sabato 28 maggio 2022

CORNWALL IS NOT ENGLAND

 
Alla fine degli anni '80 e all'inizio degli anni '90 la lingua della Cornovaglia sembrava perduta, definita da taluni una pratica barbara e fortunatamente quasi scomparsa, un po' come la pirateria e il contrabbando. Ora riceve finanziamenti governativi per essere insegnata nelle scuole e appare sui cartelli bilingue di "confine", sui negozi, e sui segnali stradali. Insomma, ecco rispolverato il vecchio motto “Onen hag oll” (dal cornico: Uno e Tutti) sputato in faccia ai passanti sui muri di Bodmin, la capitale storica di quest’appendice di terra protesa a cercare altro. La cultura cornica è molto diversa da quella tradizionale inglese, basa le proprie radici su un diffuso celtismo: la lingua locale, il "Kernowek", è infatti molto simile al gallese e al bretone. Quest’aria si respira camminando per le varie cittadine. Da St. Ives a Longrock, oltrepassando chiese solitarie annerite dagli anni e avvinghiate dall’edera, dove l'eco di qualche mugghio pare allucinatorio, perché non si capisce come diavolo una vacca possa farvi colazione se non brucando le corde della propria campana. Il verde infatti si trova più internamente, ossia laddove si accovacciano fattorie cintate, la cui unica voce è quella di modesti maialetti nerastri in perpetuo conciliabolo. Scarpate di pietrame si sgretolano su creste dove stormiscono uccelli e gridano gabbiani. Aspersioni di birra e tipi rubizzi, fra santi inauditi, adorni di nomi celtici che Roma si rifiutò sempre di masticare. D'altra parte la Cornovaglia sprofonda nel suo mare, come fosse uno spicchio d'Irlanda cucito in coda all’Inghilterra, un gran capriccio culturale e etnico. Gli inglesi naturalmente ci posero i loro scarponi ferrati, tentarono di scuoterla, di materializzarla, di renderla fattiva, dai Tudor all’ultima Elisabetta. Non ottennero mai niente e hanno finito per ignorarla alla stregua di una cenerentola qualsiasi. Non è un caso che fu l’ultima contea in cui la ferrovia decise ad avventurarsi. E' un paese di sognatori puri, di visionari impenitenti, di gente orgogliosa. Nel 1889 nelle stanze del "Royal Hotel" di Truro nacque la Cornwall FA uno degli enti che controlla il calcio nella contea. L'associazione possiede anche una propria rappresentativa per le partite internazionali, (gestita della Kenrow FA) ed ha sbattagliato spesso con isolette tipo Guernsey, Jersey e Man o in tornei più o meno ufficiali. Il resto è un amalgama raccolto nella piramide intorno agli ultimi tre livelli. Il Truro City resta in ogni caso il club che di più ha impresso il suo nome nel calcio cornico diventando la seconda squadra della Cornovaglia a raggiungere il primo turno nella FA Cup del 2007, 48 anni dopo al Falmouth Town. E nella stessa stagione arrivò la vittoria del “Vase”, nella finale giocata a Wembley contro il Totton di fronte a 35.000 spettatori. Poi, sbirciando, possiamo trovare il San Blazey, il Penzance, il Bodmin, il Sant’Austell, il Newquay, ed altri frammenti di un piccolo mondo antico, rannicchiati intorno al cosiddetto "Land's End Landmark", la fine del mondo, punta d’imbuto ciottolosa e aspra, bagnata dall'oceano che pare risucchiare boschi di querce orlati di brughiere, fra questo strano scetticismo verso ciò che giunge da fuori.

mercoledì 18 maggio 2022

IL BOSNA SARAJEVO




Non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. C’è una targa, in porfido, una targa fissata in un angolo, giù in fondo a un muro di cinta. E’ una piccola targa e come tutte le cose qui nessuno sa quanto resisterà, neanche quanto la lettura della stessa possa imprimere la fermezza del monito. Perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Per osservarla bene occorre salire un paio di gradoni di cemento sgranato e a quel punto tra le maglie di una grata di ferro si legge:
 
“In questo luogo, il 12 aprile 1993, 74 bosniaci di Srebrenica e della Drina sono stati uccisi da una granata”.
 
