giovedì 18 luglio 2024

L'ULTIMA HANSA




Intanto quello stemma, Un bastimento, la Adler von Lübeck, issante vela su cui si dispiega ai venti del Baltico lo stemma della Lega Anseatica. A Rostock, infatti, batte un cuore marittimo, il porto e le sue banchine nel tardo medioevo erano così affollate che nel 1218 ottenne il cosiddetto Diritto di Lubecca, un’alleanza commerciale, detta appunto Lega Anseatica che ha prosperato fino all’età moderna, quando nemmeno la gotica porta di Kutor resistette al dramma della guerra dei trent’anni che piegò su se stessa la Germania. Rostock è l’angolo morto della vecchia Germania Est, ferrigno, nebuloso porto di U-Boot dove il goniometro della Kriegsmarine tracciava rotte nei fondali lividi e gelati. In centro, nei piccoli chioschi situati nell’affascinante piazza dell'Alter Markt, si tracannano boccali di Pils e si mangiano panini rigorosamente ripieni con aringa o salmone, i cosiddetti "Fischbrötchen". “Hansa, wir lieben Dich total” (Hansa, ti amiamo completamente), è una canzone registrata nel 1995 ad opera del gruppo musicale dei Puhdys, una band rock tedesca formata ad Oranienburg nella regione del Brandeburgo, un casellario di cittadelle fortificate dai campanili aguzzi d’ardesia e tetti rossicci che dai loro abbaini scrutano lo scorrere di vigorosi corsi d’acqua. Nel calcio la canzone è diventata inno del Fußballclub Hansa Rostock (nato su secondo battesimo nel 1965) emerso da una combustione con l’Empor Lauter, società di una piccola cittadina mineraria della Sassonia, che al culmine di una serie di successi, su spinta del politico Harry Tisch, sarà di fatto traslocata a Rostock nell'appena completato Ostseestadion. E qui gli “Hanseaten” resteranno con alterni risultati in Oberliga che riusciranno a vincere proprio edizione conclusiva del 1991 insieme alla coppa nazionale, guidati in panchina da Uwe Reinders e in campo dall'italoamericano Paul Caligiuri, da Volker Röhrich e Hilmar Weilandt. Nel 1992 dopo la riunificazione dei campionati l’Hansa insieme alla Dynamo Dresda si affacciò in Bundesliga ma subito fu costretta a retrocedere per un punto e occorse aspettare quattro anni per vederla tornare nel massimo torneo tedesco dove stavolta i biancoblu listati di rosso dimoreranno un intero decennio, finché, purtroppo, come altre realtà della ex DDR, fu vittima della dura contingenza economica, e costretta a vendere pezzi pregiati tipo Stefan Beinlich e Oliver Neuville, cosa per altro infruttuosa perché dopo la Zweite Liga è arrivata anche la 3. Liga. In attesa che i venti del baltico cambino direzione e spingano un pò più su della spiaggia di Warnemünde il vecchio veliero anseatico dobbiamo registare che nel 1991 In Germania si giocava la prima edizione della Bundesliga nella Germania riunificata, 20 squadre comprese le prime due classificate dell’ultima edizione della DDR-Oberliga, ribattezzata Nordostdeutsche Fußballverband-Oberliga. Si trattava della Dinamo Dresda e, appunto, dell’Hansa Rostock. Gli anseatici avevano vinto sia il campionato che l’ultima edizione della Coppa della Germania Est e si presentavano ai nastri di partenza privi di Henri Fuchs, faro e bomber del torneo precedente, passato al Colonia e anche senza l’eccentrico statunitense Paul Caligiuri, ceduto al Friburgo dopo essere stato il primo straniero della storia del club. In panchina un giovanissimo Uwe Reinders, ex allenatore-giocatore dell’Eintracht Braunschweig, uno dei pionieri della inusuale transumanza verso Est. Quando Reinders entrò in carica, incontrò un bizzarro gruppo di calciatori per lo più demotivati ​​e con la stessa pettinatura da muggine. Il Re dei cefali era, ovviamente, Mike Werner, insieme al fido principino Gernot Alms. Ora su Mike Werner parentesi: Mike Werner, in campo lo si notava per due caratteristiche, il piglio tutto teutonico e il taglio di capelli "Wohukila", dal tedesco “Vorne kurz, hinten lang”, ossia davanti corti e dietro lunghi. Werner li portava così fin dai tempi del Motor Eberswalde, squadra di seconda divisione della DDR in cui era finito dopo che i dirigenti del Vorwärts Frankfurt, formazione in cui era cresciuto, avevano trovato tra le cose di Mike un foglio con la foto del Muro di Berlino e una scritta “Il muro deve sparire”, oltre al nome di Udo Lindenberg, rocker tedesco notoriamente contrario alla divisione della Germania. Per questa vicenda il calciatore era stato degradato (il Vorwärts era