mercoledì 11 maggio 2022

THESSALONIKI DERBY


Super Basket alla mia edicola di riferimento usciva il martedì insieme al Guerino. Si trattava di una doppia cattura, la risultante profana di uno spazio sacro in divenire dove si celebrava ritualmente il divino, cioè la lettura dell’intangibile, ciò che (per dirla con Carmelo Bene) ci manca; dove tutto è possibile e nello stesso tempo impossibile, in quanto nulla è vero se non la finzione stessa. Al campionato di basket ellenico davo un occhiata attenta, appuntandomi ogni articolo su Galis e compagnia cantante. Nel 1991 il suo straordinario Aris era a caccia del decimo titolo e man mano che il tabellone dei play off si ridusse a due contendenti restai entusiasta dal fatto che le ateniesi avevano sbandato nettamente e Salonicco era diventata di fatto la capitale momentanea della Grecia dei canestri, un pò come la nostra Bologna. Aris contro Paok all' Alexandreio Melathron, il palasport oracolare, incurvato, infossato fra due ali di folla accalcata e sudata, a torso nudo, o in magliette da mercatino; un pubblico gesticolante, sporto fin quasi a toccare le tavole scure del parquet. Salonicco, o Thessaloniki, dove il Dorico e il Corinzio si alternano a seconda del termometro ambientale, una città esposta verso i confini macedoni, carica di un fragoroso bisticcio etnico incensato da comunità ebraiche e cristiane, profumata di bougatsa e gyros, attraversata, lungo il porto, da quel vento che mosse bandiere bizantine e ottomane, che invitò monaci ortodossi a salire le cime del monte Athos per rifugiarsi nel silenzio dell’iconostasi, nell’arroccarsi mistico dei monasteri. Aris-Paok si gioca ogni giorno, quartiere per quartiere, strada per strada. L’Aris nacque nel 1914 da una costola dell’Iraklis (società in declino) e scelsero a proprio simbolo Ares, il Dio della guerra, vestendosi di giallo-oro listato di nero, i colori della perduta Bisanzio. Il Paok, invece, prenderà forma nel 1926, quando in molti fuggirono da Istanbul durante il conflitto Greco-Turco e reca il nero della tristezza ma anche il bianco della rinascita, legatissimi pure loro alla vecchia Bisanzio tramite l’Aquila imperiale bicefala. E poi quei tipici ferri dei canestri greci: rigidi, duri, pronti a risputare ogni pallone impreciso e rifiniti da retine smilze, corte, simili a quelle dei pescatori locali, cerchi di un ordalia che ha davvero pochi eguali. Nel 1991 Nikos Galis e Bane Prelevic, erano i due semidei le cui maglie oggi sono appese in tributo nei rispettivi soffitti, dei rispettivi templi. La finale del ’91 fu giocata al meglio delle cinque partite, tutte disputate al Melathron con il fattore campo pressoché inesistente perché i circa 8000 presenti (di più era francamente impossibile) vennero disposti equamente sui lati opposti della struttura, stando attenti ad invertire la massa a ridosso delle panchine a seconda di chi deteneva nell'occasione il fattore campo, virtù che la classifica decretò a favore dell’Aris in caso di spareggio. I pullman che portavano le squadre ci misero circa un’oretta ciascuno a percorrere pochi chilometri dopo l’uscita dai ritiri: i cordoni della forza pubblica non riuscirono a frenare l’entusiasmo e i giocatori vennero rovistati, gettati in aria, raccolti e rilanciati. Gli americani delle due formazioni non si raccapezzarono ma accettarono il clima da Termopili con cipiglio e determinazione. L’Aris scappò via subito nella serie con un secco 2-0 che lo avvicinava alla stella, tuttavia il Paok mai mollò un centimetro e disperatamente riagguantò la parità nei due successivi incontri agganciando i rivali cittadini sul 2-2. Prima del match decisivo la TV greca mandò uno speciale (recuperabile a spezzoni su Youtube) non-stop durato, bontà loro, 5 ore e mezza, e c’è chi giura di aver visto Galis, astemio, provatissimo all’uscita dello studio fermarsi in un bar a bere il primo bicchiere di whisky della sua vita. Nick Galis è il ritratto dell’ America delle valige di cartone, quella che poggiava le basi della propria evoluzione contando le navi attraccate sul molo di Long Island e in cui, molti, nel dopolavoro, cercavano all’ombra delle ossature di grattacielo e in ammuffite cantine adibite a palestra uno spiraglio di vita differente praticando il pugilato perché il codice non scritto di un paio di pugni in faccia rendeva uguali anche i connotati dei ricchi e se eri bravo arrivavano soldi