Erano tutti bambini. La maggior parte arrivati con le famiglie dai paesi limitrofi perché Srebrenica doveva essere un luogo sicuro. E invece no, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. La riva destra del fiume, zeppa di milizie serbo-bosniache, lo stava per confermare. Erano tutti in questo campo da basket i bambini, perché questo luogo con la targa era una campo da basket. Un posto dove i bambini giocavano ma non fu sufficiente a tenerli al riparo, così come le risoluzioni ONU non hanno salvato nessuno, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Un eccidio durato cinque giorni che costerà la vita a oltre 7.000 persone e ancora oggi Srebrenica resta recesso buio della memoria d’Europa. 
 
La Bosnia. Dove ogni cosa è appesa a un filo, persino il campetto da basket.
 
Restò l’intelaiatura e lo spirito del gioco, restarono tabelloni anneriti, sverniciati. I canestri scomparvero tranciati dalla follia e chi il giorno dopo avesse voluto fare un tiro non avrebbe colpito nulla, avrebbe sentito solo uno strano rumore sordo, il rumore del nulla, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Eppure accanto a quel campo da gioco sono cresciuti altri ragazzi, si sono mosse altre automobili, si sono alzati altri palazzi adornati di altri graffiti. Quel giorno, quel giorno maledetto, c’era chi scriveva e chi scappava, chi sparava e chi moriva, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, e tutto ciò che sentite dire su questa guerra non è sicuro, come le cose qui. Chi è sopravvissuto vi dirà che nessuno ha fatto niente, nessuno sapeva niente, niente di niente, solo proclami e rivendicazioni perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, ma hanno visto i caduti e hanno seppellito i propri morti, prima che i morti seppellissero altri morti.
 
Qualcuno in questo rettangolino ameno di città dedicato alla pallacanestro ci ha giocato, ha segnato dei punti, vinto partite, abbracciato compagni, si è salvato per un po’, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Eppure fra le selve di croci in attesa della risurrezione della carne almeno il gioco è rinato, è bastato agganciare nuovi cerchi con nuove retine, riverniciare, risistemare e gettare il resto. Pensateci, quando fate una penetrazione o un arresto e tiro, in qualunque posto del mondo voi siate, pensate che un giorno forse non esisteranno nemmeno da voi cose sicure, perchè ogni cosa è appesa a un filo.
 
Un pugno di giocatori e un allenatore, teneteli a mente, così, sfocati come su uno sfondo nebbioso, perché ci ritorneremo. La Bosnia è silenzio, la Bosnia è preghiera. Il richiamo dei Muezzin dai minareti, proiezioni di fede che pungono il cielo, le abluzioni, i calzari, le ginocchia, il pavimento, Allah il grande e misericordioso. Le Moschee furono danneggiate ma restarono fruibili. Nessuno ci faceva caso, non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. E tutti si radunano ad abbracciare una fede mai abiurata. Fuori il cielo e il fluire della Miljacka solcata dai ponti da cui, alla sera, si vedono i chiarori delle case sulle montagne, punti luce sospesi ad annunciare la volta celeste.
 
Non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, anche le stelle. Nel 1914 un tale, Gavrilo Princip, rivoluzionario secessionista, a un incrocio di strade, sparò con una pistola uccidendo l’Arciduca d’Austria erede al trono, Francesco Ferdinando, innescando la scintilla che avrebbe fatto precipitare il continente nei miasmi delle trincee. Sarajevo è un’idea, un equilibrio instabile come il sonno dei cani, non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Nel basket un cecchino è un tiratore infallibile. A Sarajevo un cecchino è un’altra cosa, un tiratore anch’egli ma con fucili ad alta precisione, letale, nascosto, con il diritto di decidere della vita di un uomo.
 
E per quattro anni da qualsiasi parte ti voltassi, sparavano, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Dovunque cartelli forati da proiettili arrivati da chissà dove e chissà quando: “Pazi snajper”, attenzione: cecchino. Per terra i cadaveri. Però a scuola si poteva andare e anche al lavoro. Solo che a volte non si tornava perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Eppure Sarajevo ha saputo guardare la tragedia con strafottenza sincera, l’ha guardata e non ha avuto mai paura. I teatri restavano aperti, qualcuno organizzava eventi. Bisognava vivere.
 
