicina Cornovaglia, il Caxton, (e che Caxton verrebbe da dire)
che per la cronaca s’imporrà per due reti a zero. Le speculazioni che
circondano l’origine del nome Argyle non sono del tutto chiare ma in fondo è
giusto così: questa nell’apendice ovest del paese resta terra poco incline al
patriottismo, terra di confine, un limbo, dove si mischiano tradizioni
britanniche, bretoni, e leggende celtiche, una separazione complessa, molto più
netta di quella che materialmente rappresenta una riga sulla cartina o un
cartello stradale. Una delle spiegazioni plausibili pare mutuare l’appellativo Argyle
da un reggimento militare chiamato Sutherland Highlander’s che all’epoca
gestiva una propria importante squadra di calcio. Un’altra ipotesi è invece
dettata dal fatto che nei pressi del “Borough
Arms” si trovasse un’osteria denominata “Argyle
Tavern” dove i soci fondatori erano soliti rifocillarsi. Ci sarebbe anche
un’ultima teoria che riconduce alla Regina Vittoria e ai suoi interessi
scozzesi nella storica città di Inverary, sede del Duca di Argyll. In ogni
caso, la squadra assunse il suo nome definitivo nel 1903 quando si affacciò per
la prima volta al professionismo sotto la direzione di un certo Bob Jack. Insomma,
pur essendo un piccolo club di storie da raccontare ce ne sarebbero parecchie.
Un viaggio per esempio. Una tournée estiva che nel 1924 portò i Pilgrims al di là
dell’oceano, come quella volta del 1620. Ma in questo caso la nave fece rotta
verso l’America del Sud, stavolta senza essere accompagnati nel lungo tragitto
dai sermoni infuocati della Bibbia riformata, bensì solamente dalle divise da
gioco e da qualche pallone per fare due scambi d’allenamento sul ponte della
nave, stando attenti a non far cadere la sfera fra i marosi dell’Atlantico. Il
Plymouth vinse la prima partita 4-0 contro l’Uruguay a Montevideo, l’Uruguay che
sei anni dopo si sarebbe laureato campione del mondo. Poi i ragazzi del Devon
faranno un’altra impresa andando a battere l’Argentina 1-0, e, sempre a Buenos
Aires, il 9 luglio 1924 pareggiano una partita incredibile con il Boca Juniors.
A catturare l’attenzione di tutti sarà lo stile di un certo Mosé Russell, il
capitano dell’Argyle, uomo dalla spiccata personalità. Succede che nel momento
in cui i padroni di casa andranno in vantaggio, il pubblico invase il campo
portando in trionfo intorno al rettangolo di gioco i propri calciatori. Quando dopo
una buona mezz’ora si ristabilì una parvenza di calma, l’arbitro assegnò un
rigore ai verdi di Plymouth. A questo punto visto il contorno non idilliaco,
Patsy Corcoran, l’incaricato di battere il penalty, sembrò si fosse
preventivamente accordato con i suoi per sbagliare appositamente il tiro e non
rischiare eventi sgraditi. Tuttavia Russell non si dimostrò disposto a perdere
in maniera così vigliacca. E Russell diventò allora l’angolo morto. Chi guida
un mezzo sa cos’è. Si tratta di quella piccola porzione di vista sottratta allo
sguardo indagatore dello specchietto laterale. Un paio di secondi, o poco meno,
durante i quali un oggetto qualsiasi in movimento al nostro fianco non viene
assolutamente percepito: in quegli attimi l’oggetto non esiste. Eppure c’è, e
sta camminando con noi. L’oggetto in quel caso era Russell. Si mosse deciso
precedendo Corcoran un attimo prima che quest’ultimo calciasse il pallone.
Russell segnò fra la sorpresa e soprattutto il timore di tutta la delegazione
sportiva inglese. Apriti cielo. Nuova invasione, fortunatamente nessun
giocatore aggredito, solo tanta paura e naturalmente partita sospesa. I momenti
memorabili non sono finiti. Marzo 1973. A Home Park, casa del Plymouth Argyle
dal 1901, è di scena nientemeno che il gigante brasiliano del Santos. Tra le
loro fila sbuca Pelé. Ad ammirarlo arrivano (dati ufficiali) in 37.639, pronti,
per la verità, a gustarsi il successo dei "Pilgrims", maturato grazie alle reti
di Mike Dowling, Derek Richard e Jimmy Hinch. Quel 1973 non sarà ricordato solo
per la vittoria sul Santos; nella squadra allenata da Tony Waiters esordisce il già citato
Paul Mariner, attaccante con la faccia da cantante pop che in area di rigore se
la suona e se la canta. Se ne andrà nel 1976 a fare le fortune dell’Ipswich
Town di Bobby Robson, lasciando a Home Park uno spartito con 56 note musicali:
il numero dei suoi gol. Tutti realizzati con la maglia dal semplice monogramma
PAFC che aveva sostituito l’emblema della Mayflower, reintrodotto soltanto
successivamente. È tempo di tornare a quel giorno d’aprile del 1984. A Villa
Park, il Plymouth Argyle entrò in campo con la tradizionale maglia verde sui
pantaloncini neri, una tonalità piuttosto insolita in Inghilterra, eppure
questo club dalle venature insulari, lo ha fieramente e fortemente voluto,
lasciandosi solo prendere la mano negli anni sessanta quando si ritrovarono a
indossare un kit di tendenza innovativa con il bianco preminente. I "Pilgrims", snocciolarono la loro preghiera:
Crudingngton, Nisbet, Uzzell, Harrison, Smith, Cooper, Rogers, Phillips,
Hodges, Tynan, Stainforth. Di fronte, l’undici in giallo di Peter Taylor
e dell’eccentrico proprietario Elton John. Il Watford della grande cavalcata
dalla quarta divisione ai vertici della massima serie, e che in quel momento
toccava l’apice della una celebrità. Diciamolo subito: il Plymouth
avrebbe meritato di più. Invece fu colpito a freddo dopo appena un quarto d’ora
dal colpo di testa dello scozzese George Reilly che sulla pennellata dal fondo
di John Barnes segnò il goal più importante della sua carriera, sotto la
gremitissima Holte End. Mancò un pochina di fortuna, mancò soprattutto quella rete
che sembrava fatta ma Kevin Hodges “riuscì”
a sbagliare a pochi passi dalla porta mancando l’impatto con il pallone davanti
alla faccia smarrita di Steve Sherwood. Ciccò il pallone, in gergo. A Plymouth, pare si rattristò anche la statua di Francis Drake, il prediletto
della Regina Elisabetta, che sprezzante giocava a bocce sulla sabbia mentre
all’orizzonte incominciavano a disegnarsi le sagome minacciose dell’invincibile
armata spagnola. Magari lui avrebbe segnato e rimesso in parità
l’incontro e poi sarebbe corso in panchina da John Hore a bere un sorso di rum.
O magari no. Perché forse l’epopea dei "Pilgrims" doveva chiudersi così.
Plymouth A.- Derby County 1984, (Home Park, Fourth Round)
Nessun commento:
Posta un commento