club legato agli apparati di sicurezza della Germania Est) e spedito in DDR-Liga. Da lì l’aveva prelevato durante la pausa invernale della stagione 1990-1991 la Hansa Rostock, dopo un provino alla presenza di Uwe Reinders e del suo secondo. Werner ci arrivato in treno, perché la sua moto, la MZ di fabbricazione locale, l’aveva piantato in asso dopo un “raid” invernale e nell’allenamento di prova il difensore aveva legnato (non metaforicamente) il suo tecnico. Prima di metterlo sotto contratto lo staff della Hansa mise solo una condizione: Mike deve dimagrire. Lui lo farà con la cosiddetta “dieta della vodka”. Per una settimana mangiava tre volte al giorno una salsiccia accompagnata da bicchierini di vodka. Dopo una settimana di rodaggio, i chili se ne erano andati. A inizio del girone di ritorno Werner, che per il nuovo contratto si comprò una Harley Davidson presentandosi regolarmente al campo vestito da "cowboy". Giocherà nove partite in quello scorcio di stagione, prima di esordire a Gelsenkirchen con i biancoblù in Bundesliga. Quella fu la prima delle sue due partite nella massima serie. Perché al termine della stagione l'Hansa Rostock retrocederà, con la magra soddisfazione di togliere all’Eintracht Francoforte il Meisterschale. Werner, tuttavia, verrà perseguitato dalla sfortuna. Quando nel 1995 il club rimise piede in Bundesliga farà in tempo a giocare soltanto un altro match con il Borussia Dortmund. Con i gialloneri si procurò un gravissimo infortunio, che a 25 anni lo costringerà ad abbandonare il calcio di alto livello. Per il resto immagini di decadente novecento di frontiera, l'abbigliamento e l'acquisto di un'auto occidentale - se possibile una Mercedes - sembravano essere ben più importanti dei risultati per molti dei giocatori. Non solo il turbamento di Rainders aumento allorchè, in maniera del tutto abituale, dette il suo numero di telefono ai ragazzi e quasi tutti la risposero ridendo che non avevano nessun telefono privato: uno shock culturale per “Wessi”. E così Reinders si vide costretto a girare diverse viti per rimettere in quadra il marchingegno grigio del pallone della Stasi e quantomeno cominciare a inclinarlo se non a capovolgerlo. Per questo uno dei suoi primi atti ufficiali fu l'abolizione del saluto obbligatorio "Sport frei!". Gli onesti meccanismi in stile militare della DDR erano profondamente ancorati nelle menti dei giocatori dell'Hansa. Uwe Reinders, il compagno dalla bocca anticonformista e dalla retorica tagliente, sarà un motivatore da manuale, abilissimo nel far eccitare i suoi giocatori e insegnare loro cosa significava essere professionisti pagati, con tutti i privilegi, ma anche gli obblighi annessi. Vuoi una Mercedes? Gut, scendi in campo e sculaccia i culi dei tuoi avversari. Il miracolo di Rostock, plasticamente mostrato durante il rito pagano della sollevazione dell’Ostseekicker, tolse il cappotto plumbeo della tristezza letargica del club. Reinders era senza dubbio il vento nella vela, abbellita dal grifone anseatico, issata sull'ondeggiante battello rosso. La sua metodologia dette subito i frutti sperati. Usò consapevolmente il vocabolario tedesco orientale perché descriveva le virtù della FCH meglio di ogni altra cosa e l'Hansa dominò il campionato con la giusta dose di aggressività e determinazione. I nomi da spendere sono quelli di Juri Schlünz, il capitano, leggenda dell'Hansa e autentica sentenza sui calci di punizione. In difesa Heiko März e Hilmar Weilandt e là davanti il prolifico bomber Henri Fuchs insieme all’altro “Sturm und Drang” Volker Röhrich, un duo da mantellaccio goethiano che fece sbreccare i gradoni di cemento dell’Ostseestadion la cui unica testimonianza oggi resta il muretto ristrutturato dei botteghini con la scritta "Kartenverkauf" (vendita biglietti). Il club si tolse una soddisfazione, grazie all’accordo tra la UEFA e la Federazione tedesca, partecipando alla Coppa dei Campioni, in rappresentanza della “defunta” DDR, uno Stato che dal 3 ottobre 1990 non esisteva più. Il sorteggio accoppierà l’Hansa al Barcellona. L’undici di Rostock capitolerà nettamente 3-0 al Camp Nou. Al ritorno la consolazione di imporsi 1-0 con una rete di Michael Spies. Sarà l’ultimo acuto, l'ultima Hansa, perché poi gli uomini di Uwe Reinders, esonerato a metà marzo del 1992 coleranno a picco e oggi l'Hansa langue in tornei minori dopo aver fatto sognare, seppure per poco, i tifosi del Ostseestadion.