Ma può un luogo trasformarsi nell’inferno e sembrare casa? Scrive Nedžad Maksumić:
 
“Nei giorni dei grandi temporali il cielo era rosso. La pioggia portava con sé la polvere dei deserti d’oltre mare. I vecchi dissero: “Ci sarà la guerra!”. Nessuno prestò credito alle loro parole. E nessuno fece nulla. Giacché, cosa si poteva fare contro la profezia?!? Solo cantammo per intere giornate, fino a restare senza voce per poter consumare tutte le vecchie canzoni, perché non ne restasse nessuna che venisse sporcata dal tempo”. 
 
Ed è proprio cosi, non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, Dio o il destino, intercambiabili, a piacere.
 
Nella primavera del 1979 Sarajevo era in festa, vi ricordate quei giocatori citati poco fa, ci siamo. La gente usciva allegra, affollava i bar di Baščaršija, mentre le radio trasmettevano le canzoni dei Bjelo Dugme. Capannelli di persone festanti sul ponte Vrbanja nel quartiere di Grbavica, e sul ponte Latino. Ma il viadotto maggiormente intasato di felicità era il ponte Skenderija quello che portava al palasport del Bosna Sarajevo, si perché il Bosna Sarajevo aveva appena battuto nella finale di Grenoble, per 96 a 93, l’Emerson Varese e per la prima volta una formazione Yugoslava vinceva la Coppa dei Campioni.
 
Tutti gli abitanti della città celebravano lo storico momento sportivo ma ognuno sapeva che non esistono cose sicure, qui, ogni cosa è appesa a un filo, soprattutto quella litania: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un solo Tito”, e allora nel cono d’ombra di vent’anni dopo, tutto andò sbriciolandosi. Quel gruppo di giocatori era allenato da Bogdan Tanjević, giovane baffuto satanasso, estroverso e visionario tecnico di pallacanestro. Tanjević aveva assemblato una squadra a sua immagine e somiglianza con giocatori forti e duttili, perfetti per il suo sistema.
 
Un buon playmaker, Svetislav Pešić, poi Žarko Varajić un’ala vigorosa, un paio di combattenti, Anto Djogić e Zdravko Čečur, e due fenomeni assoluti: Ratko Raša Radovanović e Mirza Delibašić. Per avere Mirza nel suo quintetto si racconta che Tanjević nottetempo si presentò alla porta dei genitori del ragazzo sfoggiando tutte le sue doti, del tutto balcaniche, di imbonitore e dopo avergli storditi con i suoi ridondanti discorsi sulla necessità che un giocatore bosniaco facesse la fortuna di una squadra bosniaca infilò Mirza in macchina portandolo a Sarajevo poche ore prima che arrivassero gli emissari della Stella Rossa, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, come lo stendardo che ricorda che Sarajevo il 5 aprile del 1979 si sedette sul trono del basket europeo.
 

 

 