e fama. C’è una coppia di sposini, Geórgios e Stella Georgalis, partiti dall’isola di Rodi e finiti a New York ad inseguire il futuro. Ad Union City, sul lato indigente dell’Hudson, nel 1957 mettono al mondo Nikos e non appena il fisico supporta il ragazzo il padre, da grande appassionato di boxe, lo farà salire sul ring contro i coetanei del quartiere. Ma la madre Stella, apprensiva, e soprattutto snervata di disinfettare e incerottare il volto pieno di lividi del figlio, una sera a cena schiude la rabbia fin troppo soppressa e scoppia in un furioso litigio con il marito. Vola qualche piatto e la donna la spunta: Nikos cestinò i guantoni cominciando a frequentare i campi di pallacanestro. Da Seton Hall in poi diventerà il più grande cestista greco di sempre, ma ora dobbiamo rimettere la testina del giradischi al punto giusto del vinile. Dicevano 1991, maggio. Se l’Aris allenato da Michalis Kyritsis poteva contare su Galis, il resto del quintetto si presentava decisamente bellicoso illuminato su tutti da Panagiotis Giannakis, moro, nato nel giorno di Capodanno del 1959 a Nikaia, pochi chilometri dal Pireo, area suburbana di Atene, proveniente da una famiglia molto povera, il più piccolo di cinque fratelli, bravo a venirne fuori sfruttando il suo talento per costruirsi una grande carriera nel basket, tanto da ricevere il soprannome di "Drago" e diventare un simbolo della Grecia sportiva, animato da uno spirito vincente e da un amore per il gioco che lo porterà ad affermarsi pure come allenatore. Lui è la vera simbologia di Ares-Marte, il dio della contesa, Galis è un fenomeno ma rimane Ermes-Mercurio, il messaggero. Con loro Slobodan Subotic detto "Piksi", Goran Sobin, e l’americano di colore Brad Sellers. E’ il Paok? Altro emblema sportivo a 360 gradi, che pulsa anch’egli in quello strettissimo budello di cemento dove finisce il mare e inizia la città, fra macchine tamarre e chi siede interminabili ore a fumarsi mille sigarette osservando la Torre Bianca, e allora ci si rende conto di essere ancora nei Balcani, sia detto accarezzando il confine della sfera di influenza puramente ellenica, imbastardita da accenti slavi e giacche in pelle di camionisti bulgari. Il Paok avvolto, confortato, nelle ali della sua aquila a due teste, pendeva dalla lavagnetta tattica del belgradese Dragon Sakota, già alzato sugli scudi per aver portato la Coppa delle Coppe battendo il Saragozza 76 a 72 nella finale di Ginevra. In squadra ha Branislav Prevelic detto Bane, anche lui serbo di una delle ultime buone covate jugoslave, poi fatto greco e diventato Re a Salonicco, furbo come solo i serbi sanno essere nel gioco, ottimo nel rubare palloni e nell’elargirli ai più poveri. Con "Bane", John Korfas da Akron, Ohio, soprannominato "Tintin", autentico idolo dei tifosi del Paok, uno che tirava i liberi con una tecnica del tutto particolare e in genere non sbagliava. E quel capellone falsomagro da mettere sotto canestro, all’anagrafe Panagiotis Fasoulas, con la canotta numero 13, assistito sotto le plance dall’ex Tracer Milano Ken Barlow, ottimo rimbalzista, esuberante, dagli occhi starlunati. A chiudere i cinque “Dikefalos tou vorra”, c’era Nikos Boudouris, guardia di Volos, la mitica terra dei centauri. Gara 5 (riguardatela) è una bolgia. Chi non trovò il biglietto per la partita si chiuse in casa, le strade deserte, il silenzio rotto dall’urlo per ogni canestro. Sul legno del Alexandreio Melathron, il Paok tentò di sfruttare la serata storta di Galis per portarsi avanti nonostante lo stesso Prelevic non fosse al meglio. Le seconde scelte avranno un ruolo fondamentale, Stavropoulos e Papachronis per il Paok, e il talento di Angelidis per l’Aris. Quando l’Aris sembrò mollare gli ormeggi nel secondo tempo ci penserà il solito Giannikis a centrare dannatamente la retina per i suoi, e a una manciata di secondi dal termine, indovinerà un assist, quasi cieco, per l'accorrente Brad Sellers che realizzerà il pari più fallo, e dalla linea della carità mandò l’Aris sopra di uno: 81-80. Il Paok non ebbe il tempo necessario per reagire, quel pizzico di fortuna, la nemesi tanto attesa. Vincerà l’Aris, si cucirà la stella, mentre alla sirena si scatenerà una rissa epica, tenuta in bilico dalla polizia, un pandemonio condito dal suono stridulo delle ambulanze in arrivo e da bandiere in festa ed altre ammutolite.

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