lunedì 15 luglio 2024

KAPITÄN "FRITZ"






Friedrich sobbalzò sul letto per un colpo di tosse. Quella maledetta bronchite lo stava mettendo troppo spesso in pessime condizioni e anche il cuore ne risentiva. La luce che filtrava attraverso le tende della camera si posava sui cimeli della sua gioventù, ricordi di un'altra epoca e di un'altra epica. Era cambiato il mondo, niente di preoccupante, sembra sia sembrava fosse sempre accaduto, almeno su quello non c'erano dubbi. Si alzò, e dopo qualche passo strascicato con le pantofole di pelle scura, appoggiò i palmi delle mani sul davanzale, ad un tratto distinse la sua faccia riflessa nel vetro della finestra intravedendo in lontananza la cupola d’ardesia della Chiesa di Alsenborn ormai libera dalla neve dell’inverno. Si riconobbe. Non era poco, in fondo. Riconobbe il naso grosso, le rughe e la malinconia. Avrebbe venduto l’anima al primo diavolo di Goethe 
per poter salire quella sera sulla collina di Betze, scendere nella pancia dello stadio seminascosto dal verde del bosco, rimettersi la sua maglia aderente rossa, infilarsi le scarpette tirate a lucido e gettarsi in campo ancora una volta come lo aveva fatto per ventiquattro anni filati con il suo amato Kaiserslautern. Ja, Kaisersalutern. Città tipicamente tedesca della Renania, tante industrie meccaniche, un discreto comparto tessile, la bellezza del legno lavorato e persino odore di buoni sigari accompagnati dal solito boccale schiumante di birra.

“Fritz non scendi a vedere la partita?”

La voce è quella di sua moglie, Italia.

Lei, si comprende, è italiana, i genitori in uno slancio patriottico pensarono bene di chiamarla come la loro terra: Italia Walter. Perché lui è Friedrich Walter, anzi, Fritz Walter. 

Una volta in un tema di classe uno scolaro scrisse che la città di Kaiserslautern, settanta chilometri da Magonza, venne fondata da Fritz Walter. In fondo non aveva tutti i torti. Fritz Walter era diventato una sorta di figura mitica, non solo in termini calcistici, un simbolo di rinascita e di rivendicazione della Germania sconfitta, ferita e umiliata dalla sconfitta e dai bombardamenti. Ambasciatore sportivo, capitano della nazionale tedesca e luogotenente del leggendario allenatore Sepp Herberger, con il quale mise a punto la squadra del "Miracolo di Berna" del 1954, vincitrice della Coppa del Mondo. Nato all'ombra della Grande Guerra a Alsenborn, cittadina oggi riunificata con il villaggio di Enkenbach, venne battezzato con il nome di Friedrich Walter, anche se fin da piccolo tutti lo chiamarono naturalmente e semplicemente "Fritz". Due costanti hanno plasmato la vita calcistica di Fritz Walter. Da un lato c'era la sua squadra, il Kaiserslautern, per la quale giocherà per ventiquattro anni consecutvi. E poi c'è stato il rapporto con il citato Sepp Herberger, l'allenatore della nazionale tedesca, che promosse Walter più decisamente di ogni altro suo giocatore. Herberger lo aveva scoperto nel 1940. La prima apparizione del ragazzo risultò decisamente promettente: tre reti nella vittoria per 9-3 contro la Romania. "Sei il benvenuto, Fritz", disse Herberger al giovane esordiente. Ma sebbene l'allenatore cercò di fargli evitare la divisa durante il conflitto a Walter fu ordinato comunque di arruolarsi nell'esercito e lui lì giocò nella squadra composta dai cosiddetti "Rote/Jäger" i paracadutisti della 26° Luftlandebrigade, reclutato dal comandante Hermann Jager.