mercoledì 11 maggio 2022

THESSALONIKI DERBY


Super Basket alla mia edicola di riferimento usciva il martedì insieme al Guerino. Si trattava di una doppia cattura, la risultante profana di uno spazio sacro in divenire dove si celebrava ritualmente il divino, cioè la lettura dell’intangibile, ciò che (per dirla con Carmelo Bene) ci manca; dove tutto è possibile e nello stesso tempo impossibile, in quanto nulla è vero se non la finzione stessa. Al campionato di basket ellenico davo un occhiata attenta, appuntandomi ogni articolo su Galis e compagnia cantante. Nel 1991 il suo straordinario Aris era a caccia del decimo titolo e man mano che il tabellone dei play off si ridusse a due contendenti restai entusiasta dal fatto che le ateniesi avevano sbandato nettamente e Salonicco era diventata di fatto la capitale momentanea della Grecia dei canestri, un pò come la nostra Bologna. Aris contro Paok all' Alexandreio Melathron, il palasport oracolare, incurvato, infossato fra due ali di folla accalcata e sudata, a torso nudo, o in magliette da mercatino; un pubblico gesticolante, sporto fin quasi a toccare le tavole scure del parquet. Salonicco, o Thessaloniki, dove il Dorico e il Corinzio si alternano a seconda del termometro ambientale, una città esposta verso i confini macedoni, carica di un fragoroso bisticcio etnico incensato da comunità ebraiche e cristiane, profumata di bougatsa e gyros, attraversata, lungo il porto, da quel vento che mosse bandiere bizantine e ottomane, che invitò monaci ortodossi a salire le cime del monte Athos per rifugiarsi nel silenzio dell’iconostasi, nell’arroccarsi mistico dei monasteri. Aris-Paok si gioca ogni giorno, quartiere per quartiere, strada per strada. L’Aris nacque nel 1914 da una costola dell’Iraklis (società in declino) e scelsero a proprio simbolo Ares, il Dio della guerra, vestendosi di giallo-oro listato di nero, i colori della perduta Bisanzio. Il Paok, invece, prenderà forma nel 1926, quando in molti fuggirono da Istanbul durante il conflitto Greco-Turco e reca il nero della tristezza ma anche il bianco della rinascita, legatissimi pure loro alla vecchia Bisanzio tramite l’Aquila imperiale bicefala. E poi quei tipici ferri dei canestri greci: rigidi, duri, pronti a risputare ogni pallone impreciso e rifiniti da retine smilze, corte, simili a quelle dei pescatori locali, cerchi di un ordalia che ha davvero pochi eguali. Nel 1991 Nikos Galis e Bane Prelevic, erano i due semidei le cui maglie oggi sono appese in tributo nei rispettivi soffitti, dei rispettivi templi. La finale del ’91 fu giocata al meglio delle cinque partite, tutte disputate al Melathron con il fattore campo pressoché inesistente perché i circa 8000 presenti (di più era francamente impossibile) vennero disposti equamente sui lati opposti della struttura, stando attenti ad invertire la massa a ridosso delle panchine a seconda di chi deteneva nell'occasione il fattore campo, virtù che la classifica decretò a favore dell’Aris in caso di spareggio. I pullman che portavano le squadre ci misero circa un’oretta ciascuno a percorrere pochi chilometri dopo l’uscita dai ritiri: i cordoni della forza pubblica non riuscirono a frenare l’entusiasmo e i giocatori vennero rovistati, gettati in aria, raccolti e rilanciati. Gli americani delle due formazioni non si raccapezzarono ma accettarono il clima da Termopili con cipiglio e determinazione. L’Aris scappò via subito nella serie con un secco 2-0 che lo avvicinava alla stella, tuttavia il Paok mai mollò un centimetro e disperatamente riagguantò la parità nei due successivi incontri agganciando i rivali cittadini sul 2-2. Prima del match decisivo la TV greca mandò uno speciale (recuperabile a spezzoni su Youtube) non-stop durato, bontà loro, 5 ore e mezza, e c’è chi giura di aver visto Galis, astemio, provatissimo all’uscita dello studio fermarsi in un bar a bere il primo bicchiere di whisky della sua vita. Nick Galis è il ritratto dell’ America delle valige di cartone, quella che poggiava le basi della propria evoluzione contando le navi attraccate sul molo di Long Island e in cui, molti, nel dopolavoro, cercavano all’ombra delle ossature di grattacielo e in ammuffite cantine adibite a palestra uno spiraglio di vita differente praticando il pugilato perché il codice non scritto di un paio di pugni in faccia rendeva uguali anche i connotati dei ricchi e se eri bravo arrivavano soldi e fama. C’è una coppia di sposini, Geórgios e Stella