“No, non vengo, non me la sento, dopo mi dirai come è andata.”

Settantasei anni e non sopportare più le emozioni del calcio, della vita.

Quel pomeriggio, era il maggio del 1998, e battendo in casa il Wolfsburg per 4 - 0, con doppiette di Olef Marschall e Martin Wagner il Kaiserslautern divenne ormai irraggiungibile per gli inseguitori. Quattro punti di vantaggio sul Bayern, che non riuscì ad andare oltre uno stentoreo pareggio per 0-0 a Duisburg. Fu la prima volta, da quando fu fondata la Bundesliga nel 1963 che una società neopromossa riusciva a vincere il Meisterschale. I diavoli rossi, o Die Rote Teufel, allenati da quel istrione di Otto Rehhagel con il redivivo Ciriaco Sforza in cabina di regia, festeggiarono il titolo davanti a 38.000 spettatori. E pensare che se non fosse stato per l’attento speaker dello stadio, forse quella sera l’FCK 1900 avrebbe potuto anche non farcela.

“Otto, conta gli stranieri”, gracchiò l’altoparlante a 10 minuti dal calcio d’inizio di una partita di qualche sabato precedente.

In effetti i "forestieri" in maglia rossa erano più di quelli previsti dalle regole.

Cosicché fra il borbottio del pubblico, occhiatacce e frenetica agitazione, il K’lautern rimediò a un inopinata figuraccia con annessa sconfitta a tavolino che poteva pregiudicare davvero l’ottimo lavoro svolto fino a quel momento dal tecnico di Essen iniziato in agosto quando i “Die Roten Teufel”, avevano piegato gli eterni protagonisti della Baviera con un goal del “Maresciallo” Olaf e Otto si era preso una bella rivincita con la squadra che lo aveva licenziato appena due anni prima. L'FCK alzò gli scudi davanti all’estremo Andreas Reinke con difensori nodosi e caparbi come Harry Koch, l'infaticabile Martin Wagner, il gigante ceco Miroslav Kadlec e l'implacabile danese Michael Schjønberg. A centrocampo il già citato Sforza, figlio di un imbianchino italiano emigrato in cerca di fortuna, reduce da un esperienza non troppo gratificante a Milano con la maglia dell’Inter. A Kaiserslautern Ciriaco si accorse che la palla era tornata ad ubbidirgli ciecamente e allora riprese a impartire ordini e disegnare geometrie. Lo sostenevano Andreas Buck e il brasiliano Everson Ratinho, unite alla qualità e al talento di Marco Reich e del giovane Michael Ballack che avrebbe fatto la fortuna di Goethe ancor più delle epistole di Werther.

Davanti, tre interruttori accesi senza soluzione di continuità: Olef Marshall, Pavel Kuka e il bulgaro Marian Hristov.

“Gol- Gol- Gol- Gol", o forse "Tor- Tor- Tor"  ripeteva Italia, nel salotto di casa Walter, fra le ceramiche, i bricchi e le assenze impresse sotto il vetro dei quadretti appesi alle pareti. Il Kaisersalutern da quel giorno non vincerà più niente. Chissà, Fritz forse se lo sentiva, pare ad ogni marcatura gli scendesse via una lacrima. Difficile dire se fosse di gioia o di tristezza. 

Gute Reise Kapitän 







LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...