Georgalis, partiti dall’isola di Rodi e finiti a New York ad inseguire il futuro. Ad Union City, sul lato indigente dell’Hudson, nel 1957 mettono al mondo Nikos e non appena il fisico supporta il ragazzo il padre, da grande appassionato di boxe, lo farà salire sul ring contro i coetanei del quartiere. Ma la madre Stella, apprensiva, e soprattutto snervata di disinfettare e incerottare il volto pieno di lividi del figlio, una sera a cena schiude la rabbia fin troppo soppressa e scoppia in un furioso litigio con il marito. Vola qualche piatto e la donna la spunta: Nikos cestinò i guantoni cominciando a frequentare i campi di pallacanestro. Da Seton Hall in poi diventerà il più grande cestista greco di sempre, ma ora dobbiamo rimettere la testina del giradischi al punto giusto del vinile. Dicevano 1991, maggio. Se l’Aris allenato da Michalis Kyritsis poteva contare su Galis, il resto del quintetto si presentava decisamente bellicoso illuminato su tutti da Panagiotis Giannakis, moro, nato nel giorno di Capodanno del 1959 a Nikaia, pochi chilometri dal Pireo, area suburbana di Atene, proveniente da una famiglia molto povera, il più piccolo di cinque fratelli, bravo a venirne fuori sfruttando il suo talento per costruirsi una grande carriera nel basket, tanto da ricevere il soprannome di "Drago" e diventare un simbolo della Grecia sportiva, animato da uno spirito vincente e da un amore per il gioco che lo porterà ad affermarsi pure come allenatore. Lui è la vera simbologia di Ares-Marte, il dio della contesa, Galis è un fenomeno ma rimane Ermes-Mercurio, il messaggero. Con loro Slobodan Subotic detto "Piksi", Goran Sobin, e l’americano di colore Brad Sellers. E’ il Paok? Altro emblema sportivo a 360 gradi, che pulsa anch’egli in quello strettissimo budello di cemento dove finisce il mare e inizia la città, fra macchine tamarre e chi siede interminabili ore a fumarsi mille sigarette osservando la Torre Bianca, e allora ci si rende conto di essere ancora nei Balcani, sia detto accarezzando il confine della sfera di influenza puramente ellenica, imbastardita da accenti slavi e giacche in pelle di camionisti bulgari. Il Paok avvolto, confortato, nelle ali della sua aquila a due teste, pendeva dalla lavagnetta tattica del belgradese Dragon Sakota, già alzato sugli scudi per aver portato la Coppa delle Coppe battendo il Saragozza 76 a 72 nella finale di Ginevra. In squadra ha Branislav Prevelic detto Bane, anche lui serbo di una delle ultime buone covate jugoslave, poi fatto greco e diventato Re a Salonicco, furbo come solo i serbi sanno essere nel gioco, ottimo nel rubare palloni e nell’elargirli ai più poveri. Con "Bane", John Korfas da Akron, Ohio, soprannominato "Tintin", autentico idolo dei tifosi del Paok, uno che tirava i liberi con una tecnica del tutto particolare e in genere non sbagliava. E quel capellone falsomagro da mettere sotto canestro, all’anagrafe Panagiotis Fasoulas, con la canotta numero 13, assistito sotto le plance dall’ex Tracer Milano Ken Barlow, ottimo rimbalzista, esuberante, dagli occhi starlunati. A chiudere i cinque “Dikefalos tou vorra”, c’era Nikos Boudouris, guardia di Volos, la mitica terra dei centauri. Gara 5 (riguardatela) è una bolgia. Chi non trovò il biglietto per la partita si chiuse in casa, le strade deserte, il silenzio rotto dall’urlo per ogni canestro. Sul legno del Alexandreio Melathron, il Paok tentò di sfruttare la serata storta di Galis per portarsi avanti nonostante lo stesso Prelevic non fosse al meglio. Le seconde scelte avranno un ruolo fondamentale, Stavropoulos e Papachronis per il Paok, e il talento di Angelidis per l’Aris. Quando l’Aris sembrò mollare gli ormeggi nel secondo tempo ci penserà il solito Giannikis a centrare dannatamente la retina per i suoi, e a una manciata di secondi dal termine, indovinerà un assist, quasi cieco, per l'accorrente Brad Sellers che realizzerà il pari più fallo, e dalla linea della carità mandò l’Aris sopra di uno: 81-80. Il Paok non ebbe il tempo necessario per reagire, quel pizzico di fortuna, la nemesi tanto attesa. Vincerà l’Aris, si cucirà la stella, mentre alla sirena si scatenerà una rissa epica, tenuta in bilico dalla polizia, un pandemonio condito dal suono stridulo delle ambulanze in arrivo e da bandiere in festa ed altre ammutolite.

THE GATE OF SHEL'S

  Diciamolo, ci avete fracassato il cazzo con gli stadi nuovi tutti uguali. Ma qui siccome siamo a livelli straordinari di decadenza occorre...